Disegno di un abito da gran sera della collezione inverno 2006 e un look della sfilata inverno 2011 (photo SGP)

Il Foglio della moda - celebrazioni

L'essenza della haute couture

Tony Di Corcia

“Un giorno sarai costretto a farla” gli diceva Adriana Mulassano. E lui rispondeva “Ma va’”. È andata che in vent’anni l’alta moda di Giorgio Armani ha rivoluzionato il sistema. E ora va in mostra a Milano, alla Silos

Haute couture milanese, nuovo capitolo. Il prossimo 20 maggio, nella sede espositiva Armani/Silos di Milano, verrà inaugurata la mostra “Giorgio Armani Privé 2005-2025”, che celebra ne celebra i vent’anni trascorsi dalla nascita, dopo la sfilata dello scorso gennaio a Parigi, negli spazi del palazzo di rue François premier. Aperta al pubblico dal giorno successivo e fino alla fine dell’anno, proporrà circa centocinquanta creazioni scelte personalmente dallo stilista, che non ha voluto curatori esterni. Tra l’altro, l’esposizione si inserisce in un anno ricco di festeggiamenti, vista la coincidenza con i dieci anni di Armani/Silos e i cinquant’anni dalla fondazione dell’azienda

 

           

 

Eppure, quando Armani volle debuttare nella haute couture, in molti provarono perplessità di fronte a questa decisione: ma come, l’incarnazione del prêt-à-porter, il simbolo vivente del vestire democratico, delle intuizioni che entrano nella quotidianità e la facilitano, lo stilista che ha vestito le donne in carriera e venduto milioni di jeans con l’aquilotto, si converte a un linguaggio aristocratico, esclusivo ed escludente, per illuminare eventi inaccessibili e gli immensi guardaroba di signore dalla disponibilità economica illimitata? Nessuno lo disse apertamente, ma la sensazione che serpeggiava era quella di un tradimento. In quel periodo, lavorava al suo fianco occupandosi di comunicazione e di grandi eventi, come le imponenti mostre organizzate al Guggenheim di Bilbao o alle Terme di Diocleziano, la giornalista Adriana Mulassano, già grande firma del “Corriere della Sera”, che oggi ricorda: “Ha ripetuto per una vita che non avrebbe fatto l’alta moda, diceva di non esserne capace, di non poterla fare… Io, invece, gli rispondevo: “Un giorno sarai costretto a farla, perché quando si differenzia molto verso il basso, (vedi Emporio, A/X, la linea jeans, ndr) bisogna adeguare l’offerta anche nell’altro senso”. “Ma va” mi rispondeva”. E invece.

Perché, dunque, un uomo eminentemente pratico come Armani non ha resistito alla tentazione della ricercatezza di ricami complessi e costruzioni che richiedono una manualità fatata? Gli abiti che chiudevano le sue sfilate erano già pezzi in edizione limitata e costosi quanto una fuoriserie, per cui i più non riuscivano a individuare un senso nell’operazione. Sicuramente, è stata una scelta di libertà. Nella produzione c’è sempre qualcuno che ti fa notare come a ogni dettaglio, anche un’asola profilata, corrisponda un aumento del costo finale: uno stilista che si è sempre dovuto confrontare con il concetto di grande pubblico e che conosce perfettamente i criteri produttivi, non può non essere sensibile a questo aspetto. La couture, dunque, come recinto in cui tutto è permesso, anche concedersi una creatività senza limiti: manualità e artigianalità quasi irreali, citazioni e allusioni all’arte, al costume di altri Paesi, rarefazioni e sfide che nell’abbigliamento sono impensabili. Così è stato, sin dal debutto a Parigi il 24 gennaio del 2005, in un loft di rue Lauriston. Libertà, divertimento.

Conferma chi lavora al fianco di Armani (per tutti, il “signor Armani”) che quando l’agenda di lavoro prevede la progettazione o il perfezionamento della collezione Privé, l’atmosfera che si respira in Via Borgonuovo 11 è come più sospesa, irreale: c’è il consueto silenzio sacrale che viene preteso durante il lavoro, amplificato dallo stupore e dall’ammirazione che capi che hanno richiesto anche 900 ore di lavorazione incutono istintivamente.

Diversa, ed eloquente, è anche l’atmosfera che si respira alle sfilate di Armani Privé. Per una Sophia Loren o una Cate Blanchett che inevitabilmente attirano l’attenzione di stampa e fotografi, il resto del parterre è popolato da signore magari anonime ai più, ma lì presenti perché clienti affezionate: in prima fila siedono le clienti arabe e cinesi, che rappresentano i due mercati più rilevanti per questa collezione. Molto spesso, e questo è un dato interessante, si tratta di figlie di clienti storiche

Quest’ultimo dato permette due considerazioni. La prima è che Armani ha vinto, appunto, la scommessa della couture che inizialmente ha destato qualche dubbio in chi lo ammirava come re del prêt-à-porter. Lo stilista ha registrato un ricambio generazionale e percepito che alla fascia più alta del vestire si accostavano ragazze che erano sì cresciute tra i fruscii materni di abiti Balenciaga o Chanel ma che, al contrario delle esigenti genitrici, erano attratte da un linguaggio meno pomposo, meno barocco, meno altisonante, pur non volendo rinunciare a perfezione e qualità. A una sua collaboratrice che gli chiedeva se una giacca non fosse più bella con un’abbottonatura al posto della zip, elemento che non viene in mente per primo quando si parla degli elementi che compongono una creazione di haute couture, lo stilista avrebbe risposto: “Le nostre clienti si vestono da sole, non hanno qualcuno che le aiuti a farlo”. La consapevolezza di abbigliare donne che non vivono a Downton Abbey, con cameriere personali che le aiutano a infilare o a sfilare anche i guanti, è un elemento dirimente nella strategia di Armani. Che si tratti di una couture molto concreta lo dimostra anche la presenza, già dalla seconda sfilata, di numerosi look da giorno che ripropongono in chiave preziosa quelle giacche, quei top, quei pantaloni che costituiscono il suo lessico.

E la seconda considerazione è di natura puramente estetica. Nel momento in cui Armani Privé ha debuttato, la haute couture attraversava un momento di profonda stanchezza e un pulviscolo di polvere – dorata, per carità, ma sempre di polvere si trattava – si era poggiato sugli sforzi sartoriali e produttivi delle non molte maison superstiti: Karl Lagerfeld era irremovibile da Chanel, John Galliano si spingeva oltre ogni confine da Dior, Donatella Versace si concentrava sul prêt-à-porter e la collezione Atelier non era più il pirotecnico laboratorio creativo che tanto appassionava suo fratello Gianni, Dolce & Gabbana ancora non avevano iniziato a spedire le loro accuratissime ma spesso ridondanti cartoline dall’Italia. Altrove, poi, si optava per trovate teatrali - altrimenti dette pagliacciate a mezza bocca fra gli addetti - utili a ottenere qualche secondo di visibilità nei telegiornali in onda all’ora di pranzo. 

Pertanto, l’arrivo di Armani ha dimostrato come fosse e ancora sia possibile un’alta moda che concilia lavorazioni elaborate, attenzioni d’altri tempi, soluzioni sartoriali che purtroppo vengono notate e comprese da un pubblico sempre più esiguo e un’immagine di estremo nitore, con silhouette nette e pulite come un tratto di china: è come nella danza, dove ogni sforzo è nascosto da una inarrivabile grazia. Una couture della sottrazione che ha lanciato un filone, salutare come il digiuno dopo la crapula. Qualche anno più tardi, come se si trattasse di un assist tra colleghi minimalisti, anche Raf Simons seguì questa strada per l’altrimenti opulenta e caleidoscopica couture di Dior: avvicinandosi alla poesia del fondatore, anche lui dimostrò, purtroppo con un seguito ridotto, come fosse possibile presentare elementi di altissima moda su abiti che a un occhio meno attento potevano sembrare banali e disadorni. 

Tanto sui red carpet quanto in pedana, la collezione è ormai una riposante certezza se non un rifugio: non ci si attendono sorprese o bizzarrie, ma si ha la garanzia di trovarsi di fronte a un’idea di moda misurata, ragionevole, donante. E pare che non siano gradite le richieste talvolta eccessive degli stylist, il cui strapotere il signor Armani tende a considerare il giusto, cioè relativamente poco: le loro richieste di modifiche che stravolgerebbero l’immagine dell’abito vengono declinate o contenute con garbata fermezza. Fu osservata solo un’eccezione, e a chiedere un abito che potremmo definire galattico per una cerimonia dei Grammy Awards era Lady Gaga

 

 

Due decenni di sperimentazione (anche con materiali inconsueti, tipo il crine). Da sinistra, in alto, in senso orario: un'uscita Armani Privé estate 2012 (photo Randy Brooke) e relativo schizzo (courtesy Giorgio Armani). Disegno di un abito da gran sera della collezione inverno 2006 e un look della sfilata inverno 2011 (photo SGP) 

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