Franco Battiato (foto LaPresse)

Che cosa c'è dopo Battiato

Simonetta Sciandivasci

L’ultima canzone del Maestro che torna a cantare la morte. Il monastero Ganden e tutte le nostre paure

La canzone di Franco Battiato sulla fame che abbiamo, quell’animale che ci portiamo dentro, e che si prende tutto anche il caffè, che è insaziabile e ingovernabile e ci fa vivi, comincia con un pensiero alla morte. Questo: “Vivere non è difficile, potendo poi rinascere cambierei molte cose”. Quando uscì era il 1985, Battiato aveva quarant’anni tondi ed era già convinto (consapevole?) che per cambiare, correggersi e ricominciare si deve morire, che la morte dà alla vita nuove possibilità, che l’una e l’altra sono sinergiche e complementari.

 

  

“La vita non finisce, è come il sonno; la nascita è come il risveglio”, canta in “Torneremo ancora”, l’unica canzone inedita del suo ultimo disco, uscito il 18 ottobre scorso, lo stesso giorno in cui, 1.010 anni fa (era il 1009), la Basilica del Santo Sepolcro di Gerusalemme, detta anche Chiesa della Resurrezione, costruita dove fu crocifisso e sepolto Gesù Cristo, e dove poi risorse, veniva quasi completamente distrutta per ordine del califfo al Hakim. Che coincidenza affascinante per una canzone e un disco che dicono, evocano, immaginano la resurrezione in moltissimi versi, in moltissimi modi. Non che sia la prima volta: ci sono la resurrezione, la reincarnazione, l’immortalità in diverse altre canzoni di Battiato, forse quasi in tutte. Vent’anni fa era già certo, e lo cantava in “Vite parallele”, che si sarebbe fatto strada “tra cento miliardi di stelle”, ne avrebbe scelta una e lì la sua anima avrebbe vissuto, “eterna”; in “Strani giorni” diceva che sentiva “il rumore dello swing provenire dal Neolitico, dall’Olocene”, quindi dentro di lui sentiva l’eco di un passato vissuto in un’altra vita. Trent’anni fa, in “Nomadi”, sapeva che se ne sarebbe andato via dalle città “nell’attesa del risveglio”.

 

  

Ha detto il manager di Battiato che d’ora in poi non ci saranno altre canzoni, nuove o vecchie, né dischi, né raccolte, né concerti: il maestro non sta bene, non starà più bene, s’accommiata così. Hanno scritto in molti che “Torneremo ancora” è un testamento, tuttavia Battiato l’ha composta tre anni fa perché Caterina Caselli gli aveva chiesto un pezzo da far cantare ad Andrea Bocelli. Stava già male, naturalmente, e sapeva che non si sarebbe ripreso – e tuttavia chissà, Morgan pochi giorni fa ha detto: “Battiato può farcela, ma è una questione delicata”.

 

 

Un testamento è un atto unilaterale, una cesura: esclude il ritorno. Chi fa testamento dice la sua ultima volontà. Questa di Battiato, invece, è una canzone non su cosa vuole né su cosa lascia, ma su chi lui è, chi ha scoperto d’essere ora che avverte l’approssimarsi della morte e, trovandosela davanti, non trema di paura ma di quella incertezza buona che è la fiducia. Anziché dissolvere o ribaltare le cose in cui ha creduto per tutta la vita, intuendole o sognandole o immaginandole, la morte, accostandoglisi, gliele rinsalda, gliele illumina. E’, “Torneremo ancora”, un pezzo che racconta e trasmette la gratificazione per una ricerca che mostra di essere sulla strada giusta. Una strada che non finisce in una meta, ma in un’altra strada, e poi ancora in un’altra, e in un’altra, e in un’altra. “Finché non saremo liberi, torneremo ancora, ancora, e ancora”.

 

Scordiamoci di morire e risolvere il mistero, di poterci accedere soltanto per aver cambiato forma ed essere diventati spiriti, corpi di luce. La morte non dà accesso alla verità, né essa smette di calamitare i nostri sforzi dopo che siamo morti. Restiamo vincolati e limitati anche da morti, continuiamo a portarci dentro un animale molto affamato, torniamo per sfamarlo, da schiavi delle passioni diventiamo schiavi della luce. Guardando la vita dalla coda, Battiato vede che la condizione umana è la migrazione e che il senso dell’essere è il viaggio, del quale da vivi sperimentiamo la permanenza e da morti sperimentiamo il tragitto. Siamo migranti, ci contiene il significato doppio dell’errare: vagabondare e sbagliare. L’umanità che vive dopo la vita, Battiato la immagina composta da “migranti di Ganden in corpi di luce su pianeti invisibili”. In “A Lhasa e Oltre - Diario della Spedizione nel Tibet del 1948”, un libro di Giuseppe Tucci, tra i più grandi orientalisti del mondo, la strada per il monastero di Ganden, uno dei più importanti per il buddismo tibetano, è così descritta: “Si inerpica coraggiosa e decisa fino al convento, la fatica fisica è come un’allegoria delle difficoltà che bisogna superare per arrivare a Dio”. Dopo averci trascorso tre giorni, del Ganden e dei luoghi tutt’attorno, Tucci scrive che “sembrano isole sottratte al tempo, dove le giornate corrono uguali come ridotte a uno schema immutabile, le vicende della storia non vi giungono, l’azione non vi s’inserisce con la sua agitazione. Qui il rapporto non è più fra uomo e uomo, ma fra uomo e Dio. C’è un altro ritmo”.

 

“La vita non finisce, è come il sonno; la nascita è come il risveglio”, canta il Maestro in “Torneremo ancora”

Come potrebbe mai essere un testamento, quest’altro viaggio che ha anch’esso un altro ritmo, ed è forse l’ultimo di decine di altri, tutti popolati da danzatori sufi, profughi afgani, pellerossa americani, squaw pelle di luna, uomini con clave e uomini civili, vecchie bretoni, nomadi, viandanti, forestieri, pigmei dell’Africa, aborigeni d’Australia. L’ultimo viaggio da vivo che sa d’essere destinato a “un mondo inviolato che ci aspetta da sempre”, ma sa anche che il destino non basta per ottenerlo.

 

E per quanto il sonoro di “Torneremo ancora” riproduca il movimento dell’erranza e la luce della scoperta, e sembri già arrivare da un posto simile a Ganden, dove storia e presente e spazio e tempo non esistono o, se esistono, non condizionano niente, Battiato è qui che quel sonoro lo scrive e suona, qui nel regno dei vivi inveleniti dai telegiornali e ristretti dalle convenzioni spazio-temporali, dimostrando così la stretta mutualità tra questo mondo e quell’altro. Perché è questa la sua visione: alla morte serve la vita e viceversa. Nella morte, s’invera la vita e si chiarisce il senso doppio della finitezza umana, che nel non darci l’accesso alla verità, ci costringe inesorabilmente a cercarla.

 

“Molte sono le vie ma una sola quella che conduce alla verità, finché non saremo liberi torneremo ancora, ancora, e ancora”. Avesse voluto fare un testamento, ci avrebbe detto almeno qual è quella via, invece ci ha detto soltanto che esiste, e che questo non ci assicura che la troveremo, ma solamente che la cercheremo sempre, sia da vivi che da morti. Perché “siamo esseri immortali caduti nelle tenebre, destinati a errare, nei secoli dei secoli, fino a completa guarigione”, ha cantato ne “La sacre sinfonie del tempo”, quando ancora il tempo, per lui, era una misura da colmare e non una scadenza prossima e non più rimandabile.

 

Persino ne “La cura” c’è uno scoprirsi e pensarsi migrante, inappagato dalla meta o incapace di raggiungere quella definitiva

Franco Battiato è stato il nomade, il camminatore, il migrante di passaggio, in cerca tanto del cambiamento quanto del centro di gravità permanente, il provinciale cosmopolita che ci ha scortati sui treni per Tozeur, le metro giapponesi, gli alberghi a Tunisi per le vacanze estive, la prospettiva Nevskij, certi monasteri, sbagliando sempre la pronuncia delle parole straniere. E’ stato il sognatore che sognava per “inseguire il sacro” e trovare “frammenti di verità sepolte di quando fui donna o prete di campagna o mercenario o padre di famiglia”. E’ stato l’eremita che non è riuscito a fare a meno degli altri, a cambiare l’oggetto dei suoi desideri, a separarsi dal suo animale. E’ stato il mistico rapito dalla sensualità, l’inquilino delle estremità che, abitandole, ha scoperto che tra di esse non intercorre opposizione ma distanza. E’ stato tutto questo per decenni, con il solo obiettivo di esercitarsi alla transizione più importante di tutte: la metamorfosi della vita dopo la morte. Non per essere più libero, ma più saggio, più capace di cercare una terra senza confine.

 

Non c’è niente, in questo, della poetica del revenant, il vivo morente che si credeva morto e che, a un certo punto, torna tra i vivi per colonizzarli o per aiutarli, come fa il protagonista dell’ultimo libro di Antonio Moresco, “Canto di d’Arco”, lo sbirro morto che sta in forza presso la Centrale di polizia della città dei morti, con la quale la polizia dei vivi si mette in contatto per chiedere aiuto per risolvere i casi più difficili, più misteriosi.

 

 

Il mistero, per Battiato, è la legge davanti alla quale i vivi e i morti sono uguali, ed è la sola verità che sente di aver compreso e di volerci lasciare, non perché ci rimanga come testimonianza, ma perché valga come invito e sprone. “Ti invito al viaggio, in quel paese che ti assomiglia tanto, i soli languidi dei suoi cieli annebbiati hanno per il mio spirito l’incanto dei tuoi occhi quando brillano offuscati, laggiù tutto è ordine e bellezza, calma e voluttà”. Persino l’altrove che Battiato ha sempre immaginato come ricompensa, come vita successiva o semplicemente vita alternativa, pur avendo i connotati della quiete, del tramonto, dell’indefinitezza, è un altrove desiderante, voluttuoso, e quindi curioso, in movimento, in viaggio non verso la soddisfazione, ma verso l’altra scoperta. Altro che addii testamentari: qui c’è un Battiato più vivo, coinvolto, a lavoro che mai. La sua è una voce che batte, come quella che, in una poesia splendida di Mariangela Gualtieri, dice: “Siamo questo traslare, cambiare posto e nome. Siamo un essere qui, perenne navigare di sostanze da nome a nome. Siamo”.

 

E’ un testamento, questo? La morte non dà accesso alla verità, né smette di calamitare i nostri sforzi dopo che siamo morti

Siamo qui, saremo là, torneremo qui. E’ questa la staffetta che ci mette l’infinito in tasca, il percorso di cui la vita non è che un passaggio. “Cambiano capelli denti e seni a noi che siamo solo di passaggio”, cantava Battiato nel 1996, in una canzone che concludeva con un epigramma di Callimaco su Cleombroto d’Ambracia, il ragazzetto senza guai e particolari patimenti, che però si uccise dopo aver letto gli scritti di Platone in cui il filosofo del cielo spiegava che l’anima non muore, ma sopravvive al corpo, trasmigra, migra, viaggia, muta. “Nulla si crea, tutto si trasforma”, ed è per questo, grazie a questo, che torneremo sempre, mentre il mondo si ripopola e vivifica continuamente, ciclicamente, con i nostri spiriti che cercano l’alba dentro l’imbrunire, precipitano giù dall’eternità per errare, cercare Dio, risolverne il mistero, scoprire la verità, fallendo tutte le volte, e chissà per quanto ancora, forse per sempre.

L’umanità, allora, raddoppia, triplica, centuplica, ed è abitata da vivi e morti che collaborano al suo senso, al suo cammino, ai suoi tentativi.

 

C’è una cosa che, forse, più delle altre, è la ragione per cui “Torneremo ancora” ci eleva e commuove: ci suggerisce che potremmo essere e incarnare il ritorno di qualcuno che sta cercando la sua libertà. Ed è uno straordinario modo di pensarsi uomini tra gli uomini, vivi tra i vivi e i morti: immaginarsi come lo strumento con cui qualcun altro compie una ricerca di libertà. Chissà se è di quel qualcuno che, ogni tanto, sentiamo arrivare quell’“aiuto chiaro da un’invisibile carezza” che Battiato ha cantato in “Lode all’inviolato”. Se è quello il nostro custode: lo spirito che è tornato a cercare la sua libertà, attraverso di noi, per lui e quindi anche per noi. Noi qui, lui là. Il nostro caro angelo.

 

Il mistero, per Battiato, è la legge davanti alla quale i vivi e i morti sono uguali, ed è la sola verità che sente di aver compreso e di volerci lasciare

Quant’era più terreno e piccolo e umano, Battiato, quando cantava “La cura” e pensava che amare significasse proteggere l’altro dalle ingiustizie e dagli inganni del suo tempo, superare le correnti gravitazionali pur di non farlo invecchiare, salvarlo da ogni malinconia. L’abbiamo contestata in molti, quella canzone, reputandola paternalista (e quasi quasi patriarcale!), assistenzialista e pure un po’ mitomane. Non ci spiegavamo come fosse potuto succedere che Battiato avesse confuso la protervia con la trascendenza (“Conosco le leggi del mondo e te ne farò dono”!). Eppure, persino ne “La cura” c’è uno scoprirsi e pensarsi migrante, cioè inconcluso, inappagato dalla meta o più facilmente incapace di raggiungere quella definitiva: “Vagavo per i campi del Tennessee, come vi ero arrivato chissà, non hai fiori bianchi per me? Più veloci di aquile i miei sogni attraversano il mare”.

Torneremo ancora, anche dai posti dove ci ritroviamo senza sapere come, né perché. Esiste una forza che ci manovra, la stessa che ci farà sudare la verità per l’eternità, e che ci spedisce ovunque, a volte a caso, nella vita e nella morte, nel Tennessee o in un oceano di silenzio, senza che possiamo farci niente di più di quello che facevano i migranti di Ganden: andare, consapevoli che a ogni andare non corrisponde una meta, ma un ricongiungimento sì.

La “Lode all’Inviolato” di Battiato dice che “Degna è la vita di colui che è sveglio, ma ancor di più di chi diventa saggio e alla sua gioia poi si ricongiunge”.

Dentro Ganden c’è la parola Ga. Significa gioia.

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