il foglio del weekend

La musica del Federale

Francesco Palmieri

La compose  Morricone nel 1961 per il film di  Salce. Fu il suo esordio. Mentre Nino Rota affiancava Fellini e Visconti

Non tanto due persone, quanto due archetipi viaggiavano sul sidecar più celebre del cinema italiano nell’agosto di sessant’anni fa, quando approdò nelle sale Il federale di Luciano Salce. Alla guida il graduato della Milizia Primo Arcovazzi (Ugo Tognazzi), cremonese e fascistissimo come il concittadino Roberto Farinacci; nel carrozzino laterale il suo prigioniero, professor Erminio Bonafé (Georges Wilson), futuribile capo del nuovo governo democratico in attesa della caduta del regime. Il tragitto dall’Abruzzo verso Roma del milite e di Bonafé, impervio per spiacevoli avventure e condizione delle strade, è ritmato dagli stentorei avvisi: “Buca! Buca con acqua! Buca con fango!”. Ed è scandito – contrappunto fra i due opposti archetipi – dai Canti di Leopardi in edizione tascabile ma pregiata, che il professore appena può rilegge per lenire l’anima, mentre Arcovazzi ne usa le pagine per rollarsi le sigarette, mortificando l’indignato ma impotente intellettuale (“Ma che ha fatto, mi ha staccato Il passero solitario? Il poeta ci ha messo due settimane a comporlo, e lei, lei se lo vuol fumare in un minuto!”. O con più tenue sgomento, per un’altra cicca arrotolata con il Canto Ad Angelo Mai: “In fin dei conti, è un’opera minore”).

Corrosivo ma malinconico – due tratti che serberà fino al più tardo Fantozzi – Salce estrae commedia dal dramma della guerra, risolvendolo in una pacificazione fra l’ottuso ma a suo modo integerrimo Arcovazzi e il colto professore, che alla fine gli salverà la vita. L’agognata uniforme da federale, vestita ignorando che intanto Roma è stata presa dalle truppe americane, farà rischiare il linciaggio al fascista in una scena che, per chi visse la guerra nella Capitale, pare ispirata alla tremenda fine di Donato Carretta, il direttore del carcere di Regina Coeli.

Il film fu un successone che ne conteneva inconsapevolmente un altro ma futuro, nascosto eppure in evidenza nei titoli di testa, un embrione che al suo sviluppo segnerà la storia del cinema mondiale: l’esordio di Ennio Morricone come compositore per il grande schermo. Salce lo avrebbe già voluto in una pellicola precedente, ma quando fece a Dino De Laurentiis il nome del giovane musicista romano, il produttore obiettò: “Ma chi è? Non lo conosco”. E gli preferì il più noto Armando Trovajoli. Con il “commento musicale” al Federale, Morricone stese sul pentagramma il senso di quella vicenda: “La rappresentazione di una realtà grottesca e tragicomica, che unisse il dramma a una velata ironia”, avrebbe raccontato nell’autobiografia tanti anni dopo al curatore Alessandro De Rosa.

Quella “realtà grottesca e tragicomica”, che nemmeno oggi sfugge agli spettatori, si sublimò nelle felici soluzioni estetiche con cui il cinema provava a fare, e persino a chiudere, i conti con la Seconda guerra mondiale. L’avevano vissuta tutti da protagonisti o testimoni: produttori, sceneggiatori, registi, attori, musicisti, operatori, proiezionisti, maschere dei cinematografi. L’aveva vissuta il pubblico. E’ del 1960 Tutti a casa di Luigi Comencini sul dramma dell’8 settembre ’43. Ed esce come Il federale, l’anno dopo, Una vita difficile in cui Dino Risi racconta le idealità del periodo bellico e le deluse aspettative del dopo: protagonista pervasivo è Alberto Sordi, l’antieroico italiano medio in cui ciascuno dichiarerà, mentendo, di non riconoscere se stesso.

Niente di più azzeccato, per miscelare nelle note tragedia e comicità, della marcetta militare che accompagna i titoli d’apertura del Federale. Prima delle molteplici intuizioni nella lunghissima carriera cinematografica di Morricone, fu la sfasatura tra gli accenti della melodia che danza sul rullante rispetto al ritmo degli altri strumenti. “In particolare – avrebbe spiegato – feci eseguire a una tuba un Si bemolle grave, sincopato, che funge quasi da pedale estraneo alla tonalità principale e che così piazzato fa sorridere perché sembra quasi un errore”.

Il cinema fungeva da detonatore a una carica di genio artistico già accumulata negli studi di composizione, perché Morricone ripescava l’idea di quella dissonanza dal primo brano di musica assoluta scritto a ventidue anni: ‘Mattino per pianoforte e voce’ del 1946. La medesima trasfusione di creatività classica applicata al cinema, ma in misura amplificata dalle autocitazioni, fu la costante di un altro genio di diciassette anni più grande di Morricone: il milanese Nino Rota, già bambino prodigio e assai famoso nel 1961 come versatile compositore classico e d’opera lirica, ma che non s’inibiva di firmare innumerevoli colonne sonore non solo per i grandi film d’autore, ma anche per Totò al Giro d’Italia e Totò e i re di Roma. (E di lì a poco, nel ‘64, inventerà la canzoncina per la serie tv di Gian Burrasca decostruendo, s’ipotizza, l’aria mozartiana di Papageno per trasformarla in Viva la pappa col pomodoro).

Nella primavera che precedette l’uscita del Federale, in un’Italia bifronte che si guarda all’indietro ma che sogna in avanti, La dolce vita viene proiettata all’Henry Miller’s Theatre di New York: premessa per le quattro nomination all’Oscar e rivalsa sulle polemiche che ne avevano accompagnato (ma anche favorito) il successo sin dall’anteprima milanese del febbraio 1960. Colonna sonora, naturalmente, di Nino Rota, che solamente la morte separerà dal connubio artistico con Federico Fellini. Per godere di un quadro coevo e policromo del mondo a cavallo di quel magico biennio, passiamo la parola a Giuseppe Marotta, il quale assieme alla scrittura narrativa praticò quella di critico cinematografico: “1961, quanti e quali doni ci porti? Dacci anzitutto uno specchio fedelissimo, nitidissimo, che rifletta la nostra vera immagine fra i balletti verdi e i balletti rosa, fra le evasioni di ergastolani e i crolli in Borsa, fra gli inenarrabili diamanti delle prime alla Scala e la bambina morta di fame e freddo a Torino, fra le nozze e i divorzi delle coppie famose e le intemperanze notturne dei principi romani in via Veneto, fra le assegnazioni truccate di automobili-premio alla tv e i massacri in Etiopia o nel Congo o in Algeria, fra le apparizioni di Elsa Maxwell e i rigurgiti di poliomelite, fra l’incudine e il martello di ogni cosa”.

Ecco restituita, in poche righe, l’atmosfera dell’epoca per meglio immaginare Rota e Morricone che lavorano davanti alla tastiera dei loro pianoforti. Eppur così diversi l’un dall’altro. Il primo gracile figura d’angelo gentile di cui allievi e amici ricorderanno sempre l’andatura lieve quasi danzante; il secondo solido e volitivo o quasi burbero, che aveva fatto la gavetta suonando la tromba fino a spaccarsi il labbro; l’uno studioso di esoterismo; l’altro maestro nel gioco degli Scacchi; capaci entrambi di trascorrere, malgrado la diversa formazione, dalle partiture più complesse alla canzone leggera (se Rota musica Gian Burrasca, Morricone compone di getto Se telefonando per Mina). Li accomuna, soprattutto scrutando nel presente, un aggettivo. Irripetibili.

Quando potremo più ascoltare da qualcuno certe miracolose melodie per grazia e gloria del cinema (e non solo)? Chi comporrà di nuovo brani talmente belli come Gabriel’s oboe o il tema d’amore del Padrino, che né l’uso e l’abuso nella pubblicità né i molteplici riarrangiamenti possono usurare? 

“Gli artisti non si possono scindere dal loro contesto. Negli anni Sessanta, l’Italia del boom economico sentiva la necessità di raccontarsi ma anche di riscrivere il passato recente della guerra: Fellini, Pasolini, Leone, Rota, Morricone erano carichi di esperienze vissute”, osserva il biografo di Morricone, Alessandro De Rosa: “Loro avevano patito i bombardamenti, in certi casi la fame, comunque le difficoltà dell’esistenza, che non ci rendono migliori ma suscitano la necessità, persino l’impudenza di volerle trasferire al mondo perché sono esperienze universali. Se però nella vita non ti succede quasi niente, se non hai toccato il fondo e il cielo, potrai soltanto raccontare storie minimali. Adesso, se si esclude un’esperienza collettiva significativa come la pandemia, i musicisti, gli autori, anche gli attori vivono chi più chi meno nella bambagia. Con i racconti, e le espressioni, che ne conseguono. Metti invece il caso di Morricone: ha sempre provato una volontà di riscatto che lo portava a imporre il suo ‘marchio di fabbrica’. A differenza di Rota, che veniva da una buona famiglia borghese e con i registi era più accondiscendente, Ennio aveva sofferto la povertà e perciò considerava il successo anche come un’emancipazione personale”. Ma c’è una seconda condizione, secondo De Rosa, che rese straordinari quegli anni: “La relazione umana tra registi, sceneggiatori, compositori e attori. Un film era frutto di un processo intessuto su questo scambio: Rota e Fellini, Morricone e Salce o Leone avevano sviluppato le rispettive unioni artistiche grazie a comuni riflessioni e a un intenso scambio reciproco: un metodo di lavoro che sta andando perso con la progressiva spersonificazione dei rapporti. Basti pensare a come si produce oggi un film o un libro”.

Se un Morricone, con tutti i suoi talenti, esordisse oggi nel cinema anziché in quell’estate di sessant’anni fa, diventerebbe Morricone? Certo, coi se e coi ma… Però, c’è pure un’altra cosa: la si chiami destino, karma, sincronicità, tanto alla fine un’etichetta importa poco. Fatto sta che un disegno misterioso pare sotteso a certi incontri. Prendiamo Fellini con Rota: si conoscono, riferiva il critico Tullio Kezich, sotto la sede della casa di produzione Lux in via Po a Roma. Federico vede il maestro alla fermata dei mezzi pubblici e gli chiede che autobus stia aspettando, Rota nomina il numero, e mentre Fellini spiega che non passa di là, proprio quell’autobus arriva. “Ovviamente” è l’avverbio che impiegherebbero tipi come Fellini e Rota. “Incredibilmente” è quello utilizzato da Kezich, il quale tuttavia ammette che, vero o meno, “l’aneddoto racchiude la sintesi del rapporto fra regista e musicista come effettivamente proseguirà per un quarto di secolo: un fenomeno di empatia, irrazionalità e magia”. In sintonia d’altronde con l’interesse per l’occulto da entrambi coltivato, che stimolerà Rota a collezionare una imponente biblioteca esoterica assieme a Vinci Verginelli, poeta e professore di lettere in un liceo romano nonché librettista di alcune opere a carattere mistico del musicista, tra cui la Cantata Mysterium scritta prima di lavorare alle musiche per Otto e mezzo di Fellini e per Il Gattopardo di Luchino Visconti (questa Cantata sarà scelta, il 9 maggio ‘79, per commemorare l’anniversario della morte di Aldo Moro al Teatro dell’Opera di Roma alla presenza del presidente della Repubblica, Sandro Pertini. Rota è morto giusto un mese prima).

Chissà poi quale disegno sottende al rapporto tra Leone e Morricone, che li renderà il binomio per antonomasia nella storia del cinema. Verso la fine del 1963 questo tal Sergio Leone, che dice di essere un regista, telefona a casa Morricone e chiede a Ennio se può andare a trovarlo per discutere di un suo progetto. Appena gli apre la porta, nel musicista scatta qualcosa: “Notai da subito – racconterà nell’autobiografia – un movimento del labbro inferiore che mi ricordava qualcosa: quell’uomo assomigliava a un ragazzino che avevo conosciuto in terza elementare. Gli chiesi: ‘Ma tu sei Leone delle elementari?’. E lui: ‘E tu Morricone che veniva con me a viale Trastevere?’. Da non crederci. Presi la vecchia foto di classe: c’eravamo tutti e due. Fu incredibile ritrovarsi dopo quasi trent’anni”.

E sarà concepita, così, la colonna sonora di Per un pugno di dollari.

Ma quando fu davvero concepita? Questa domanda porta a dividere gli esseri umani in due categorie. Quelli che risponderanno: la musica nacque dall’incontro fra un regista e un musicista in un giorno del ‘63; e quelli che invece diranno: la musica nacque in una indeterminabile mattinata di scuola dall’inconsapevolezza di due bambini i quali si erano intuiti nel futuro, o furono intuiti nella stessa classe dalla forza misteriosa che regola i sogni, la genesi delle melodie, i passaggi degli autobus e tutti quegli incontri che per distrazione o superstizione scientifica ci ostiniamo troppo spesso a definire “casuali”.
Mysterium.

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