Fan base. I cacciatori di selfie piazzano tende, tappetini, ombrellini, alternandosi giorno e notte per non perdere la postazione. (foto Fabiana Giacomotti)

Il foglio della moda

Facce spendibili cercansi

Fabiana Giacomotti

Mentre la moda italiana lotta per recuperare credito e le istituzioni lavorano per il sostegno dei veri artigiani, il red carpet della Mostra del Cinema di Venezia anticipa gli abiti che si vedranno fra un mese sulle passerelle

In quel film per casalinghe disperate presentato alla Mostra del Cinema di Venezia che è “Jay Kelly”, protagonista George Clooney che pensa basti replicare il sorriso in tralice di Clark Gable per dirsi attore, c’è però una battuta fantastica e no, non è quella che tutti hanno registrato sull’Italia, unico Paese dove, ridacchia lui, si premino attori bianchi di mezza età, ma sulle ragioni per le quali tutti vogliono venire a vedere la favolosa penisola, ed è perché “assomiglia ancora a un posto umano”. La pronuncia un finto ciclista in pantaloncini di spandex che pochi minuti dopo scipperà a un’anziana la borsetta durante una sosta del treno, costringendo Clooney, una vita trascorsa a interpretare il ruolo dell’eroe negativo, a rincorrerlo per la campagna toscana nella veste inconsueta di cavaliere, ma l’ha scritta e l’ha diretta Noah Baumbach che, pur in questo film da domenica pomeriggio d’inverno col tè e il gatto, è pur sempre Baumbach.

 

Dunque, se lavorassi al ministero del turismo o in qualche suo succedaneo vedi l’ICE, invece di concepire quella tremenda Venere-influencer dell’altr’anno, un’indimenticabile vergogna di gusto, di cultura e di stile, chiederei i diritti dell’osservazione del ciclista e capitalizzerei sul concetto. Fossi uno dei presidenti delle associazioni di moda, farei lo stesso. La moda italiana che, nonostante continuiamo a negarlo a noi stessi, è stata colpita duramente in termini di immagine e dunque di ricadute occupazionali dalle inchieste della Procura di Milano sul caporalato, ha bisogno di ritrovare le proprie radici, di tornare a miser, a scommettere, sul valore dei volti di chi la produce, di mostrarli, di esibirli, di raccontarli e di farlo al meglio. La leggenda dell’artigiano chino al deschetto è stata spazzata via non solo dalla prova provata che, seppur in minima parte, l’artista libero padrone di sé stesso, creatore di prodotti ingegnosi anche quando realizzati in serie, è stato sostituito da un lavoratore immigrato sfruttato, ma anche dall’evidenza che, perfino nella gioielleria delle varie accademie e dei raffinati campus piemontesi, l’artigiano lavora sì a mano, ma con un protocollo che deve seguire fino al tipo di bulino e ai tempi di lavorazione di ogni singolo passaggio perché la riproducibilità infinita di una sneaker è in fondo la stessa di un bracciale “serpente” Bulgari e la creatività può appartenere solo a chi li ha concepiti, mentre agli altri tocca la mera esecuzione e, nei casi migliori, la scelta delle pietre, come seicento anni fa nella bottega del Perugino che, notoriamente, faceva lavorare i suoi accoliti con i cartoni modello stencil, sebbene in misura infinitamente inferiore e senza spacciare quelle file di santi tutti uguali come incommensurabili capolavori. 

 

L’industrializzazione del lusso, sorvegliata speciale di un esercito di addetti comunicazione e marketing impegnati a negarla, è la ragione primigenia del successo della moda italiana e anche il motivo della sua progressiva disfatta, perlomeno fra chi – e sono ancora tanti – non ha capito che è arrivato il momento di cambiare strategia e che anche la vendita di cappuccini logati a scopo di post Instagram dei clienti del sabato non solo non serve ai fatturati, quanti benedetti cappuccini devi vendere per pagarti una vetrina in via Montenapoleone, ma allontana dal brand anche quelli che un tempo si definivano gli affluenti e che, per quanto la moda si voglia definire democratica, continuano a determinare la desiderabilità di un marchio. Il punto di affanno e la necessità di visibilità qualificata della moda, di “facce spendibili”, è evidente in questi giorni di Mostra del Cinema di Venezia e nella trasformazione del red carpet del Palazzo del Cinema in un’anticipazione delle collezioni prossime venture.

 

La Laguna prima di Parigi, Alba Rohrwacher in Dior firmato Jonathan Anderson, Julia Roberts in look Versace di Dario Vitale, tre settimane prima delle passerelle ufficiali, un tempo appuntamento per gli addetti ai lavori, di cui questa scelta di comunicazione mostra la progressiva insussistenza e inutilità. I social hanno risposto alle sollecitazioni dei brand, detesto scriverlo, con una precisione e una onestà che molti media non possono permettersi e nemmeno sognare. Che sia la stampa sia la stessa moda italiana abbiano bisogno di serrare le fila e di trovare un nuovo indirizzo è più che evidente; l’errore sarebbe di farlo asserragliandosi sulle vecchie posizioni, negando l’evidenza, difendendo i marchi a prescindere, senza accogliere le critiche che è quanto, purtroppo, è accaduto nella parte di sistema incapace di rassegnarsi all’evidenza che la festa, durata mezzo secolo, è finita. Il modo più efficace, e sono parecchi a farlo, soprattutto nella filiera, è di approcciare il cambiamento con intelligenza: consorziandosi, lavorando in sinergia, convincendo i brand ad accontentarsi di una marginalità inferiore pur di fare ricerca e di continuare a innovare. 

 

Per questo, mentre assistiamo a cambiamenti importanti anche in maison d’eccellenza come Hermès, dove dopo vent’anni lascia, per un ruolo onorario, la ceo di Italia e Grecia Francesca di Carrobio, sostituita da Paola Triolo, e le prossime fashion week di Milano e Parigi si qualificano già come il banco di prova degli ultimi cambiamenti, nelle kermesse fieristiche come nei progetti istituzionali è evidente la tendenza a premiare e sostenere realtà specifiche, piccole. Il mondo intero mostra una progressiva insofferenza per le offerte identiche dei brand da un capo all’altro del pianeta, per la sempre maggiore difficoltà di trovare “something traditional”, come scrivevamo sul “Foglio della moda” di luglio, i casi di Jennifer Lopez che viene rimbalzata dalla boutique di Chanel a Istanbul sono sempre più rari e, come dice Barbara Mazzali, assessora di Regione Lombardia al Turismo, Moda, Design, Marketing Territoriale e Grandi Eventi, i dati relativi agli acquisti tax free in Lombardia, 1100 euro di scontrino medio ma per i turisti degli Emirati si sale a 3mila euro dunque big spender, mostrano un evidente spostamento dello shopping verso gli alimentari d’eccellenza, acquistati anche nei supermercati ormai non a caso sempre più selettivi nelle scelte, e i ristoranti.

 

Siamo sempre alla “experience”, alla ricerca della novità, della diversità, della differenza. Dopo il total look, ormai rappresentato solo sulle riviste femminili nel primo numero di settembre, tradizionalmente riservato alla soddisfazione dei principali clienti, ma totalmente disatteso nella vita reale, è in via di scomparsa anche lo shopping di moda senza costrutto, senza conoscenza, l’entra-ed-esci dai negozi modello “Pretty woman” o, appunto, J.Lo. Lo shopping compensativo, da affrancamento sociale o risarcimento morale e affettivo. C’è invece, conferma Mazzali, una forte ricerca di indirizzi unici, di “scoperte”, di trouvailles, benché tutti siano consci che in tempi social non resteranno a lungo tali, insomma di quello che in tempi anche non lontanissimi come quelli del Grand Tour, era parte integrante di una vacanza o di una visita.

 

Anche per questo, ha appena preso il via la seconda edizione del progetto Artigiani 4.0, sviluppato da Upskill, che mira a promuovere la crescita delle realtà dell’alto artigianato lombardo attraverso una strategia di valorizzazione che si concentra su due tematiche chiave per l’accelerazione di impresa: strategia di brand e le tecnologie 4.0, leve che, in genere, artigiani anche straordinari, penso al favoloso Luigi Scarabelli di Fabscarte con i suoi parati fatti e dipinti a mano, non conoscono o che maneggiano a fatica, dovendo in genere contare solo su se stessi o pochi altri soci per sviluppare la propria impresa e investire in tecnologia e gestione. Nella seconda edizione, i cui vincitori sono stati selezionati da poco, compare un numero di imprese della moda superiore rispetto alla precedente, e in particolare Fumagalli 1891, imprenditori attenti ai segni del tempo da quel 1906 in cui realizzarono la prima cravatta-evento per l’apertura del Passo del Sempione, e l’ormai celeberrimo Max Maiorino, upcycler di calzature seguito sui social almeno quanto Giorgina Siviero a cui è dedicata una delle interviste di questo numero.

 

“È vero, c’è bisogno di facce e di storie autentiche”, ammette la presidente di Confindustria Accessori Moda e di Assocalzaturifici, Giovanna Ceolini, che fra tre giorni inaugurerà a Rho Fiera la centesima edizione e il cinquantesimo anno di attività del salone della calzatura, Micam, con una mostra per immagini e documenti che volutamente, sottolinea, mostra volti, imprese, storie, e non (necessariamente), modelli. Dopo la fondazione nel 1931 a Vigevano, culla della calzatura italiana, la svolta avvenne infatti nel 1974 con l’affermazione strategica dell’associazione e, ancora, nel 2018, con il rebranding voluto dall’allore ministro dell’economia, Carlo Calenda. Nei prossimi giorni, arriveranno a Milano espositori da oltre centocinquanta Paesi. Facce, storie. Anche instagrammabili, perché no.

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