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Senti che vita!

Stefano Pistolini

Jovanotti ci racconta il suo nuovo album in uscita oggi nato dalla collaborazione con Rick Rubin: “Non avevo idee e ho capito che l’idea poteva essere il non avere idee”

Primi freddi. E ora legale giù. Roma diventa buia. “Ti va d’incontrare Jovanotti, che sta per uscire il suo nuovo disco?”. Sì, certo – è come tornare a scuola, finisce lo spasso dell’estate, ma almeno si ritrovano gli amici, è un sollievo. Ci si rimette a sentire i dischi insieme. Con attenzione.

 

Esce oggi il nuovo album di Jovanotti: “E’ il disco meno pop che ho fatto in vita mia”

Di Lorenzo si sa che il nuovo album porta molte novità. Ascoltarlo con lui sarà interessante, aiuterà a capirlo. E poi si chiacchiera, come ormai capita di rado. Ecco Lorenzo: appare raggiante, in forma, contento, come uno convinto di ciò che ha portato a termine. Attacca subito: “E’ il disco meno pop che ho fatto in vita mia. Rick Rubin m’ha voluto portare in un luogo inesplorato. M’ha detto: fidati, ti farò vedere cose che non hai mai visto”. Rubin è il convitato di pietra di questo incontro. Anche se è ipotizzabile che alcuni tra voi chiedano: chi diavolo è ’sto Rubin, che ha rubato il cuore del nostro ragazzo? E’ un signore che, lavorando nelle retrovie, ha cambiato la musica americana e nella direzione giusta. Ha fondato due etichette destinate a orientare il mercato globale: la Def Jam e l’American Recordings. Ha prodotto, se non inventato, artisti come Beastie Boys, Public Enemy, Run DMC. Ha traghettato l’hip hop nel mainstream e viceversa, introducendo un criss cross tra generi, di volta in volta alle prese con Red Hot Chili Peppers, Kanye West, Jay Z, Tom Petty, Ac/Dc, Aerosmith, Joe Strummer, Lana Del Rey, Justin Timberlake, Johnny Cash e mille altri. E’ l’arcivescovo del suono americano, a due palmi dal soglio papale. Con uno stile tutto suo, che consiste nel trovare, o ritrovare, l’anima originale di un artista, restituendogli fiducia e naturalezza espressiva, agli antipodi del concetto di confezione musicale. Soprattutto, un grande guaritore. Intanto Jova s’è già lanciato a parlare del video che accompagna il primo singolo dell’album – “Oh, Vita!”: “Non avevo idee e ho capito che l’idea poteva essere il non avere idee. Ho ripensato ai proto-video dell’hip hop, prima che la videomusica diventasse un linguaggio creativo, allorché i cantanti hanno smesso di ‘essere’ e hanno cominciato a ‘fare’. Prima il cantante si limitava a ‘essere’ – represent dicono gli americani. Quindi se passi il tempo all’angolo della drogheria sotto casa di tua zia, là farai il tuo video. Con la telecamera che dal basso punta in su, per tagliar fuori lo squallore della strada e far vedere il fascino dei palazzi alti. E’ finita che abbiamo girato il video al mercato, quello in cui andavo da ragazzino con mia madre”. E la storia del tuo incontro con Rubin, com’è andata? “L’avevo conosciuto 6 anni fa, ma lo consideravo inarrivabile, come Michael Jordan per un giocatore italiano di serie C”, risponde, con le scintille negli occhi. “Negli anni Novanta avevo provato a contattarlo e non m’aveva nemmeno risposto. Gliel’ho raccontato e ci è rimasto male: non l’aveva saputo. Comunque era al di là dei miei sogni”.

 

 

“Con l’ultimo disco ho svuotato i cassetti, ci ho buttato dentro tutto quello che avevo. Un’operazione catartica”

 
“Oggi, dopo averci vissuto insieme due mesi, confermo la leggenda che lo circonda: è un personaggio enorme, mi ha steso. In ogni caso, quella volta io e Francesca eravamo a una cena di addetti ai lavori e non sapevamo con chi attaccare bottone. Anche lui se ne stava là in imbarazzo, col suo piattino in mano, insieme alla fidanzata. Ho detto a Francesca: ti rendi conto? Siamo nella stessa stanza con Rick Rubin. Mi sono fatto avanti. Gli ho detto: Rick ti volevo ringraziare. Sono un tuo fan e un tuo biografo. Se faccio questo lavoro lo devo a te, fin da quando t’ho intercettato ai tempi dei Beastie Boys, che sono stati i miei Beatles, il gruppo che m’ha convinto che anche io potevo fare quella roba. Io ero un dj, mettevo dischi. Il mio panorama erano Marco Trani e Faber Cucchetti, eroi romani della console. Ma mi piaceva il rap, che era una subcultura, un linguaggio underground. All’epoca in classifica c’era arrivato solo un pezzo rap: Rapper’s Delight. In Italia, zero. I Beastie Boys sono stati una folgorazione. Li mettevo al Veleno, ma la pista si svuotava. Però poi ebbero un po’ di successo anche qua, perché erano tre pischelli bianchi e DJ Television li spingeva. Dietro di loro c’era Rick Rubin. Poco dopo fece ‘Walk This Way’, la cosa più innovativa mai sentita. All’inizio non volevano farlo né gli Aerosmith, né i Run DMC, ma lui s’è impuntato. Aveva intuito che il rap doveva smettere d’essere una specie di jazz, fatto di indeterminazione. Rick ha portato il rap nella forma pop: strofa, inciso, 3’20” e fine del pezzo”.

 

“Per quelli nati negli ultimi vent’anni la dimensione dell’album è un’idea indigesta, incomprensibile. Per me, no”

Alla fine di quel primo incontro casuale, Muriel, la ragazza di Rubin, gli si avvicina: “Mi disse: scrivigli. Le persone che gli vanno a genio Rick se le ricorda”. E Jova scrive a Rubin: “Sappi che in Italia hai un amico. Conta su di me. Così un’estate è venuto, perché voleva comprarsi una casa in Toscana. Abbiamo girato insieme in macchina, ascoltando musica. Era colpito da come le persone si relazionavano con me, magari nei bar, quando un bambino o una signora mi avvicinavano. In ogni caso, fino a un anno e mezzo fa, non abbiamo mai parlato di lavoro, solo di passioni. Poi ci siamo rivisti a un concerto degli Avett Brothers al Madison Square Garden. Dopo lo show m’ha detto: se hai cose da farmi sentire, mandale. Magari facciamo qualcosa assieme. E ha aggiunto un altro messaggio chiarissimo: guarda che io a te non servo a nulla. So quanto vendi in Italia e non posso aggiungerci niente. Ciò che fai, lo fai già bene, riempi gli stadi, hai estratto 7 singoli dall’ultimo album. Però a entrambi può interessarci l’esperienza di un disco insieme. Costruire. Confrontarci. Uno scambio vero”. Ad aprile di quest’anno Lorenzo parte per Malibù. Con sé ha i demo dei nuovi pezzi. “Rubin ha detto: mi piace, si può fare. L’hanno interessato la mia voce e le melodie. I testi non ha nemmeno voluto che glieli traducessi. Il messaggio era: eliminerò da te le distrazioni che si frappongono alla tua comunicazione. Ti spoglierò. Ripartiamo da lì. Poi vediamo”.

 

Domanda: ma a te, Jovanotti, a quel punto, che t’andava di fare? “Io volevo fare un disco con Rick Rubin. Ero alla fine di un ciclo di 10 anni col mio produttore, Michele Canova. Dovevo re-innamorarmi di questa cosa. Azzerare, ripartire. Con l’ultimo disco ho svuotato i cassetti, ci ho buttato dentro tutto quel che avevo. Un’operazione catartica. Rubin è arrivato dopo questa liberazione, perché ho creato le condizioni propizie per farlo arrivare. Le cose accadono, se ti metti a loro disposizione”. Nel 2017 Jovanotti crede ancora alla dimensione dell’album? “Per quelli nati negli ultimi vent’anni è un’idea indigesta, incomprensibile. Ma io ragiono ancora con quell’unità di misura. Che però non può essere una routine. Se avessi fatto un altro lavoro con Canova, non avrei sentito il brivido del rischio, anche se lui è bravissimo e insieme produciamo hits. Volevo l’incertezza. Lo so che Rubin non è una garanzia sotto l’aspetto dei numeri, ma ha rimesso la musica al centro della mia vita. Ed è stato faticoso, perché mi metteva soggezione. Una volta m’ha chiamato da parte per dirmi una cosa importante: noi non facciamo show business. Noi facciamo musica”. Jovanotti aveva bisogno di sentirselo dire: “E’ stato ricominciare. Anche se farlo è stato come un ‘Cuore di Tenebra’”. Ci sarà un seguito? “A lui interessa la melodia italiana…” risponde Lorenzo, ma Francesca, la sua eterna ragazza, dalla sua poltrona entra a gamba tesa: “A lui interessi tu. Ha capito dove volevi andare e che, senza di lui, in questo momento per te sarebbe stato troppo difficile”. Direi: fine primo tempo.

 

“Negli anni Ottanta, a forza di sentire Tears for Fears, Peter Gabriel e soci, la musica italiana s’è sovraccaricata fino a scoppiare”

Qui comincia la parte più interessante della serata. E’ ora d’ascoltare. E siccome farlo in salotto ci avrebbe imbarazzato tutti e due, scendiamo nel parcheggio dell’albergo, dove c’è il macchinone con cui Lorenzo va in giro per l’Italia – una giardinetta grande, con un impianto come si deve, di quelli adatti alla scena di “Wayne’s World” in cui Mike Myers e soci si fanno rizzare i capelli mimando “Bohemian Rhapsody”. A quel punto, nella prematura notte romana, le possibilità sono due: immetterci nel traffico di Monte Mario, atroce, perché è una maledetta sera di Champions League. Oppure assumere l’atteggiamento di due headbangers del New Jersey, e fare ciò che si fa in ogni 7-Eleven dello stato: musica a manetta, fermi sul posto, finestrini serrati, sguardo fisso in un punto a caso del deflettore. Lorenzo ai comandi, perché il dj è lui. Così ho sentito per la prima volta “Oh, Vita!”, con una scaletta stravolta, perché lui vuole spiegarmi la logica del lavoro, la divisione tra pezzi lenti e pezzi veloci, pezzi acustici e roba digitale, cose semplici e cose complicate. Del resto, quando ti ricapita che un artista che ami ti presenti il suo lavoro non secondo la logica del marketing, ma secondo quella della sua panza, del cuore e del cervello? La prima cosa che Lorenzo seleziona è il singolo, quello che – azzardo – contiene il succo dell’esperienza catartica appena traversata. E il pezzo, sentito al massimo, con la gamma delle frequenze che rimbalzano nell’abitacolo, è una bomba. E’ al tempo stesso una botta rap, un inno, ma anche un’operazione culturale e un omaggio entusiastico, da fan, a ciò che Jovanotti ha amato e su cui si è formato, ovvero l’hip hop al decollo, imbocco anni Ottanta, quando i primi esperimenti “de quartiere”, si sono fatti potenti e l’affare è uscito dal ghetto. Che poi è quando anche Rubin apre il suo laboratorio. Guarda caso, “Oh, Vita!” pare un pezzo di Run DMC, versione 2.0. La prima cosa che noto, e che mi smuove i sentimenti, è che la voce di Jovanotti – sarà per l’entusiasmo con cui l’ha registrato, sarà per le diavolerie del guru – è ringiovanita di vent’anni, è risalita nei timbri, ha ritrovato quel drive scanzonato, musicarello, stradaiolo, innervosente ed edonista con cui l’abbiamo conosciuto, e che ce lo fece notare, quando il proprietario pazzo di un negozio in via Carrara, a Roma, dove adesso c’è un bar, ci fece sentire, come un carbonaro, un extendend play. Il bello è che il pezzo ha un testo importante, di quelli che Lorenzo imparerà a scrivere dopo, dando forma e rime a pensieri maturi, a riflessioni sui significati, con quell’impronta di magical thinking che poco alla volta l’ha permeato, facendone un cantautore cosmico. Intanto lui ha già cominciato a fare il playback di se stesso, aggrappato al volante della macchina ferma, col motore acceso. Mi viene in mente che anche ai pischelli dei 7-Eleven la polizia americana impone di tenere i motori sempre accesi, perché devono avere l’aria d’essere in procinto d’andarsene, sennò verrebbero accusati di vagabondaggio, o magari di adunata sediziosa, là, in the middle of nowhere, land of depression. A prima vista, non direi che a Lorenzo di questo pezzo stiano particolarmente a cuore le parole e i significati: non che li sottovaluti, ma è come se li dia per assodati, parte di un repertorio di cose dette, a cui attinge con regolarità. A lui, di questa canzone, che è il pennone del punto di svolta che sente di vivere, quel che gli sta davvero a cuore è il ritmo, il tiro, il groove. Di nuovo è il Jovanotti di ieri a rimettere fuori la testa – non che si sia dimenticato della sua inesauribile love story col ritmo, è che adesso torna davvero a comandare, come quando metteva i dischi dietro Via Veneto e i testi erano molto cool, ma la rivoluzione stava in ciò che ti faceva muovere i piedi e contrarre gli addominali. Dev’essere stato a cavallo della realizzazione di questo pezzo, nella villa fiorentina dove lui e Rubin si sono chiusi a registrare e dove ha trasferito il suo home studio, che Jovanotti avrà vissuto la propria epifania, ritrovando una strada mai veramente smarrita, ma che percorreva con la metà dell’entusiasmo di prima – perché così succede, a lui e a tutti. Ed ecco che in “Oh, Vita!” Jovanotti ridiventa più se stesso di prima, ma non lo fa nella ripetizione e nella nostalgia, ma nella ritrovata energia. E Rubin dev’essere un demonio buono, deve avere una sensibilità pazzesca, deve intravedere, nei musicisti che gli piacciono, l’interruttore da far scattare per rimettere in circolo il talento originale, riaccendere l’entusiasmo, trovare il nascondiglio della convinzione di un artista. Che qui c’è tutta: questo è il Jovanotti primario, autogeneratosi tanti anni fa, nella sua ispirazione mantenuta attraverso il tempo, le contaminazioni e i cambiamenti. “Oh, Vita!” sembra una traccia prelevata dai Run DMC, contemporanea, ma con la stessa urgenza, slancio, dinamica. Chissà se le radio italiane lo capiranno, chissà come starà questo pezzo infilato nelle scalette di oggi, tra Khalid e Ghali e Coez. Il sound magari lo potranno criticare, perché è diverso, eppure è essenziale e cammina, sta-ta-trak, e la voce trascina tutto – uno stop, un singulto e si riparte. Dà gioia sentirlo, contiene passato e presente, mescola e manda in orbita. Ma intanto Lorenzo sta smanettando sull’autoradio (o come si chiama adesso) e passa oltre. Vuole farmi sentire il disco secondo l’algoritmo che funziona nella sua testa: le canzoni lente / intime, e quelle veloci / cariche. Vuol farmi capire come lavorare col nuovo compare gli abbia aperto nuovi punti di visione e come abbia accettato di fidarsi, si sia abbandonato nelle mani di Rubin, perché erano anni che aspettava questo momento. Lui l’esperienza per capire se una strada è giusta, ce l’ha. A quel punto, stabilita l’empatia, si trattava di prendere o lasciare. Lui ha preso: ha lasciato che Rick spogliasse i suoi pezzi all’essenziale, levasse fronzoli e corredi e mantenesse la sostanza. “Per gli americani” mi strilla sovrastando il volume delle casse, “le cose stanno così: bisogna lavorare svelti, dritti allo scopo, registrare solo quello che serve. Abbiamo fatto questo pezzo di voce e chitarra, in cui ci sono solo la mia voce e lo strumento, suonato da me, per come lo so fare. Prima mi ha fatto sentire una cosa di Dylan, m’ha fatto capire come nella semplicità esistano soluzioni, come avere chiarezza è la cosa principale. Poi, si fa. Non serve altro”. E infatti i famosi pezzi lenti dell’album sono così, ossificati, esposti nella loro natura e nei loro valori. “Negli anni Ottanta, a forza di sentire Tears for Fears, Peter Gabriel e soci, la musica italiana s’è sovraccaricata. Negli studi sono arrivati banchi regia a 96 canali e le canzoni si sono affollate di livelli, fino a scoppiare”. E, verrebbe da dire, appesantite da quelle forme, sovente sono sprofondate: è la nostra storia di poppettari citazionisti. Lui però, ascoltando certe cose americane, intuiva la diversità. Ma solo adesso, arrivato a questa fase del percorso, ha avuto l’occasione di sperimentare la diversità, attraverso la collaborazione con un detentore di quella matrice, una vera Matrix, come nel film. Nel frattempo Lorenzo è impaziente e sta passando avanti, per farmi sentire i pezzi svelti dell’album: altra storia, stessa filosofia. Anche qui Rubin lavora a togliere, per cui anche quando sono beats e breaks a dominare, tutto rimane asciutto, secco, circoscritto. Davanti c’è sempre la sua voce, sotto si muovono architetture elementari, che scandiscono e disegnano. Perfino il debole che da sempre Jovanotti ha per le variazioni afro, per il flusso caotico-galoppante dei ritmi iper-neri, diventa essenza, parte per il tutto, e perciò inclinazione culturale, prima che effettiva esplosione politimbrica. Anche questo è originale, per il nostro musicista di 50 anni, in circolazione da trenta. E dev’essere una sensazione impagabile. “Poi ho fatto anche un pezzo sull’Italia”, mi sta dicendo con solennità. “Ne parlavo da un sacco di tempo coi miei, ne avevo voglia. Avevo in mente due grandi esempi: Viva l’Italia di De Gregori e L’italiano di Toto Cutugno. Alla fine ho fatto una cosa che sta nel mezzo, equidistante da quelle due anime. L’ho chiamata In Italia. Fa un ghigno, girandosi dalla mia parte: “E naturalmente l’ho fatta afro”. E parte la nenia sincopata, che pare d’essere in Etiopia, altro che italiano vero.

 

Il suo disco potrebbe non vendere tantissimo. Tocchiamo ferro. Comunque andava fatto. Il tour sarà il solito trionfo

Il suo disco potrebbe non vendere tantissimo. Tocchiamo ferro per Jovanotti. Comunque andava fatto. Il tour sarà il solito trionfo. “Mi piace far godere chi viene ai concerti. Mica posso fargli sentire l’album nuovo tutto di fila: vengono per celebrare ciò che li ha fatti stare bene. E io glielo do. Sarà uno spettacolo bello e ricco, fermo nei palasport delle città per giorni, perché ci vuole tempo a montarlo”. Comincerà la festa. Con Lorenzo rinato e l’intatta voglia di cantare, ballare e ovviamente rappare. Lui è impaziente di cominciare. Con un bagliore in più, che poi è quello che l’ha sempre reso un caso a parte: la strana predestinazione che lo fece cominciare di slancio, quando soprattutto cazzeggiava ma, in effetti, caoticamente e inconsciamente, era già uno scienziato del pop. E che adesso ne fa un accessibile, accettabile santone. Che una notte ha avuto la migliore delle illuminazioni: non si finisce mai d’imparare. Abbiamo sempre bisogno degli altri. Ascoltare è indispensabile, quanto esprimersi. E che la vita, se fai così, riprende luce, e perde peso. Tutto ridiventa, come lui non fa altro che cantare da sempre, una cosa bellissima. Piena di sorprese. Che chissà cosa abbiamo fatto per essercela meritata così.

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