
Foto ANSA
L'intervista
Capasa: “Attenti a logorare Milano con delle campagne ideologiche”
“Non ci sono dubbi che il modello di sviluppo internazionale di cui la città è stata portabandiera per il paese in questi ultimi due decenni vada difeso", dice il presidente della Camera nazionale della moda: “Moda, lusso e sviluppo urbano sono il nostro benchmark”
“Capisco bene il tema della città inclusiva che Milano è stata e che deve ancora essere, è evidente che se ci sono state delle storture nella gestione degli appalti queste vadano corrette, vi sono in corso indagini per appurarlo e non sta a me esprimere giudizi in questa fase, ma al tempo stesso non ci sono dubbi che il modello di sviluppo internazionale di cui la città è stata portabandiera per il paese in questi ultimi due decenni vada difeso. Non posso nemmeno immaginare che si possa tornare al provincialismo di un tempo. Sarebbe un danno incalcolabile per l’Italia”. Carlo Capasa, presidente della Camera nazionale della moda, cioè di uno degli organismi che, pur rappresentando marchi diffusi su tutto il territorio nazionale, è legato per nascita e sviluppo al Duomo, parla dall’auto, ed essendo persona educata si scusa delle interferenze del navigatore nella conversazione.
Raccontiamo a Capasa che l’altra sera, in una discussione serale a Taormina, un imprenditore della moda che vuole e può (ma non pretende) osservava come, se accanto ai grattacieli e ai boschi verticali dove, peraltro, chi ci vive si lamenta dell’umidità e degli insetti, si fosse pensato a un trenta per cento di edilizia di qualità a prezzi calmierati, diciamo un tremila euro al metro quadrato in luogo dei 15-20 mila, la situazione in città sarebbe meno tesa e divisiva. E Capasa concorda, insiste sulla bellezza del nuovo skyline “fatto da grandi architetti in luogo dell’edilizia del geometra del secondo Novecento”, ma ricorda anche che, se Milano è diventata attrattiva per migliaia di nuovi studenti, e che anche nella moda riesce finalmente a rivaleggiare con Londra e la celeberrima Central Saint Martins grazie all’apertura della nuova sede dell’Accademia di Costume e Moda e dell’ampliamento della Naba, è perché sono stati migliorati i trasporti, si è aggiunta una nuova linea della metropolitana, e che a nessun universitario inglese verrebbe in mente di lamentarsi perché non trova un appartamento a buon prezzo a Knightsbridge o a Belgravia, in realtà neanche vorrebbe starci. “Siamo diventati un benchmark internazionale, correggiamo quello che c’è da correggere, ma non perdiamo la nostra leadership, anche nel lusso”.
L’argomento del made in Italy e del lusso ci porta inevitabilmente al secondo punto che dovrebbe stare a cuore a tutti, visto che occupa 600 mila persone, ma sul quale pare sia scattata una gara social e purtroppo anche istituzionale a favore della sua demolizione. La filiera della moda è infatti attualmente sotto schiaffo per via di una percentuale presunta di caporalato che riguarda il 2 per cento circa del totale, e che nessuno, tanto meno la politica, riesce a inquadrare nelle sue reali dimensioni. Nessuno discute sulla necessità di azzerare il lavoro nero e sottopagato ma forse, sottolinea il presidente della Camera Nazionale della Moda, vale la pena di sottolineare che il famoso modello delle Pmi da dieci dipendenti, spina dorsale del paese eccetera, significa che ogni brand ha come minimo duemila fornitori, in alcuni casi si arriva a seimila, e che nessuna impresa sarebbe in grado di controllare semestralmente migliaia di fornitori. “Gli audit ci sono, naturalmente, come i contratti che vietano i subappalti, ma nei controlli si procede a campione, e non potrebbe essere altrimenti”. Vi sono norme, protocolli di intesa, uno è stato siglato due mesi fa con lo stesso tribunale di Milano, ma si tratta di un sistema volontario perché la legge, diciamo pure la giurisprudenza occidentale minima, non assegna la responsabilità per conto terzi: “Il controllo della legalità spetta allo stato; tutti tendono a dimenticare che in questa campagna i marchi sono la parte lesa”, puntualizza Capasa. In compenso, aggiunge, “è in atto una campagna contro il made in Italy che sta spingendo l’esportazione cinese a basso costo nel nostro paese, è pericoloso fare da sponda a questo processo. L’industria della moda non ha un colore politico e il sistema produttivo italiano va tutelato. Alla politica chiedo di smettere di schierarsi, perché la moda è una sola. Evitiamo proclami per fare campagna elettorale a scapito di grandi brand: stiamo rischiando di massacrare la filiera nel medio termine”.
Che la politica non sappia nulla di moda e la consideri un settore di sartine è evidente anche dagli ultimi interventi in Parlamento, dove si è assistito a una equiparazione sgangherata fra costi di manifattura e prezzi di vendita che azzeravano gli investimenti in ricerca, sviluppo, design, sostenibilità, tutte attività che costano e che incidono sul prezzo finale. “Si è pronti a pagare il tremila per cento all’hi tech, senza mai valutare che anche la moda è frutto di tecnologia. Demonizzare il lusso e i suoi prezzi è un attacco al sistema Italia e al valore della filiera”, aggiunge Capasa: “Per questo, stiamo affiancando il Mimit nella scrittura della nuova legge sulla legalità annunciata dal ministro Adolfo Urso in occasione dell’ultimo Tavolo della moda". “In queste ore un commissario viene insediato per aumentare i controlli. Con la legge avremo una filiera interamente certificata”.


Il Foglio della moda
Vesto l'individuo, non il genere. Incontro con Niccolò Pasqualetti

Il Foglio della moda