Corrispondenze. Due capi storici di Martin Margiela andati all'asta a Parigi lo scorso gennaio (foto curatrice)

Il foglio della moda

La moda non può avere un passato. Un saggio provocatorio

Tony Di Corcia

Non fatevi distrarre dalla sociologia e dal marketing, guardate all’essenza del fenomeno, dice il filosofo Francesco Masci, di cui si traduce (era ora) “Hors mode”. L’heritage? Una trovatina senza costrutto. L’unico nome significativo: Martin Margiela. L’originale, ça va sans dire

Quella dei filosofi per la moda è un’attrazione, o attenzione, tutt’altro che recente. In particolare da un paio di secoli a questa parte, questo linguaggio viene analizzato tra affermazioni apodittiche e tentativi di cosmogonie, fenomenologie e ipotesi. Trattati gustosi, nel migliore dei casi, o verbosissime interpretazioni che portavano a un persistente mal di testa. Giunge, invece, a un risultato interessante e generoso di spunti di riflessione il filosofo Francesco Masci, italiano di nascita ma parigino di adozione, del quale Castelvecchi ha tradotto “Hors mode”, uscito in Francia nel 2023 e ora disponibile col titolo, fedelissimo, “Fuori moda”: parafrasando la citazione di Don DeLillo in esergo, questo libro è un luogo carico di epifanie.

“Nella moda, nulla esiste all’infuori del presente”. Inizialmente eravamo convinti che fosse naturalmente proiettata al futuro, che fosse l’oroscopo che la società fa di sé stessa come recita l’abusatissima frase di Flaiano. Ultimamente, invece, le collezioni di molti marchi sembrano sedute spiritiche che devono rievocare una creatività lontana e perduta, codici estetici che furono il dna della maison e oggi giungono dissonanti: una tendenza, questa che vede gli stilisti affannarsi nella rievocazione dello stile che fu con la stessa foga con cui si rianima un moribondo, che sembra in contrasto con un’altra sua osservazione nel libro, e cioè che “la moda distrugge per distruggere”.

“Il contrasto c’è ed è grande in effetti, e a ragione – risponde Masci - quando io parlo di moda, infatti, non parlo mai di tutto l’apparato istituzionale e commerciale che della moda rappresenta l’aspetto forse più evidente ma a mio avviso anche meno significativo. Quello che mi interessava, in maniera piuttosto opportunistica rispetto al mio lavoro teorico sulla modernità, era, evitando gli approcci sociologici della moda che sono già poi molto diffusi, interrogare il suo nucleo “ontologico” che io ritengo sia costituito da una temporalità sui generis all’interno della modernità e del suo tempo progressivo, una temporalità fondata su un concatenarsi di presenti assoluti. Ogni moda sorge, e scompare, nella perfetta negazione di ciò che la precede, in un’affermazione effimera e un po’ disperata - ecco perché “fuori moda” - di sé stessa senza alcuna relazione causale con le altre mode. È una forma di negazione pura molto rara nel moderno, o, se vuole, di affermazione pura del nulla del mondo. Se una moda è già, al suo stesso apparire, fuori moda, tutto l’apparato di produzione-distribuzione che, legittimamente - perché certo non dimentico che la moda è anche un’industria e un commercio - si costruisce su di essa è ancora più lontano dal nucleo essenziale della temporalità della moda, e non mi interessa un granché”.

Una storia della moda sarebbe impossibile, perché ogni evento è contemporaneamente inizio e fine. Eppure la storia del costume e, dunque, della moda è ormai entrata nei piani di studio persino delle più granitiche università statali, per tacere delle numerose accademie in cui si formano i designer del futuro. In che senso sarebbe impossibile?

“Essendo la moda una pura e semplice affermazione della propria presenza possiamo dire che ogni moda consuma tutti i possibili e non rimanda mai ad un significato trascendente aldilà di sé stessa. È in sé perfetta e questa perfezione è anche la causa della sua distruzione. Una moda non annuncia mai la moda seguente e non continua mai la moda che l’ha preceduta. Il suo rapporto al tempo e anche alla logica è molto diverso da quello a cui convenzione e la fisica classica ci hanno abituato. Nel mio libro, per cercare di elucidare questa successione non-causale di eventi che costituisce la moda, scomodo il lavoro di un fisico molto originale, Julian Barbour, che utilizzando la fisica quantica ha cercato di dimostrare che il tempo non esiste. Sarebbe troppo lungo riassumere questa parte del mio libro, basta sottolineare qui che il tempo della moda non è il tempo organico della successione progressivista moderna. Direi che nella moda la citazione è l’unica relazione temporale al passato che abbia una qualche legittimità. Specificando però che in ogni caso, quando qualcosa di vecchio viene riutilizzato o diventa di nuovo “alla moda” lo è in maniera completamente stravolta dalla sua prima occorrenza. Ecco perché una storia della moda mi sembra impossibile, quello di cui parla lei, la storia del costume si apparenta a un sistema classificatorio postumo, una riorganizzazione epistemica retrospettiva che ha poco a che vedere con una storia organica”.

Pagine molto interessanti del libro sono quelle in cui rintraccia analogie tra le pratiche rituali della moda e quelle delle religioni, compresi i culti più antichi. Soprattutto ad alcune sfilate, a mio avviso in primis quelle di Giorgio Armani, si respira effettivamente un’atmosfera sacrale, e tra i presenti si diffonde la percezione di assistere a un evento non puramente estetico, mondano, ma che potrebbe avere ricadute sulle coscienze, sullo spirito di chi vi assiste.

“Anche qui, io farei una distinzione tra la moda come fenomeno in sé e l’apparato di produzione e distribuzione che ne è una conseguenza. Quando io parlo di rituale, non mi riferisco a momenti ricorrenti come le sfilate o il calendario stagionale delle varie fashion week che del rituale sono un po’ una caricatura. Io penso al rituale come a una tecnica per gestire l’eccesso di contingenza proprio del moderno. Se nelle religioni tradizionali (e non) il rituale è una tecnica per fare superare all’individuo una crisi esistenziale davanti alla minaccia traumatica di un dissolversi del mondo e contemporaneamente una maniera per reinserirlo nella comunità, in una società come quella moderna che rischia l’implosione, confrontata com’è a una sovrapproduzione di eventi contingenti, la moda, con la sua panoplia di gesti standardizzati e ripetibili, diventa una tecnica per gestire la difficile relazione di differenziazione e di appartenenza tra l’individuo e il gruppo. La moda è un rituale che ha perso il suo centro religioso, l’idea di sacrificio, è un rituale che gira a vuoto”.

Chi cerca tra le sue parole i nomi di stilisti e brand potrebbe restare deluso: sono pochissimi, e spesso molto ricercati o legati alla storia nobile del costume. Ma c’è un approfondimento dedicato a Martin Margiela. Che cosa la colpisce particolarmente di questo personaggio e della sua comunicazione estetica?

Il fenomeno Margiela è stato davvero significativo, almeno se collocato in una prospettiva come la mia che vede nella moda l’espressione di un nichilismo di tipo presocratico molto diverso del nichilismo della promessa su cui si è costruita la modernità. La moda è pura dissoluzione, affermazione del nulla in quanto nulla e Martin Margiela, nell’insieme delle sue pratiche, il totale anonimato dello stilista in un mondo che dell’apparenza ha fatto un dogma, l’etichetta senza logo, i commessi in camici bianchi come infermieri, il viso delle modelle coperto di chiffon bianco in una delle prime sfilate, l’introduzione nelle sue collezione dell’idea di rovina insomma Margiela ha fatto della mancanza, dell’assenza, del nulla dei temi quasi ossessivi mettendo a nudo il potere di dissoluzione che impregna la moda”.

Il nulla è il fulcro centrale della modernità, ed è il punto di partenza e l’approdo finale della moda.

“Qui il discorso potrebbe davvero diventare molto lungo e complesso. Diciamo che il nulla della modernità non è quello della moda. Anzi direi che la moda, pur essendo un’istituzione moderna, è come un’enclave all’interno della modernità con una temporalità e un rapporto al nulla molto diversi da questa. Il moderno si è costruito su un ritmo scandito dalla negazione/promessa/delusione dove la negazione del mondo presente, ovvero il problema mal compreso del nichilismo, è sistematicamente subordinata alla promessa di un mondo altro, migliore, sempre sul punto di arrivare, e sempre deludente in un ciclo progressivo e ricorsivo di negazione-promessa/delusione-negazione. Nella moda, come ho cercato di raccontare, il nulla e la negazione appaiono fini a sé stessi, non subordinati ad alcuna promessa di redenzione della società. Nella moda la promessa coincide già con la delusione”.

Il libro si chiude con una sentenza inquietante, da Pizia allarmante, e lo riporto certo di non fare alcuno spoiler visto che non si tratta di un libro giallo: “il tempo-senza-tempo della moda sta per concludersi”. Qualche stilista dichiarava morta la moda alla vigilia di ogni sua sfilata per ottenere un titolo in prima pagina, dunque non ci sconvolgeva e lo vivevamo come una piacevole consuetudine. Le sue parole, invece, non suonano così rassicuranti. “Credo che stiamo assistendo alla fine di un ciclo, la moda, così come l’abbiamo conosciuta, questa tipica espressione della società borghese, che lasciava apparire il nulla in quanto tale, sta scomparendo, per tutta una serie di cause di carattere generale e che stanno stravolgendo la società moderna al suo crepuscolo. L’ingiunzione a cercare il Bene e il Buono ovunque, proveniente da una morale sentimentale e individualista che grazie alle immagini sta interamente invadendo tutti i campi della società moderna, anche quello finora preservato della sfera privata, con effetti paradossali di un evidente approfondimento delle storture e ingiustizie sociali, sta avendo ragione anche di quest’istituzione due volte centenaria, la testimonianza, aldilà dei vestiti o degli oggetti, dal sapore presocratico, di un’accettazione del mondo proprio perché è nulla”.