Quant'è triste Milano che sfila nei cortili afosi

Alle sfilate della moda uomo estate 2026 molto marketing, parecchia confusione, fatturati in calo, ceo che saltano come pop corn. Funzionano, e lo dicono anche i buyer, la sartoria e il “bel prodotto”, vedi Cucinelli, Kiton, quel genere di certezza che non deve confrontarsi con nessuno e che si chiama Armani e che trova forti punti di congiunzione con giovanissimi come Mordecai. Mentre non siamo sicuri che la “libertà” di cui si vanta Prada trasmetta il messaggio forte di cui il mercato ha bisogno

Fabiana Giacomotti

C’è un sostantivo che i modaioli amano moltissimo, ed è “energia”. Avere energia, esprimere “una bella energia”, è l’equivalente contemporaneo della figaggine di un tempo. Ecco, dalla moda l’energia è sparita, a meno di non volerla confondere con il nervosismo. Nonostante alla conferenza stampa di Pitti, il presidente dell’Ice Matteo Zoppas avesse fornito dati incoraggianti per la moda maschile e il comunicato stampa di chiusura dell’appuntamento avesse fornito un consuntivo moderatamente positivo, sulle tre giornate e mezza di sfilate della moda maschile di Milano è aleggiata un’aria cupa che, al netto delle temperature elevatissime, inevitabili in una città sempre più cementificata, nulla è riuscito a dissipare; nemmeno le feste, le celebrazioni, i giardini e i grandi spazi allestiti come villaggi divertimento.

 

A Firenze, forse per via della bellezza della città, dei molti giovani presentati con iniziative speciali, delle cene vista santa Maria del Fiore e dei concerti del consorzio Cuoio di Toscana, giunto al quarantesimo anno e con una nuova collaborazione con Diego Dolcini all’attivo, nel parco del Four Seasons che fu palazzo Della Gherardesca e che dunque resta freschissimo anche con quaranta gradi, che il clima sia sempre più pesante e i soldi sempre di meno si è notato relativamente poco. Vedere il sovrintendente del Maggio Musicale Carlo Fuortes che fotografava la bella sfilata di Niccolò Pasqualetti organizzata nella cavea del teatro, entusiasta nonostante il sole a picco e la scellerata idea di posizionare sul cemento materassini riflettenti, ispirava appunto molti pensieri allegri sulle opportunità di sovrapposizione artistica, che peraltro la musica e il costume hanno sempre praticato.

 

A Milano, che i fatturati siano in molti casi dimezzati e ne scriverò fra poche righe, è stato invece evidente anche per via di quella scelta estetica di “contemporaneità”, altro termine imprescindibile del modaiolo à la page, che ha portato le poche sfilate indipendenti o alternative fra cortili sbreccati, corti semi-abbandonate, garage soffocanti, marciapiedi tout court, con i passanti disposti a corona oltre le transenne perché in tempi presuntamente inclusivi la moda contemporanea, finita la sosta di prammatica davanti al fotografo, scende per strada, si “mescola”. Vorrei dire che ha funzionato e che anche le sfilate co-ed (uomo-donna, peraltro talvolta impossibili da distinguere) hanno avuto un senso e invece l’atmosfera non le ha aiutate, e un po’ già si capiva dal debutto, la sfilata di Fiorucci con i volti smunti dei modelli, l’orrendo cagnolino di peluche fra le braccia e quei fuseaux in colori fluo che ai tempi del fondatore, Elio, e dei Settanta “disco”, erano sexy da morire perché le ragazze erano bellissime e tornite, e adesso risultano inquietanti vuoi per via delle creste iliache sporgenti delle ragazze, vuoi perché non corrispondono minimamente alla realtà del quotidiano anzi del contemporaneo: rispetto alle giovani di allora, quelle che vediamo per strada adesso hanno una media di dieci, quindici chili in più, causa alimentazione pessima e zero sport, che richiedono una moda diversa. Mentre ha perfettamente senso che le diciotto-ventenni di oggi con capacità di spesa affollino le boutique di Vivienne Westwood a caccia di corsetti, come sta accadendo da qualche tempo, non le vedo affatto infilarsi nel body di tulle color carne privo di struttura che ha aperto la sfilata o spendere duecento euro per una t shirt con le nuvolette, per non dire noi che spendemmo la prima paghetta nel 1976 in una cintura color turchese in Galleria Passarella, apprezzando di Fiorucci soprattutto l’approccio ironico e i prezzi democratici e oggi vi ritroviamo nessuna delle due cose: né i prezzi abbordabili né, e tanto meno, l’ironia.

 

Dunque, l’effetto cumulato del cemento, del caldo, dei muri sbreccati, dei volti tristi, degli abiti visibilmente poco riusciti e verosimilmente cari – lasciare tutto quello spazio all’estetica “libera” di Raf Simons, al trinomio camicia quadrata, mutandone modello ciripà, calzini su gamba nuda, non ha giovato alla collezione di Prada, lo dico per (quasi) tutti perché i commenti all’uscita della collezione, poche ore prima che saltasse il ceo Gianfranco D’Attis, erano urticanti anche da parte di chi, per quieto vivere, si è limitato alla cronaca - ha tolto quel poco di energia rimasta. Confrontare il calendario delle sfilate milanesi di tre anni fa con quello di questa edizione è la più efficace dimostrazione del processo di selezione in corso a ogni livello. Tolta Zegna che, per ovvie ragioni di mercato, ha presentato la collezione a Dubai, per sua fortuna pochi giorni prima che il regime iraniano sotto attacco prendesse in considerazione la chiusura dello stretto di Hormuz, dalla lista mancano Fendi, Versace, Jil Sander, John Richmond tornato a presentare a Londra nonostante il calendario sia stato azzerato, quindi Gucci, che aveva presentato una collezione co-ed lo scorso febbraio, ma avrebbe potuto fare un piccolo reminder in questi giorni e invece, come tutti quelli che possono, sta organizzando la presentazione dei gioielli a Parigi, durante le sfilate della haute couture che, tenetene conto perché è lì che si sta tornando e lo scrivo da due anni, saranno affollate come non mai: grande o piccola che sia, la maison de couture è diventata addirittura e non di rado competitiva con il pret-à-porter di alta gamma, con la differenza che è fatta su misura.

 

Antonio Grimaldi non ha mai lavorato tanto come in questo ultimo anno, come Fausto Puglisi con gli ordini speciali Cavalli o Massimo Monteforte che fatica a soddisfare le richieste di signore che non capiscono perché debbano infilarsi in modelli standard a prezzi da sartoria, non ritenendo più il brand un valore dirimente. Molti altri brand hanno optato per la presentazione e hanno fatto benissimo, vedi Bally che, mi diceva uno dei nuovi manager, a colpi di sfilate certamente creative, ma anche di continuo discostamento da quello che si definisce genericamente core business e che nel caso specifico significa scarpe per un pubblico borghese aspirazionale, nel giro di tre anni ha dimezzato il fatturato: subito dopo la pandemia, vendeva per 400 milioni, oggi ha un giro d’affari di 200 milioni circa e mentre il suo direttore creativo Simone Bellotti è passato a Jil Sander, sta tentando faticosamente di riposizionarsi con lo sport e più precisamente col tennis, che sull’onda del successo di Jannik Sinner tutti sembrano aver riscoperto dopo anni di oblio e qui bisogna dare credito a Gucci di avere visto lungo col ragazzo che ora canta, o per meglio dire recita, con Andrea Bocelli in una delle hit dell’estate.

 

Sulla terra rossa, ancorché finta, cioè ricostruita nella serra di Villa Necchi Campiglio, Tod’s ha posizionato i suoi gommini identitari, ma qualcosa di antipatico dev’essere in corso fra il brand e il suo direttore creativo Matteo Tamburini, che ha tenuto una conferenza stampa modello Casa Bianca, cioè leggendo un comunicato che gli è stato passato, a domanda ha risposto rileggendo una frase dallo stesso comunicato e ha lasciato l’incontro sostanzialmente senza salutare nessuno. E’ stupefacente come non gli fosse giunta voce che, per quanto possa essere bravo e lui certamente lo è, nel gruppo Tod’s esiste un solo direttore creativo che risponde al nome di Diego Della Valle e che ha sempre ritenuto le collezioni di moda un ottimo strumento di marketing al servizio del core business, cioè del gommino sul quale basa le proprie fortune da quarant’anni e rotti, ma è chiaro che a questo punto, cioè dopo un anno e mezzo di collezioni che nessuno ha visto nei negozi, a Tamburini tocchi fare qualche riflessione e capire quali siano i suoi obiettivi perché, quando si è superata l’adolescenza, i nervosismi si impara a gestirli. Lui come molti altri. Se un tempo, cioè ai tempi in cui la moda cresceva a doppia cifra, i direttori creativi potevano essere venerati e idolatrati e vezzeggiati e al massimo interagivano con il direttore merchandising, adesso che le cose vanno piuttosto male per quasi tutti, gli autori delle collezioni sono costretti a confrontarsi con gente che aprirebbe un banchetto al mercato del lunedì di piazza san Marco, se questo potesse servire loro a mantenere i budget di vendita promessi agli azionisti e a garantirsi il bonus di fine anno, e infatti ultimamente tende a fare proprio questo. Da Etro, per esempio, la collezione era così dichiaratamente “commerciale”, la stampa paisley stampigliata sulle cravatte così dozzinale, mi spiace usare un aggettivo così brutale ma è quello adatto, che il suo direttore creativo, Marco De Vincenzo, ha preferito trascorrere il week end in famiglia, in Sicilia. Non so se la presenza di L Catterton sia nel capitale di Tod’s sia in quello di Etro c’entri qualcosa con queste manifestazioni di insofferenza; certo è che le reazioni dei reparti creativi alle pressioni dell’ultimo anno sono un fatto incontrovertibile e sostanzialmente identico, così come i tentativi sempre più diluiti e flebili, di fare ricorso al cosiddetto “heritage di marca”, cioè agli archivi.

 

Prendete per esempio e ancora una volta il caso Bally; da un po’ di tempo, il brand occupa i gloriosi spazi dove fra i Novanta e i primi Duemila Tom Ford galvanizzava le platee ambosessi con il miglior Gucci di sempre. Tanto per mettere in chiaro che in Italia non abbiamo problemi solo con il “Gattopardo” di Giuseppe Tomasi di Lampedusa che i maturandi non hanno letto e nemmeno visto nella riduzione cafona su Netflix, ma con molti altri aspetti della cultura di massa, nessuno - ma proprio nessuno – fra i giovani che lavorano da Bally conosce la storia dello spazio dove presentano scarpe e giacche, per non dire quello del palazzo che lo ospita, cioè il glorioso edificio Belle Epoque dove agli inizi del Novecento si aprivano i “bagni di Diana”, hotel e spa compresa. Capite bene che se si ignorano senza problemi gli aspetti architettonici, simbolici, storici del luogo in cui si lavora, vendere immagine e bellezza diventa difficile anche se si sono mandati a memoria tutti i luoghi comuni del momento e si offrono i migliori Campari della zona.

 

Per fortuna, però, oltre a questo momento difficile incarnato dal volto spento di Carla Bruni che canta con la sua vocetta a cento metri da dove, un tempo, calcava le passerelle da regina, c’è anche qualcosa che funziona. Neanche poco, dopotutto, e la bella notizia è che si tratta soprattutto di giovani: i ragazzi del brand Simon Cracker, per esempio, cioè Filippo Biraghi e Simone Botte, che intercettano un gusto e uno stile ben riconoscibili con le loro forme stratificate eppure prive di orpelli e che, come molti altri, hanno trovato un luogo accogliente per sfilare in pratica pro bono alla Fondazione Sozzani (stai a vedere che, superati guai e affanni e con il supporto di sua figlia Sara Maino, importante talent scout, Carla Sozzani riuscirà ad affermare al meglio anche quel lembo di periferia milanese che si chiama Bovisasca e a gentrificarlo come fece trent’anni fa con Corso Como). O, ancora, Mordecai, nome di brand della linea di Ludovico Bruno, con la sua moda fluida e potente, le forme ampie, i materiali grezzi che sono un po’ la tendenza della prossima stagione e che si ritrovano anche fra le collezioni di due marchi che potrebbero sembrare lontanissimi da questo, e cioè Kiton con i bei lini pesanti e colorati in arancio e blu oltremare e Brunello Cucinelli con i sabbia e le infinite tonalità di grigio che sono ormai la sua cifra e che si sono ampliate anche alle nuove collezioni di occhiali sviluppate con Essilor Luxottica. Ma quello che è davvero stupefacente è che la possibile, ipotetica sovrapponibilità fra un brand come Mordecai e uno come Emporio Armani, fra le più apprezzate in assoluto. Pensare che un giovane di trentotto anni e un signore che ne ha quasi novantuno (che sì, non è stato bene ma è in ripresa a casa e nel frattempo ha avuto modo di osservare entrambe le sfilate e di guidarle via facetime e perfino di richiamarci all’ordine perché facevamo ritardare l’inizio dello show e c’erano decine di migliaia di persone collegate) la vedano in modo non troppo dissimile e che vestano l’uomo di oggi con gli stessi pantaloni di lino ampio dal cavallo basso, le camicie ampie, le piccole stampe cravatta eleganti, i jacquard, le forme “confortanti”, che regalano serenità, ha un che di confortante anche in chi, per mestiere, si limita ad osservare.