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Addio a Ezio Bosso che ha messo in musica la malattia

Mario Leone

Le sue composizioni si ispiravano a un mondo tonale che fosse accessibile a tutti, fatto di semplici melodie che potessero rimanere nell’orecchio dell’ascoltatore

Ezio Bosso se n’è andato. In silenzio. Nel momento peggiore per la musica e per gli artisti che vivono le difficili conseguenze del coronavirus. Ci lascia nella sua casa a Bologna mentre studiava partiture che non potrà mai eseguire. Ne era ben cosciente da tempo. Un presentimento sperimentabile solo quando ci si avvicina alla morte. Si spegne come le ultime note della Nona Sinfonia di Mahler, via via con meno forze, via via con più silenzi.

  

Salito alla ribalta grazie all’intervista con Carlo Conti durante il Saremo 2016 l’artista si era avvicinato alla musica all’età di quattro anni grazie al fratello per poi lanciarsi nello studio della composizione a Vienna. In Italia non ha mai avuto grande notorietà pur producendo una serie corposa di partiture. La vita di Bosso è sempre stata la musica e dal 2011 la malattia. Un cancro al cervello operato con successo ma che cela una sindrome autoimmune. Qualcuno pensa sia SLA altri luminari non riescono a fare una diagnosi circoscritta. I segni della malattia e delle cure appaiono subito sul suo corpo, ostacoli tremendi che lo allontanano dalle sue amate note. Un distacco doloroso che diventa però fonte di nuove idee e progetti. Ezio Bosso è musica e malattia, un’infermità fisica che non ha mai nascosto. La mostrava nella durezza del suo camminare sbilenco e nell’eloquio forzato. Non ha mai separato i due ambiti perché la musica lo sosteneva nei dolori della malattia e quest’ultima diveniva fonte d’ispirazione per la musica, la composizione e l’interpretazione.

   

 

Quell’intervista sul palco dell’Ariston commosse gli italiani. Un uomo in cui la resilienza, termine tanto abusato in questi tempi, si sublimava nell’arte. In Bosso ogni nota e gesto trasmetteva fatica, sofferenza. Spesso questo diveniva più evidente della musica stessa. Un seguito ampio di persone si è avvicinato all’arte grazie ai suoi racconti. Frequentatissimi i suoi concerti, gli interventi televisivi e le dichiarazioni. Si dava ai mass media con attenzione non volendo mai apparire più di tanto ma sfruttando la sua notorietà per diffondere le sette note. Una missione a cui si sentiva chiamato e che aveva imparato e ammirato in Claudio Abbado. Ad alcuni amici confidava la necessità di “costruire un futuro alla musica”. Chissà quanto avrà sofferto in queste ultime settimane respirando un futuro così incerto.

   

Ezio Bosso non era amato dalle élite della musica. Le critiche, alcune volte becere, venivano mosse al suo modo di dirigere, alle composizioni che proponeva e al suo modo di suonare il pianoforte. In verità quest’ultimo l’ha abbandonato presto non riuscendo più a controllare delle mani ribelli ai suoi comandi. Le composizioni si ispiravano a un mondo tonale che fosse accessibile a tutti, fatto di semplici melodie che potessero rimanere nell’orecchio dell’ascoltatore. La semplicità non è mai capita da chi pensa di possedere ogni anfratto dell’arte, o come diceva Bosso citando Beethoven “ci sono persone che pensano che la musica sia di loro proprietà”. La direzione era tutto determinata dai limiti fisici che peggioravano di ora in ora. Sgraziato in alcune movenze, non perfetto tecnicamente, impreciso. Non era Karajan ma nel panorama attuale della direzione non se ne vedono di novelli Herbert. Usare la sua disabilità per denigrarlo è stato quanto di più disgustoso che alcuni (pochissimi) abbiano perpetuato. Soprattutto perché lui non si è mai posto sul piedistallo come detentore esclusivo di segreti, tecniche o grandi scoperte. Gioiva con la musica e per la musica. Gioiva quando poteva farla e raccontarla coinvolgendo in questo mondo la gente comune. A quarantotto anni se ne è andato. Tutti noi dovremmo provare un pizzico di gratitudine per la sua vita e la testimonianza che ha reso. E fare silenzio.

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