Beatrice Venezi (laPresse)

Parola di direttore

Più “edutainment”, meno flauto dolce. Non è musica per vecchi

Matteo Matzuzzi

Difende il suo titolo di “maestro” e dà qualche idea per la diffusione della cultura musicale in Italia. Beatrice Venezi al Festival del Foglio 
 

Al festival dell’Innovazione del Foglio, a Venezia, è intervenuta anche Beatrice Venezi, giovane musicista che si è già affermata come direttore d’orchestra. Ecco che cosa ha detto, intervistata da Matteo Matzuzzi.
 

Qualche mese fa c’è stata un po’ di polemica anche sui social e sui giornali, perché lei ha rivendicato il fatto di essere definita “maestro” e “direttore”. In un mondo dove oggi si fa molta attenzione – ministra, assessora, sindaca – lei ha detto: “Io sono direttore”. Perché? “Tanto per cominciare, perché il titolo accademico è quello di “Maestro” e non “Maestra”. È un fatto oggettivo da questo punto di vista. Da lì ho affrontato la questione “direttore” e “direttrice” nello stesso modo. Per me tutta la polemica che è sorta dopo mi è sembrata veramente fuori luogo: in un mondo in cui si sostiene l’idea dell’autodeterminazione, si rivendica il diritto ad autodeterminarsi, a maggior ragione con la mia professione credo di avere tutto il diritto di determinare il modo in cui voglio farmi chiamare”.

Per chi non lo sapesse, Forza Italia l’ha inserita tra i 100 leader del futuro. Per una persona come lei che fa cultura in Italia è un fatto abbastanza prestigioso e se vogliamo particolare, perché di solito si inseriscono persone che hanno a che fare con il mondo finanziario, politico. Quanto è difficile emergere in un settore come quello della musica, che per i non addetti ai lavori è considerato molto conservatore, rigido, maschilista? Lei quanto ha dovuto lottare? “Devo ancora lottare tutti i giorni in verità. A questo si aggiunge anche un altro aspetto legato all’età e al fatto che comunque viviamo in un paese estremamente gerontocratico. Delle giovani generazioni si fa una narrazione a mio modo di vedere molto sbagliata, perché si continuano a descrivere i giovani come dei bamboccioni che non vogliono prendersi delle responsabilità. Io sono assolutamente convinta che le giovani generazioni vogliano assumersele ma che spesso e volentieri non trovino spazio, tant’è che poi assistiamo alla fuga di cervelli all’estero, dove a 40 anni non si è più una “giovane promessa della musica”, o di qualsiasi altro settore, come invece sento spesso dire nel nostro paese. C’è un aspetto legato al genere sicuramente, c’è un aspetto legato alla questione generazionale e c’è poi ovviamente un aspetto legato anche alla modalità di comunicazione che ho scelto di dare del mio mondo specifico: molto attenta alle giovani generazioni e a un pubblico il più ampio possibile. Per me la musica classica non deve essere qualcosa di elitario perché non è nata così, è nata per essere un’espressione popolare che abbraccia e che può essere abbracciata da tutti, e che deve essere conosciuta, soprattutto nel paese dell’opera lirica”.
 

Le faccio una domanda che mi interessa particolarmente per il mestiere che faccio. Secondo lei i giornali raccontano bene o male la musica classica? Non è che forse pensano che il destinatario degli articoli o degli approfondimenti sia comunque un pubblico elitario? È un problema legato al mondo della cultura in generale, come viene comunicata in Italia, con questo atteggiamento sempre molto cattedratico, qualcosa che cade dall’alto, che parte da un’élite di poche persone che conservano la conoscenza e ne mettono a disposizione per la massa ben poco, in verità. Poi c’è un altro aspetto: oggi per esempio si fa un gran parlare di “edutainment”, un trend neanche troppo nuovo che personalmente ritengo molto valido per avvicinare dei neofiti a un mondo come quello della classica, che viene visto come distante, polveroso e difficile. Ecco, tutto ciò che è anche solo vagamente d’intrattenimento, nel nostro paese quasi non ha dignità di essere considerato cultura. Credo che anche questo aspetto sia molto fuorviante e allontani il grande pubblico. Comunque c’è un’inversione di tendenza da parte dei giovani, o almeno c’era fino a prima della pandemia, vediamo che cosa succederà adesso con il ritorno alla normalità. Questo è un segnale molto incoraggiante, giovani che vogliono non solo fare musica ma anche andare a teatro e sentire, ascoltare, vedere e conoscere. Questo è particolarmente vero nelle grandi città mentre c’è ancora tantissimo lavoro da fare in provincia. Poi se penso alla modalità con cui viene insegnata l’educazione musicale nelle nostre scuole, direi che anche lì c’è un po’ di lavoro da fare”.

Cosa bisognerebbe fare a livello scolastico? “Io sono contraria all’idea dell’insegnamento del flauto dolce: i flauti che vengono forniti alle scuole sono degli strumenti quasi finti, di plastica, spesso emettono fischi piuttosto che reali note. Credo poi che sia sbagliato il concetto per cui si deve necessariamente imparare uno strumento per poter apprezzare la musica. Io per esempio ero totalmente negata per il disegno, a scuola, quindi tutte le volte che avevo l’ora di storia dell’arte ero felicissima, ma quando si trattava di prendere in mano una matita, quello non era certo il mio momento preferito della giornata. Immagino che per chi non ha la minima vocazione per uno strumento, perché non tutti l’abbiamo, questo possa essere controproducente rispetto allo sviluppo di un amore e di una conoscenza della musica classica. Credo che si dovrebbe insegnare la capacità di ascolto, anche perché avrebbe anche un valore di educazione civica molto importante. E si dovrebbe probabilmente recuperare il canto corale, perché la voce è il nostro primo strumento, uno strumento che appartiene a tutti e che tutti possiamo educare: prima lo si fa, fin da bambini, e più diventa un fatto naturale. Se dovessi dare qualche suggerimento, sarebbero questi, insieme alla conoscenza di quello che è il nostro patrimonio: l’Italia ha dato i natali a una delle forme musicali più frequentate in assoluto ancora oggi, che è l’opera lirica, e di questo raramente si parla nelle scuole”.

 

Abbiamo parlato del contesto italiano dove la musica anche presso i giovani nelle città riesce ad attrarre sempre più persone, a livello locale un po’ meno. Il trend è lo stesso nel resto d’Europa? Si fa spesso l’esempio la Germania che come cultura musicale, anche a livello di educazione scolastica, è sempre stata forse la “principessa”. “Io ho la fortuna di viaggiare molto per lavoro e quindi di vedere in giro per il mondo come funziona. Quest’anno in particolare ho fatto due esperienze che mi hanno confermato quella che era la mia percezione. La prima è stata in Inghilterra: sono stata a un festival, a Londra, che in due mesi ha proposto otto recite dello stesso titolo, un fatto quasi impensabile in Italia. Persone di tutte le estrazioni sociali, appassionati, gente che veniva per la prima volta a teatro, vestiti di tutto punto oppure che arrivavano con il cestino del picnic che avevano fatto al parco. Credo che questa sia la fruizione giusta del teatro, non un evento, non qualcosa di elitario ma qualcosa a cui tutti possono accedere. Anche sfatando quel mito per cui si dice sempre che prima di tutto si deve capire che cosa si va a sentire, per cui bisogna studiare, conoscere… È chiaro che la conoscenza dà una possibilità di apprezzare maggiormente ciò che si va ad ascoltare, però dall’altra parte, come in tutte le forme d’arte, prima di tutto si deve essere in grado di lasciarsi emozionare. L’altra esperienza è stata in Francia: i nostri vicini di casa supportano gli artisti. C’è una visione dell’arte nella quotidianità, una frequentazione quotidiana dei teatri ma anche in televisione, dove è normale vedere artisti del teatro di prosa o di musica classica in programmi prime time. Questo sicuramente fa la differenza nella modalità di approccio da parte del pubblico”.

Penso anche all’arte moderna: spesso vengono costruiti articoli o approfondimenti di giornale con descrizioni sovraccariche di significati e alla fine uno è quasi intimorito ad andare a guardare e ammirare l’opera, l’installazione, perché ha letto così tanto, si è informato a tal punto che teme di non riuscire a vedere cosa è espresso. Con la musica classica può accadere lo stesso, ogni anno prima del 7 dicembre, inaugurazione della stagione  della Scala, i giornali traboccano di spiegazioni sull’opera che sarà presentata e magari il neofita finisce intimorito da cosa andrà a vedere alle cinque e mezza del pomeriggio. “Oltretutto magari entra in sala, inizia ad ascoltare, preso dall’emozione inizia ad applaudire e c’è puntualmente qualcuno che lo zittisce, che lo fa sentire di conseguenza un ignorante. Tutto sommato anche l’applauso fuori dal momento canonico, per quanto possa ovviamente interrompere la narrazione musicale, dall’altra parte è anche sinonimo di apprezzamento. Per quello che mi riguarda è sempre ben voluto”.

Quando non fa il direttore, che musica ascolta Beatrice Venezi? “Un po’ di tutto, mi piace tenermi aggiornata anche su quelli che sono i nuovi trend, che cosa piace alle persone, che cosa viene proposto dal mercato. Devo dire con la Trap non ci riesco, è l’unica cosa che non riesco ad ascoltare, però sono sempre molto aperta e curiosa”.

  • Matteo Matzuzzi
  • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.