Ansa

Il foglio della moda

Come ammazzare una tendenza su TikTok

Claudia Vanti

Le riviste di moda hanno sempre proposto alternative economiche agli outfit di lusso, ma sui social il confronto diretto tra capi costosi e low-cost mette in discussione il reale valore della moda di alta gamma. Il successo di format comparativi online fa emergere l’idea che spesso il brand conti più della qualità effettiva

Le riviste di moda a grande diffusione hanno dedicato da sempre, cioè fin dagli albori dell’editoria, uno spazio alle proposte più convenienti, consigli per outfit ispirati a quelli visti in passerella e ricreati con una spesa contenuta: si trattava, allora come oggi, di pagine collocate in apertura o in chiusura della pubblicazione, senza un confronto diretto con “gli originali” più costosi, lontane dal “cuore” della testata, lo spazio dedicato ai redazionali importanti.

Online la situazione è diversa, per di più la capacità di spesa ridotta di molti è diventata un fattore non trascurabile e su Instagram, TikTok e blog a tema proliferano gli account dedicati alla “moda accessibile”. Il prezzo alto o altissimo della moda è un dato di fatto, e la ricerca di strade alternative una necessità, anche se questo porta a selezionare prodotti del vituperato fast fashion. Non si tratta proprio di una contraddizione in termini – la convenienza del fast fashion è indiscutibile – piuttosto di una trasgressione rispetto al mantra del “compra meno - compra meglio” (cioè quasi sempre più costoso) promosso su altre pagine e schermate. Ma comprare meno e con un occhio alla qualità è una volontà difficile da soddisfare, se, oltre alle necessità di budget ridotto, il confronto tra capi di diversa provenienza e lignaggio dà esiti a volte sconcertanti. Il trend social della comparazione, con vere e proprie “challenge”, sfide, per scoprire quale tra due o più abiti simili sia effettivamente il più costoso è molto forte e macina like. Per esempio, i profili Instagram e TikTok di Eliza May (eliza.co.uk) hanno portato il format del confronto nelle strade, sollecitando nelle passanti l’esame e la stima dei capi.

La conclusione sottintesa già nelle intenzioni si verifica puntualmente: confusione ed errore di valutazione da parte del pubblico giocano a sfavore dei capi più costosi, molto ridimensionati nell’immagine di pregio che dovrebbero suggerire. E non tutto è imputabile al taglio delle sequenze dei reel o all’ingenuità di alcune delle interpellate, quanto piuttosto a una ricerca puntigliosa delle affinità di immagine. Elisa May, in realtà un team di “ragazze di fiducia (go-to girls) per la moda low budget” (cit.), è un blog con account social che promuove l'acquisto di capi a costi contenuti, pur segnalando i link per l’acquisto di quelli più costosi. Nulla di diverso, quindi, dal lavoro di promoter e influencer tradizionali, ma il confronto diretto a partire da una similitudine d’immagine è un elemento narrativo che introduce delle sfumature critiche e insinua il dubbio di una qualità dichiarata ma non reale dei capi “premium” e di design. Attraverso le pagine del blog stesso si può decidere di investire comunque in una camicia Proenza Schouler, in una gonna Staud o in un abito Jacquemus, ma la perplessità resta, e si amplifica via rete social. Per quanto gli schermi di telefoni e tablet siano un limite che non permette di valutare la qualità di materiali, orli e cuciture (che, peraltro, la gente stenta comunque a capire, non essendo in genere mai entrata in una vera sartoria), e se per gli accessori è più facile cogliere perfino online la differenza tra il pregiato e il dozzinale, per l'abbigliamento è spesso veramente difficile attribuire un valore a un prodotto.

Anche per chi quotidianamente lavora con tessuti, filati e prototipi. Il format dunque ha successo, gli account e le challenge si moltiplicano e la sensazione che se ne ricava è quella di una svalutazione generale del prodotto moda, di un mare magnum di capi tra i quali le differenze sono labili, e la qualità, come pure il design e il processo creativo a monte, sembrano solo pretesti tanto utili alla comunicazione quanto carenti di valore aggiunto. Generalizzare non è mai un bene, la moda social del gioco comparativo non intacca veramente la qualità intrinseca dell’alto artigianato e della confezione industriale più accurata, tuttavia toglie effettivamente un velo di ipocrisia su certe “manifatture veloci”, prodotti senza nessun particolare valore di materiale o di design se non quello dell'etichetta che vi viene apposta e che per motivi di posizionamento mantiene comunque prezzi al pubblico elevati: lo si può verificare quotidianamente, se non proprio nelle boutique di alta gamma ovunque il brand possa fungere da richiamo.

I prezzi schizzati alle stelle per strategie di marketing e per l’aumento del costo delle materie prime e dei processi distributivi (un serio problema che tocca da vicino tanti marchi medio-alti) scavano un solco sempre più profondo tra la clientela potenziale e l’acquisto effettivo: è difficile tornare indietro, ma è evidente che se continuerà a diffondersi la sfiducia verso una qualità percepita solo come apparenza è facile prevedere un futuro nel quale per molti mercati (e l’Europa per prima) la moda sia esclusivamente fonte di ispirazione, generatore di outfit o figurine da riprodurre senza rimpianti.

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