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Lavoro senza ipocrisie

L'autodafé che la moda deve fare per cambiare, senza farsi dettare la linea dai pm

Fabiana Giacomotti

Un evento in meno all’anno, il taglio di qualche calendario dell’Avvento sovradimensionato. Al di là degli evidenti protagonismi della magistratura, il settore deve sottoporsi a quel processo che negli anni Settanta sembrò travolgere il vitivinicolo con gli scandali dell’etanolo. E che invece lo salvò

E dire che per poter aggiungere alla retorica del “bello e ben fatto” italiano anche la concretezza del fatto eticamente, il bello e il buono, kalos kai agathos, basterebbe pagare le manifatture cinque euro in più a borsetta, su pezzi che ne costano dai duemila in su nelle boutique, ma ormai la media è sui tremila, con punte di sette e diecimila. Diciamo un evento in meno all’anno, il taglio di qualche calendario dell’Avvento sovradimensionato spedito a casa a clienti e stampa affezionata in tutto il mondo.

A scriverla così, sembra uno di quegli appelli no profit per i vaccini ai bambini dell’Africa centrale di cui si affollano i palinsesti pubblicitari sotto Natale ma, fatte le debite proporzioni e guardata la cosa in prospettiva, il risultato finale dell’inazione sul fronte del sostegno medico ai bambini denutriti e della filiera della moda italiana è lo stesso, ed è l’estinzione. Senza contratti adeguati per durata, prospettive e compenso, il sistema produttivo della moda nazionale (di cui i brand sono un derivato molto visibile, ma non l’essenza, la nostra forza continua a essere la manifattura e abbiamo perso da decenni la partita dei “poli della moda”) è destinato a soccombere sotto la pressione esterna della Cina, che a causa dei dazi che la Ue si ostina a non applicare sotto i 150 euro a pacco ci sta travolgendo di robaccia targata Shein e Temu, ed interni, a causa delle costanti limature che i dirigenti dei brand stranieri, ma non solo, hanno effettuato sui compensi della filiera per mantenere alti i propri, di compensi.

Bonus natalizi pagati sulla pelle delle piccole manifatture, quelle che non possono ribellarsi se non, e lo stiamo scoprendo adesso, applicando a cascata lo stesso metodo. Subappaltando. Come sempre, le cose sono molto semplici, e la congiuntura, le guerre, gli altri accidenti più o meno naturali che le associazioni chiamano in causa per giustificare i cali di fatturato c’entrano fino a un certo punto, mentre chi ha fatto i calcoli sul danno che il made in Italy della moda subirebbe a continuare a ficcare la testa sotto la sabbia e ad applicare sofismi sul ddl attualmente in discussione per la trasparenza della filiera sono molto concreti: si parla di altri 20 miliardi in meno nel giro di un anno. E a 65-70 miliardi di fatturato, è chiaro che diventiamo ininfluenti. Per usare un aggettivo molto amato dal sistema, irrilevanti.

Dunque, al di là degli evidenti protagonismi del pm milanese Paolo Storari, che sa sempre come e quando avvertire di un intensificarsi delle inchieste sul presunto caporalato e che poche ore fa ha richiesto una consegna di documenti a ben tredici brand che includono Prada, Versace, Dolce&Gabbana, Ferragamo, Gucci, Missoni, Yves Saint Laurent, Givenchy, Pinko, Coccinelle, Adidas, Alexander McQueen Italia, Off-White Operating (e per favore, non chiamatele maison, l’atelier con le sartine e i pellettieri che fanno una borsa dal primo passaggio all’ultimo qui c’entrano zero), è chiaro che il settore debba sottoporsi a quell’autodafé anche salutare che negli anni Settanta sembrò travolgere il vitivinicolo, con gli scandali dell’etanolo, e invece lo salvò. Se ne parlava qualche settimana fa alla Camera, in occasione di un incontro sulle carriere femminili nella moda, con la nuova presidente di Cna Federmoda Nazionale, Doriana Marini, ovviamente molto attenta all’aspetto dei margini per le piccole imprese, e con l’avvocata Antonella Centra, già responsabile delle pratiche Esg di Gucci e oggi molto vicina al governo e al Tavolo della Moda dove le troppe parti in causa, con interessi in fondo diversi perché manifattura e brand non la vedono, scelleratamente, nello stesso modo, sta rallentando un processo di regolamentazione del sistema a cui non basta certo il ddl attualmente in discussione.

Il dibattito rischia di essere comunque superato dalle reazioni del mercato, perché è chiaro che per un sistema che basa la propria autorevolezza non solo sull’immagine, ma anche sulla sostenibilità, ambientale e sociale, cioè sul welfare, che è anche l’unica possibile giustificazione a moltiplicatori alla terza potenza del prezzo finale di capi e accessori, non è più accettabile che la propria fabbrica diretta, la showroom molto visibile e i commessi delle boutique monomarca che guai a chiamarli tali siano gli unici destinatari di benessere e azioni da inserire nel bilancio sulle pratiche Esg.

 

 

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