Ansa

il foglio della moda

Fra abito e costume: Demna e le bad girls

Fabiana Giacomotti

Solo adesso che ha lasciato Balenciaga per Gucci, si può iniziare a intuire la profonda influenza che il creativo georgiano ha avuto sul cinema e il teatro di questi anni. Riflessioni e chiacchiere con le costumiste Carla Teti e Olga Shaishmelashvili

Guardandola anche solo in una prospettiva di corta distanza, dopotutto ha lasciato il proprio incarico in Balenciaga da meno di sei mesi e Pierpaolo Piccioli ha presentato la sua prima collezione ai primi di ottobre, è evidente che Demna abbia dato alla storia del costume teatrale più di quanto creda o sospetti. Ne ebbi la chiara percezione già la scorsa primavera, visitando la mostra che il creativo georgiano, ora a capo di Gucci, dedicò al proprio lavoro nella maison nelle grandi ali centrali dell’ex ospedale Laennec di rue de Rennes dove ha sede Kering. Lungo i bracci a croce di Gerusalemme di quell’architettura secentesca che il suo progettista, Christophe Gamard, aveva voluto in pietra a taglio e che dona all’insieme un’atmosfera al tempo stesso severa e vibrante, era stata allestita una sfilata statica di quelli che nel gergo modaiolo si definiscono gli “hero pieces”, i pezzi e i capi più importanti di una collezione o, come in questo caso, di una gestione.

 

Al netto delle sneaker sovradimensionate, che pure resteranno nella memoria del grande pubblico come il segno più forte della sua direzione per via di un merchandising invadente, lungo il percorso espositivo le linee dei suoi cappotti, l’imponenza divertita, ironica, dei suoi cappelli che rileggevano senza alcuna reverenza gli Anni Cinquanta delle grandi fortune del fondatore, e ancora gli angoli retti o acuti, inaspettati, eppure lusinghieri e accattivanti, dei suoi vestiti, fino a oggi generalmente scelti da donne di carattere, fosse pure Kim Kardashian cui non si può dire che questo tratto faccia difetto, spiccavano come un promemoria per gli storici, e certamente questo era il loro scopo. Che la moda di Demna avesse lasciato un segno profondo nel teatro, per esempio nella “Turandot” diretta, allestita e vestita da Gianluca Falaschi lo scorso maggio allo Staatstheater di Mainz, con Julja Vasiljeva nel ruolo principale, oppure nel personaggio di Ortrud, l’alter ego pagano e oscuro di Elsa nel “Lohengrin” che la settimana scorsa ha aperto la stagione dell’Opera di Roma e che sarà in scena fino al 7 dicembre con la regia di Damiano Michieletto e la direzione di Michele Mariotti, lo sto appunto scoprendo adesso.

 

Forse, perché mai come quest’anno, dove la tensione delle regie teatrali e in particolar modo liriche verso un contatto con la contemporaneità, l’immancabile personaggio della donna assertiva, diciamo la “cattiva della storia” e che in genere ne è anche il motore, assume le sembianze di quelle stesse manager, imprenditrici, avvocate che vediamo nei serial di Netflix e Disney + del momento, a partire dal grottesco “All’s fair” (leggere a pagina 4 di questo numero) e che tutte, in un modo o nell’altro, sono vestite nel segno di Demna e attraverso l’applicazione scientifica e calibrata di quegli elementi del guardaroba “per donne forti” a cui siamo esposti da oltre un secolo e che, non a caso, si fissano nell’immaginario nei due periodi del Novecento in cui le donne godono di maggiore affermazione e libertà: i primi Quaranta (per forza, causa mancanza di manodopera maschile impegnata al fronte) e gli Ottanta delle “donne in carriera”. Elementi di immediata comprensione che si riassumono, appunto, nell’uso del nero, nella sovrabbondanza spigoli o punte e nella deformazione visiva del corpo e se possibile anche del volto che ne deriva, nell’uso della pelliccia, simbolo di ferinità e dominazione, nel tacco a stiletto che la vulgata definisce, non a caso, “assassino”.

 

Anche senza voler risalire ai tempi più antichi e alla caratterizzazione anche fisica della figura del “diverso”, dell’emarginato, della “minaccia per la società”, che si trova scolpita nei guerrieri vinti dell’Ara Pacis, e ai colori cupi, illuminati solo dal malefico giallo che accompagna diavoli, streghe e personaggi degli inferi nelle miniature, abbiamo tutti una lunga consuetudine con la cinematografia e il costume a scopo narrativo, cioè simbolico, iniziato ancora negli anni in cui Adrian studiava a Hollywood la figura di Joan Crawford, che venne poi codificata dai disegnatori di Walt Disney nei personaggi della strega di Biancaneve, ispirata direttamente anche nei tratti del volto, a Malefica della “Bella addormentata” che prende ispirazione dai gargoyles delle chiese medievali del nord Europa, a Cruella DeVil, prototipo della fashion victim Anni Sessanta magrissima, in maxi pelliccia e abito scivolato di jersey di seta che occhieggia a Chanel (anche gli zigomi appuntiti e i gesti imperiosi e arroganti, oggettivamente, la ricordano). La Ortrud di Carla Teti veste tailleur Anni Ottanta con spalle importanti e baschina nel primo atto, ma nel terzo sfoggia una cappa di pelliccia vintage anni Quaranta di scimmia con il classico collo alto del periodo che la costumista da affittato per l’occasione. Sulla “Lady Macbeth del distretto di Mcensk” di Dmitrij Shostakovich che inaugura la stagione 2026 del Teatro alla Scala il 7 dicembre per la regia di Vasiily Barkhatov, il racconto che merita di essere fatto, e le sue dinamiche spiegate, non è invece simbolico, ma storico.

 

Per noi europei occidentali, del tutto incognito. Se, dopo la Rivoluzione Russa del 1917, artisti e architetti tentarono di riformare l’abito nel solco di un pensiero politico e sociale nel quale le istanze estetiche costruttiviste si innestavano sul folklore del sarafan e della kosovorotka, e che si giovava degli studi di artisti come Varvara Stepanova e Lyubov Popova, abiti geometrici audaci, ma anche pratici, pensati per le donne lavoratrici, e portatori di nuovi valori di uguaglianza, dopo al Seconda Guerra Mondiale, lo stile vestimentario dei pochi russi che fossero usciti dal conflitto benestanti, un nucleo sparutissimo di membri dell’apparatchik che potevano permettersi di vestire con ricercatezza e di frequentare ristoranti e luoghi di ritrovo, fra la fine degli Anni Quaranta e i primi Cinquanta, cioè nell’ultimo scorcio della dittatura staliniana, guardò alla moda dei vinti: alla Germania nazista, all’Italia fascista, alla Francia occupata. Mentre Parigi rinasceva con il New Look di Christian Dior, la Russia banchettava abbigliata con le insegne di una moda scomparsa. “All’Europa occidentale”, come sintetizza Olga Shaishmelashvili, che racconta di aver lavorato a stretto contatto con la sartoria della Scala, forse l’unica struttura teatrale al mondo dove ancora si possa realizzare qualunque capo di vestiario, dalla corazza ai cappellini e i turbanti con la veletta e in questo caso nel sono stati prodotti a decine, e di essersi trovata “meravigliosamente bene”. Ed ecco spiegato il motivo per il quale, quando si osserva l’abito della “lady” Katerina Izmailova nel terzo atto, è quasi inevitabile paragonarlo a quello che Piero Tosi disegnò per Ingrid Thulin nella scena del matrimonio che corona, grottesca e tragica, “La caduta degli dei” di Luchino Visconti.

 

Che entrambe le opere, il titolo di Shostakovich e il dramma messo in scena da Visconti, si rifacciano nel titolo e in alcune parti al “Macbeth” di William Shakespeare è più una coincidenza che una relazione diretta. Ma l’evidenza che entrambe guardino all’omicidio, e all’omicidio a sfondo sessuale, come a un motore di ricerca di libertà e di potenza, di autoaffermazione e di dominio a prescindere dal genere e dal momento storico in cui vengono concepite (e concepite da uomini), le rende entrambe avvicinabili a quel filone filosofico che parte dal “pari”, dalla scommessa sull’esistenza di Dio di Blaise Pascal, si incupisce nella sottrazione alle leggi del Divino e si immerge nel sangue della violenza dell’opera di Donatien de Sade e approda infine alla “morte di Dio” di Friedrich Nietzsche: un Dio inteso non in chiave religiosa bensì in chiave prospettiva, etica e morale, una lettura che spiega anche la profonda avversione che Stalin nutriva e per la vicenda e per la musica. Katerina, come la Juliette di de Sade, è una donna che mette il proprio piacere e la propria libertà al primo posto: rappresentano entrambe la priorità assoluta di una condotta di vita che è regolata non dall’amore, che sempre sottende il sacrificio, ma dalle proprie pulsioni. Tenacemente e quasi orgogliosamente ignorante, Katerina non è mai disposta a rendere conto delle proprie azioni, e questo è uno dei molti elementi che la rendono profondamente diversa da Emma Bovary a cui viene talvolta e impropriamente paragonata.

 

La Emma di Gustave Flaubert muore vittima di un “esprit romanesque” alimentato dalla lettura di troppi romanzi tutti fremiti e palpitazioni amorose (ma anche dallo sfoglio febbrile di Restif de la Bretonne e dello stesso de Sade, che Flaubert lascia intuire al lettore quando evoca una Emma che legge con le guance rosse e il cuore in fiamme, e non sarà forse un caso se, in esergo al suo racconto, che vede la luce nove anni dopo il romanzo francese, Nikolaj Leskov inserisce un celebre proverbio russo: “La canzoncina ti fa arrossire solo la prima volta che la canti”, anticipazione dell’abisso nel quale Katerina cadrà, sempre più inconsapevole e, al tempo stesso, determinata). Katerina muore invece per un paio di calze di lana, che sia nel racconto sia nel libretto dell’opera diventano il simbolo di un amore trasgressivo negato e tradito, di un calore ricercato e sottratto, di una fuga che precipita, letteralmente, nel fiume della morte. Sono molti gli elementi simbolici che ritornano in tutte le declinazioni di questo racconto macabro, dove nessuna redenzione appare possibile e l’abbrutimento pervade ogni personaggio al punto che la richiesta del lavorante Sergej del prestito di un libro appare al tempo stesso incongrua e astuta (una volta verificato che nella casa di Katerina e del marito Zinovij Borisovic non ve ne sono, che la donna soffoca di noia e di ignoranza nel podere del marito assente, sedurla diventa ancora più facile). E questi elementi sono gonne, calze. E camicie. Nella letteratura e nella pittura dell’Ottocento, in particolare dalla seconda metà del secolo in poi, c’è un elemento preciso del vestiario femminile che l’autore sceglie per indicare la sensualità di chi lo indossa, ed è appunto questo. La chemise che sta ancora sotto alle gonne e ai vestiti, unico baluardo per il pudore perché le donne dabbene hanno appena iniziato a portare le braghe, fino ad allora ritenute adatte solo per le prostitute, ma anche le prime camicette confezionate dei grandi magazzini occidentali.

 

Grandi e piccolo borghesi indossano le camicette sopra la gonna con i cerchi e sotto la giacchetta e lo scialle, accessorio ubiquo del XIX secolo, meglio se con motivi paisley, un capo di vestiario che ricorre anche nella trasposizione cinematografica occidentale della “Lady Macbeth” di Leskov, diretta da William Oldroyd, con Florence Pugh nel ruolo principale, e in quella sovietica del 1966 della seconda versione dell’opera di Shostakovich (“Katerina Izmailova”, diretto da Michail Šapiro). Le donne dabbene, come Stella, moglie del principe di Salina che quasi un secolo dopo descriverà Giuseppe Tomasi di Lampedusa nel “Gattopardo”, ma che appartengono agli stessi anni in cui Nikolaj Leskov immagina la sua Katerina, non si mostrano al marito nemmeno in camicia, secondo la celebre tirata del “principone” a padre Pirrone. La camicia c’è, è un segno di ricchezza di cui si mostra l’uso facendone spuntare il colletto e le maniche dal vestito, come si vede negli infiniti ritratti dell’epoca. Ma bisognerà attendere anni perché esca, letteralmente, allo scoperto, accompagnata dallo “scioglimento dei capelli”, carattere sessuale secondario che è, non a caso, il secondo elemento costante dei dipinti coevi di Auguste Renoir e di Edgar Degas. La donna tardo ottocentesca che si abbandona ai piaceri del sesso, scioglie i capelli e sbottona a uno a uno i molti elementi del suo vestiario (ancora nel 1887 de “Il piacere” di Gabriele D’Annunzio, saranno guanti e stivaletti), fino alla camicia, che anche per una mercantessa del distretto di Mcensk, nella Russia sudeuropea occidentale rappresenta un punto di non ritorno. Dunque, Katerina che nel racconto originario del dramma e dell’opera di Dmitrij Shostakovich si abbandona al lavorante Sergej, per prima cosa si slaccia la camicia. Resta in camicia anche dopo aver ucciso il suocero, nell’estate calda in cui attende il ritorno del marito Zinovij e si concede il lusso di fare l’amore nel giardino di casa, in segno di sfida. Ma già negli anni Trenta del Novecento, quando Shostakovich scrive il libretto con Alexandr Prejs, questo capo di vestiario ha perso quasi del tutto la propria valenza erotica e simbolica, sostituito dalla gonna, l’unico elemento del guardaroba femminile che permanga anche nel parlato comune come metafora della donna stessa, della sia rettitudine o della sua lascivia. “Abbiamo sentito parlare/delle vostre gonne!”, esclama infatti Zinovij rientrando dal lungo viaggio e scoprendo nella propria camera la cintura di Sergej, dimenticata nella fuga precipitosa e che Katerina reclama di aver trovato in giardino e di aver usato per stringere la gonna.

 

E' un rapporto al tempo stesso concreto e simbolico, quello fra i personaggi della “Lady Macbeth” e i capi di vestiario che ne raccontano il rapporto con il mondo. Sono tutti abiti e accessori reali, ognuno di loro non solo partecipa, ma è motore dell’azione, apporta un tassello allo svolgimento della storia. Ma il loro portato è anche simbolico, astratto. La serva Aksinia violata non denuncia il tentativo di stupro, ma la gonna strappata; le calzette di lana chieste da Sergej lungo la strada per il gulag diventano pegno di amore e come tali, in segno di rifiuto, vengono offerte a Sonetka. Lo slancio amoroso, i morsi della gelosia, prendono sempre in quest’opera la forma materiale, anche un po vile, dell’oggetto di consumo. Ha dunque anche un senso estetico- testimoniale, non solo storico, la scelta del regista di ambientare l’azione dopo la vittoria russa nel secondo conflitto mondiale, periodo di tensioni cupissime e della grande separazione con l’occidente, una frattura in realtà mai colmata come la storia di ogni giorno ci dimostra.

 

 

 

Arte a teatro. Foto di Nico Vascellari (courtesy).

 

 

 

Un look della collezione couture inverno 2021- 2022 di Demna per Balenciaga e la rivisitazione di Gianluca Falaschi (courtesy) per il suo allestimento e regia di “Turandot” allo Staastheater di Mainz, nel maggio del 2025. Il montaggio nel wrap di questo numero dei bozzetti della costumista Olga Shaishmelashvili per “Una lady Macbeth del distretto di Mcensk” in un’opera unica da conservare, è a cura di Loredana Cattabriga.

 

 

Letture intimiste, storiche, contemporanee. In alto, i bozzetti di Carla Teti per i personaggi di Ortrud ed Elsa di Brabante del "Lohengrin" di Richard Wagner che ha inaugurato la stagione 2026 dell'Opera di Roma con la regia di Damiano Michieletto e la direzione musicale di Michele Mariotti. Qui sopra, due scene dalle prove di "Una Lady Macbeth del Distretto di Mcensk" che debutterà il 7 dicembre al Teatro alla Scala (Brescia/Amisano) con la regia di Vasily Barkhatov e i costumi di Olga Shaishmelashvili.

 

 

Le arti del teatro alla Scala il 6 dicembre. Torna, per il quinto anno consecutivo, il 6 dicembre, al Ridotto dei Palchi, l’appuntamento sviluppato grazie al Teatro alla Scala da “Il Foglio della Moda” e Terra Moretti – Bellavista sulle arti del teatro in vista della “Prima” del 7 dicembre, ormai momento attesissimo per melomani e appassionati di costume. Quest’anno, attorno a “Una lady Macbeth del distretto di Mcensk”, in un confronto fra letteratura, moda e arte, Fabiana Giacomotti sarà in dialogo con la costumista dell’opera Olga Shaishmelashvili, Mattia Palma, direttore della Rivista del Teatro alla Scala, l'artista Nico Vascellari e il direttore comunicazione Paolo Besana, con un saluto iniziale della famiglia Moretti. Il titolo dell'incontro prefigura il tema della discussione e i suoi riferimenti: "Volontà di potenza. Distruzione e autoaffermazione nella simbologia di "Una Lady Macbeth del distretto di Mcensk" di Dmitrij Shostavokich

Di più su questi argomenti: