
Un’immagine del processo di plissettatura dei capi del progetto “L’homme plissé” di Issey Miyake (courtesy Pitti Immagine)
Il Foglio della moda
Che cosa vogliamo adesso. Congiunture e strutturalismi modaioli di cui tenere conto
Possediamo molto, dunque spendiamo meno in oggetti. E per gratificarci cerchiamo quelle attività che una definizione un po’ cheap definisce “experience”: viaggi, sere al ristorante, mostre-evento. Come fotografa una grande ricerca sviluppata per Il Foglio della moda da Banca Ifis in Europa e Stati Uniti che spiega molte cose. Anche, per esempio, perché Kering abbia assunto il nuovo ceo dal settore automobilistico
Chiedere di questi tempi agli europei che cosa vogliano, quali siano i loro desideri in quel segmento dei consumi che un tempo si definiva voluttuario, aggettivo desueto che implica agi e mollezze in contrasto con un altro concetto scomparso che è il decoro e che oggi, dopo quasi un secolo di consumi senza freni in tutto il mondo occidentale, un marketing accorto ha assimilato al campo semantico ostantedel merito (“perché me lo merito”, “perché io valgo”), è un esercizio piuttosto spericolato. Questa dinamica che sembrava alleggerire di anno in anno il portato negativo delle spese in beni non necessari addirittura stravolgendolo, al punto che spendere per la propria soddisfazione personale o per un semplice capriccio era diventata appunto una necessità, per un’ampia fascia del mondo si è bruscamente interrotta a fronte di una generale instabilità politica e dunque economica che ormai dura da quattro anni, di una maggiore sensibilità per lo stato del pianeta che riguarda soprattutto i giovani e che, combinata con una diminuita capacità di spesa, li ha spinti verso l’acquisto di capi e accessori vintage per quanto riguarda la moda, e in generale verso una revisione sostanziale delle priorità. Per capire come si stiano orientando i desideri, Banca Ifis ha sviluppato per il Foglio della moda una grande ricerca che fotografa lo “stato dei consumi” e che ha presentato ieri all’edizione 108 di Pitti Uomo con alcuni fra gli imprenditori più rilevanti del settore come Niccolò Ricci, ceo di Stefano Ricci, il presidente e direttore creativo di Doucal’s Gianni Giannini, il ceo di Pantofola d’Oro Kim Williams , e il risultato di questa imponente analisi che ha coinvolto 1345 persone in Italia, Francia, Germania e negli Stati Uniti di età superiore ai venticinque anni per tutto il mese di maggio è che in effetti, e nonostante la moda maschile dia ancora ottimi risultati, la gente e in particolare gli europei e ancora più in particolare gli italiani, dal 2019 ad oggi sono andati scrivendosi un’agenda diversa. Non l’hanno fatto solo per sostituire a un cappotto di vicuna un viaggio, ma per dover pensare maggiormente alla salute.
Nonostante tutta la narrativa pelosa e un po’ pietosa sul silver power, cioè gli ultrasessantenni ricchi che dovrebbero comprare a man bassa abiti pensati per gente di altre generazioni in sprezzo al senso del ridicolo, l’annotazione che emerge dalla ricerca “What people want now: tendenze emergenti e impatto sul mercato”, questo il titolo, è che una popolazione più vecchia bada più all’artrosi cervicale che alla cintura del momento. Non dovrebbe giungere come una sorpresa, eppure. Banca Ifis stima che gli effetti legati al decremento delle vendite di moda, iniziato nel 2020, e dell’invecchiamento, considerato dal 2011, della popolazione italiana valgano per 4 punti percentuali per l’abbigliamento e 3 punti per la pelletteria. Non proprio una cifra trascurabile. Dovrebbe risultare ovvio che a una popolazione più vecchia corrisponda una maggiore spesa sanitaria e che questa, soprattutto fra la media borghesia, equivalga alla rinuncia a una borsetta o a un paio di scarpe nuove ma in effetti, noi che apparteniamo alla cultura occidentale della ricerca dell’immortalità e dell’individualità esasperata, abbiamo seppellito il memento mori fra le care cose di pessimo gusto che compriamo a poco prezzo sui mercatini: un quadretto con teschio, una candela in cera rossa tanto divertente.
Dalla nostra anzianità progressiva derivano altre considerazioni che l’analisi traccia ed esemplifica, impietosa nella sua oggettività: oltre ad essere diventati vecchi siamo, o siamo stati, ricchi, dunque abbiamo gli armadi che traboccano. Le signore in vena di spirito parlano di ere geologiche stratificate nei loro guardaroba, le “zampe” Settanta e le balze Ottanta, ma è un fatto che osservino certe rivisitazioni d’archivio o certe tendenze del momento con quel tipico orrore venato di nostalgia che coglie chi ha superato i cinquanta e inizia a parlare dei suoi tempi, vedi l’abbinamento fra shirts e stivali che spopola questa estate e che noi adolescenti di quattro decenni fa abbiamo indossato sentendoci accaldati e un filo puzzolenti ma fighissimi.
A fronte di un fatturato 2024 della moda italiana che Banca Ifis calcola in 103 miliardi di euro complessivi, cifra significativamente più alta rispetto a quella diffusa solo poche ore fa da Confindustria Moda, pari a circa 90 miliardi e in calo di dieci rispetto al 2023, ma nella quale l’istituto fondato dalla famiglia Furstenberg include un numero significativo di aziende che non usano depositare i bilanci, il calo demografico rappresenta un agente non secondario, che mostra anche per quale motivo la moda italiana non possa fare a meno dei mercati esteri, anzi ne abbia sempre più bisogno. Se l’export, come segnala Carmelo Carbotti, Head of Strategic Marketing and Research Office di Banca Ifis, vale il cinquanta per cento del fatturato delle imprese italiane del comparto, ben il 54 per cento di questo business si rivolge infatti ai mercati extra Unione Europea che, con il calo degli acquisti da parte della Cina, significa ancora una volta Stati Uniti e Medio Oriente. Due sere fa, parlando con Ricci, mi sono fatta raccontare come spenda adesso chi non ha problemi di budget, affascinata dalla “turnazione del trenta per cento del guardaroba a stagione” da parte di un suo cliente molto importante di Dubai, tornata a rappresentare uno dei grandi centri di commercializzazione del lusso dopo che, nel decennio scorso, il mondo si era convinto dell’assoluta supremazia della Cina. Sapere che c’è ancora chi, come Consuelo Vanderbilt un secolo e mezzo fa, fa acquisti di moda per così dire strategici, facendo cioè evolvere il proprio guardaroba per segmenti, una volta abiti e accessori per la città, un’altra “pour le sport”, come si diceva appunto ai tempi degli Astor e dei Vanderbilt, è un tale tuffo nel passato da risultare perfino confortante. Sapete com’è, invecchiando ci si rifugia nelle certezze, e nulla deve apparire più vecchio e classico di noi europei a questa nuova messe di turisti, medio orientali ma soprattutto statunitensi, che osserva con ammirata circospezione le nostre strade di origine medievale, spesso inadeguate alle loro stazze di mangiatori compulsivi residenti in città diffuse, dalle strade larghe dove nessuno cammina a piedi.
Dunque, l’export, che però ha compensato solo in parte il calo delle vendite sul mercato domestico. Nel 2024, secondo l’analisi di Banca Ifis questo valore è diminuito del 4,2 per cento nel complesso, con un’accentuazione su calzature e pelletteria (-8 per cento) e sui mercati extra UE. Guardando però la tendenza sull’arco dell’ultimo quindicennio, cioè dal 2010 al 2014, la percezione che se ne trae è parzialmente diversa: nel segmento dell’abbigliamento e pellicce, il tasso di crescita medio è stato del 4,5 per cento, con i mercati dell’Unione in aumento del 3,9 per cento e quelli extra Ue del 5,1 per cento, mentre nel comparto delle calzature e degli articoli in pelle la crescita generale nel periodo è stata del 4,4 per cento, con una netta prevalenza dei paesi extra europei sul mercato interno (+5 per cento contro +3,8 per cento). La grande inversione di tendenza è tutta concentrata sull’ultimo anno. È qui, nel rapporto fra il 2024 sul 2023, che si percepisce il brusco calo, il colpo di freno, insomma la ragione vera e ultima che fa dire al presidente di Pitti Immagine Antonio De Matteis in apertura di Pitti che per risalire la china tocca “faticare”. Per le calzature, il decremento è stato pari all’8 per cento in generale, e del 12,8 per cento per i Paesi extra Unione Europea. All’appello manca la Russia, per decenni destinazione di una parte rilevante della produzione di scarpe della costiera adriatica, e manca la Cina. Tiene, invece, l’abbigliamento, sostanzialmente stabile in Europa, ma tenderei a vederlo come un fatto di scambio produttivo e logistico, mentre cala dell’1,5 per cento nei Paesi extraeuropei.
Il calo delle vendite di abbigliamento e pelletteria sul mercato italiano, osserva Carbotti, è una costante degli ultimi quindici anni, soprattutto “se si sterilizza l’effetto prezzo”, ed è “ben superiore al complesso delle vendite retail”. Dalla ricerca condotta sul panel internazionale, emerge prepotente il cambiamento attitudinale del consumatore: la differenza tra quanti spendono di meno e le persone che dichiarano invece importi superiori è di 20 punti percentuali per l’Italia e di 26 punti sui mercati internazionali.
Fra i fattori strutturali di questo cambiamento, oltre all’invecchiamento, alla minor capacità di spesa relativa e assoluta e alla nuova sensibilità etica ed ecologica, va preso in considerazione il cambiamento delle abitudini seguito alla pandemia, cioè quello che la vulgata definisce “lo smart working” e che in realtà rappresenta un campo semantico vastissimo: il 61 per cento degli italiani dichiara di spendere di meno per un cambio di abitudini.
Non essendo più costretto a spostarsi nei centri cittadini ogni giorno, non ritiene necessario avere un guardaroba composto di giacche e decine di cravatte. Sui mercati esteri, segnala la ricerca, il calo della spesa è giustificato principalmente “da minori risorse economiche ma rimane rilevante il cambiamento di scelte e abitudini”. Ed è improbabile che si torni indietro. Se da anni scrivo, e scriviamo in parecchi, che la moda dovrà rivedere il proprio perimetro economico, o inventarsi novità vere, lo facciamo con qualche fondamento.
Osserva Giannini che il grave errore dei marchi moda di questi anni è stato di “applicare strategie troppo spinte, dunque poco sicure” e che i migliori risultati, al momento, arrivino dai nomi più classici, che hanno fatto dei valori della qualità e dell’italianità il loro posizionamento indefettibile” e che la semplificazione degli stili di vita, unita a un’offerta “incredibilmente vasta”, sta convincendo tutti a optare per soluzioni “mix and match” fra lusso e fast fashion. Non andrebbe dimenticata, e la ricerca di Banca Ifis lo rende infatti evidente, l’impatto sempre maggiore del vintage, che nei paesi extra-Italia è pratica costante per il 46 per cento degli intervistati in generale, contro il 38 per cento degli italiani, ma tocca punte del 60 per cento fra i giovani. Comprare bello e usato fa chic, esattamente come spendere per i teatri, l’arte, la cultura, e il benessere. Aggiunge Williams che un altro grande errore degli strateghi della moda di oggi è di “correre dietro ai trend del momento, allargando le proprie proposte, aumentando i costi e allontanando il brand dal proprio DNA e dal proprio focus. Il nostro marchio”, racconta, “nasce sulla strada, nelle parrocchie per giocare nei campetti. Non ci siamo mai dimenticati chi siamo: un marchio italiano che nasce nello sport per poi accostarsi in maniera trasversale al tempo libero e alla moda”.