il foglio della moda
Favorire il ricambio generazionale anche sul fronte creativo nella moda
A livello gestionale Bertelli a Versace e Tagliabue a Segna mostrano che qualcosa si muove. Lo stesso non di può dire sulle novità: l'industria del tessile-abbigliamento si concentrata sui marchi più sicuri dal punto di vista della redditività, mentre investire su nuove generazioni e nuovi progetti comporta rischi ritenuti spesso non affrontabili. E così ci si organizza: il made to order e le altre strategie
A dispetto dell’evidenza che un minimo di ricambio generazionale nella moda vi sia, almeno sul fronte gestionale (sta facendo molto parlare e scrivere la nomina di Lorenzo Bertelli a presidente esecutivo di Versace, acquisizione che ha seguito in prima persona e che senza dubbio sarà la sua ultima esperienza propedeutica prima dell’assunzione delle deleghe sul gruppo, ma un segnale importante è arrivato pochi giorni fa dal gruppo Zegna dove, dopo vent’anni, Gildo Zegna ha assunto il ruolo di group executive chairman lasciando la carica di ceo a Gianluca Tagliabue, mentre i rappresentanti della quarta generazione della famiglia, Edoardo e Angelo, sono stati nominati co-ceo), dall’ambito creativo non provengono segnali incoraggianti. Come si dice spesso, con un grande fondo di verità, dopo gli anni d'oro delle firme storiche che hanno portato il made in Italy ai massimi livelli di creatività e successo, non vi sarebbero più stati nomi altrettanto significativi, se non sporadicamente. L'industria del tessile-abbigliamento in effetti si è quasi sempre concentrata sui marchi più sicuri dal punto di vista della redditività, mentre investire su nuove generazioni e nuovi progetti comporta rischi ritenuti spesso non affrontabili, soprattutto a fronte delle crisi cicliche che attraversiamo. Si tratta di una visione parziale, perché bisogna tenere conto anche dei tanti designer e marchi indipendenti che, pur fra molte difficoltà, portano avanti le collezioni autonomamente.
I nomi sono tantissimi, attivi da molti o da pochi anni: per esempio Daniele Calcaterra, Marco Rambaldi, Domenico Orefice, Andrea Adamo, Durazzi Milano. Tutti accomunati dalla mancanza di un gruppo industriale importante alle spalle, ma dalla relazione stretta con piccole imprese, addirittura laboratori, per la produzione e gestire le collezioni dall'interno del proprio ufficio stile. È una sfida impegnativa, perché un partner industriale importante come per esempio un e-shop garantisce lo sviluppo dei capi, la loro realizzazione e i servizi logistici essenziali. In più c'è la questione del flusso di cassa: pure a fronte di un buon riscontro di ordini attraverso il wholesale, il saldo non è immediato, mentre le spese e i pagamenti anticipati per fare fronte alla produzione e alla nuova collezione da mettere in cantiere non consentono dilazioni.
Un modello produttivo interessante è quello del made to order, che, a partire dai capi di collezione presentati, permette di produrre solo su richiesta del cliente finale, in tempi concordati e riducendo sensibilmente l'esposizione finanziaria. Una modalità produttiva che sulle piattaforme internazionali di settore (Vogue Business, l’ultima in ordine cronologico) è sempre presentata come l’ultima novità, una sorta di soluzione magica per il futuro dei marchi indipendenti. La realtà è più complessa, seppure decisamente interessante. Diversi nomi storici si sono aperti a questa prassi: Giorgio Armani, che nel 2006 aveva introdotto la linea made to measure, il fatto su misura, nel 2024 l’ha arricchita con il servizio made to order, attraverso la quale i clienti possono personalizzare un capo a partire da una selezione di archetipi della griffe. E, sebbene meno in vista nonostante siano trascorsi pochi anni, su un livello di accessibilità diversa e più ampia c’è Telfar, che nel 2020, in un momento di enorme richiesta, ha legato la produzione dell’eponima borsa logata in similpelle a un “Security program”, un programma di acquisto su ordinazione con spedizione a tre mesi, di fatto incassando con un trimestre di anticipo il capitale necessario a produrre.
I vantaggi economici sono reali, ma in questo modello produttivo esiste anche un doppio valore aggiunto: il primo è il plus esperienziale per il cliente che può accedere a un certo grado di personalizzazione del prodotto (dettagli, materiale o semplicemente il colore, scegliendo da una gamma più ampia di quella solitamente proposta attraverso i canali di vendita tradizionali). L'altro vantaggio è quello della riduzione degli sprechi: nessun acquisto di materie prime, nessuna produzione di capi in eccesso e minore saturazione del mercato, il che è un ottimo argomento in chiave di sostenibilità agita e non solo dichiarata, sistemica e non episodica.
Se oggi i media internazionali si focalizzano su Steven O Smith e Robert Wun, alfieri del “nuovo corso produttivo” ma affini alla haute couture per vocazione stilistica e clientela VIP o VIC (very important customer che si distinguono dai primi in quanto ignoti ma paganti), in Italia designer come Francesco Murano, Dennj, Caterina Grieco di Catheclisma o il custom service di ACT N°1 offrono delle collezioni più accessibili e la possibilità di ricevere il proprio capo in un tempo accettabile senza eccessivi danni ambientali collaterali.
Il made to order è una strada ancora ardua da percorrere in via esclusiva, soprattutto in una fase iniziale, perché per un marchio indipendente la visibilità è una sfida quotidiana che difficilmente può essere demandata unicamente al web, e una certa quota di wholesale aiuta, oltre a farsi conoscere, ad acquisire reputazione come presenza sul mercato. Un modello ibrido, nel quale l’ordine personalizzato affianca la produzione tradizionale è invece un esperimento che merita di essere intrapreso per la crescita e il consolidamento di un marchio. Diventare più grandi non è necessariamente un fattore numerico, ma anche stabilire una relazione di fiducia e duratura con i clienti.
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