Leone Di Lernia

È morto Leone di Lernia. E non è stato solo un cantante demenziale

Antonio Gurrado

Se Leone di Lernia avesse voluto diventare un cantautore serio, avrebbe comunque trovato abbondante materiale cui attingere nello stesso spirito che ha animato le sue canzoni demenziali

La fame, la povertà, la fatica fisica, l'invettiva, il desiderio sessuale frustrato, financo la deiezione faticosa: se Leone di Lernia avesse voluto diventare un cantautore serio, avrebbe comunque trovato abbondante materiale cui attingere nello stesso spirito che ha animato le sue canzoni demenziali. Così magari sarebbe riuscito a imporsi come lamentoso aedo di istanze terragne, garantendosi un posto nell'olimpo del canto popolare da ascoltare per riannodarsi alle radici della sua terra. Di una terra immaginaria, però.

 

C'è una Puglia molto più vera nella scelta di dialettizzare quarant'anni di successi internazionali, rispetto a quanta ce ne sarebbe stata nel tentativo di dedicare una musica alta alle ossessioni popolane delle sue origini: dai figli che se ne vanno (Chille ca soffre, parodia di Killing Me Softly) all'usura del lavoro (Ra-ra-ri ra-ra, da Gipsy Woman) passando per il desiderio smodato di cibo, una fame atavica che è sigillo della povertà e per questo torna come leitmotiv in canzoni a decine; soprattutto nella più celebre, l'indimenticabile Te sì mangiate la banana, col suo accumulo rabelaisiano di pietanze difformi e potenzialmente letali. L'unica canzone che abbia mai conferito, credo, dignità poetica al citrato lenitivo.

I testi delle canzoni di Leone di Lernia fanno ridere ma non sono allegri. Lo si deduce dal fatto che siano stati appiccicati sempre a motivi spensierati, con intento corrosivo: specie nella seconda parte della carriera, quando a partire dai primissimi anni Novanta s'è dedicato quasi esclusivamente alla riscrittura della musica house, il criterio di Leone di Lernia è stato – non so quanto sottinteso e nemmeno quanto consapevole – di utilizzare le hit ballabili come un contenitore, da svuotare ben bene del vuoto pneumatico dato dalla ripetitività e dalla superficialità di testi consolanti per riempirlo di testi altrettanto ripetitivi e superficiali ma che trascinassero verso il basso. Il suo metodo è stata una sistematica applicazione della più micidiale arma dell'umorismo, il bathos: spingere cinicamente verso un precipizio di senso ciò che è fatto per elevare l'uomo o, quanto meno, per distrarlo e alleviarlo. Il bathos non fa ridere alleggerendo ma zavorrando; un po' sgomenta, un po' esorcizza, un po' è la confessione mascherata di una sofferenza intrinseca agli atti primari della vita.

 

Vogliamo chiamarlo ruggito? Di sicuro è un borborigmo che risuona molto più angoscioso nei primi tentativi discografici, ad esempio la raccolta di Canzoni rock tranesi (1975) che contiene un Le femmine di Trani in cui si fa esplicito riferimento all'incombente smania di suicidio per amore.

Poi si attenua e forse a tratti si smarrisce nel progressivo successo di Leone di Lernia presso un pubblico non sempre dotato del discernimento sufficiente a comprendere l'attrito fra la pulsione vitalista della musica e il bathos dei versi, ma che sicuramente qualcosa deve avere colto – a meno di non voler presumere che la fama gli sia stata garantita da un pubblico pavloviano, che applaude quando sente rime becere o parolacce. Probabilmente il contesto migliore per capire Leone di Lernia resta il radicamento intellettuale nell'area che dalla costa del nord Barese rincula fino all'interno della Daunia, i cui capisaldi sociali sono approssimazione e iconoclastia.

 

L'approssimazione è la cifra usuale della comunicazione in un'area geografica relativamente illetterata: lì la deformazione verbale, la traduzione al ribasso, il tentativo imperfetto di riprodurre sonorità anglofone o latine o comunque auliche è un'arma di difesa nei confronti della magniloquenza altrui, ed è una denuncia dell'altrui incomprensibilità. L'iconoclastia è invece la mannaia sotto cui le zone marittime e, più ancora, quelle rurali della Puglia fanno passare impietosamente tutto ciò che appaia appena più elevato del riconoscimento dei bisogni e delle caratteristiche basilari dell'uomo, nonché della loro esplicita derisione. Il cibo, il sesso, i soldi, il riposo. La morte.

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