Un momento del dramma ''Dialogues des Carmélites'' di Francis Poulenc, con la regia di Emma Dante e il maestro Michele Mariotti, all'Opera di Roma (Ansa) 

Guardaroba in musica. Dormirò sol, nel manto mio regale

Anton Giulio Onofri

Nelle opere, il potere logora chi ce l’ha. Consolando gli spettatori meno fortunati e convogliando le energie e le invettive degli agit prop. Libretti e costumi come utili parafulmine dei tempi pre-cinematografici e pre-social? Da Verdi a Adams, qualche spunto

Il potere logora chi non ce l’ha, ma nell’opera anche chi ce l’ha non si sente tanto bene. Dal “Macbeth” al “Boris Godunov” al “Don Carlos”, – non a caso il trittico di titoli scelti da Riccardo Chailly e Dominique Meyer per tre Sant’Ambrogi scaligeri consecutivi dall’anno scorso all’anno venturo – è tutto un monologare di re e imperatori sulla miseria della vita (“il racconto di un povero idiota”), sull’inutilità di un trono che non garantisce la corresponsione d’amore (“dormirò sol, nel manto mio regale”), sull’angoscioso rimorso di uno Zar colpevole di regicidio, mandante dell’assassinio del legittimo erede al trono (il figlio di Ivan il Terribile), e perciò ritenuto da tutti colpevole delle carestie e delle sciagure che infestarono la Russia tra fine Cinquecento e inizio Seicento. Naturalmente, declama Boris nel suo tormentato assolo, tutt’intorno non è che “buio e fitta oscurità”. Che allegria. Divise tra amori inconfessabili e una ragion di stato spietata e tiranna, se la passano male anche regine, sacerdotesse, castellane d’alto rango, figlie di faraoni, colpite dall’ineluttabile disgrazia di abitare dentro un’opera lirica, dove tutto è tragedia e dolore, e l’happy ending si porta assai meno che al cinema (finiscono, le poverette, tutte decapitate, bruciate sul rogo, avvelenate, suicide, pazze). Ai maschi va anche peggio, se possibile, perché nel classico ménage del baritono che concupisce il soprano innamorata persa del tenore, se quest’ultimo finisce giustiziato, pugnalato o sepolto vivo, al collega dalla voce più scura toccano in genere lo scorno e l’onta di restare vivo e con le pive nel sacco senza il beneficio di una morte catartica e redentrice, secondo l’infallibile ricetta dei melodrammi più riusciti e amati, dal “Didone ed Enea” di Purcell, a quelli degli autori di una contemporaneità dove è miracolosamente rifiorita, dopo una pausa comunque trascurabile e tutt’altro che preoccupante, la voglia di raccontare nuove storie con solisti canori, cori e orchestre sinfoniche al completo, da rappresentarsi con scene e costumi in teatri ad emiciclo mediamente esauriti tutte le recite (mentre le sale cinematografiche sono deserte, quando non chiudono i battenti per sempre). Chissà se prima o poi a qualcuno verrà in mente di scrivere un’opera lirica su Hitler, Stalin o Mussolini (per il momento impegnati a fare anticamera giù all’inferno, dove li ha parcheggiati Aleksandr Sokurov nel magnifico “Fairytale”, il suo ultimo film presentato finalmente anche in Italia dopo Locarno, al Festival del Cinema di Torino attualmente in corso) e comporre per loro cavatine e monologhi in chiave di basso. Interessante fu l’esperimento del “Nixon in China” di John Adams, che in cartellone prevede i ruoli di Mao Zedong e del presidente Usa, le first ladies e i rispettivi primi ministri, Zhou en Lai e Kissinger, tutti dipinti come persone buone, brave e tenere… Ma si era ancora negli anni Ottanta e il mondo correva sereno e felice verso la fine della Grande Storia, poi sbugiardata dagli attacchi dell’11 settembre nel primo anno del nuovo secolo.

Ci si provi ora a calare in un loggionista dell’Ottocento, che stipato in piccionaia con il popolo subiva il potere (politico, giuridico, ecclesiastico) dei più fortunati accomodati in platea o in palco, spettatore con loro dei foschi e sanguinari drammi messi in musica da Verdi, Donizetti e Bellini: le ineluttabili spirali di quei libretti perfetti ed esatti come congegni ad orologeria  non erano forse, per i meno abbienti e le sartine, sì, insomma, per ‘la plebe’, delle efficaci terapie d’urto per veicolare e scaricare (attenzione: il cinema era ancora di là da venire) su quelle miserevoli teste inutilmente coronate di diademi, diamanti, perle, tiare e allori, il proprio personale disagio d’esistere? Nell’Italia del Nord, dalla Scala alla Fenice, le platee e i palchi dei teatri erano riservati agli austriaci invasori, e bastava il fiammeggiante do di petto della pira del “Trovatore” per accendere gli entusiasmi patriottici degli italiani lassù in galleria, come si vede nelle scene iniziali di “Senso” di Visconti, dove al calare del sipario sul trascinante finale del terz’atto una pioggia di volantini bianchi rossi e verdi cade a scroscio sulle candide ed elegantissime divise militari asburgiche. Ma, al volo, una riflessione dopo “La Périchole”, operetta (in francese, più elegante, ‘opéra bouffe’) di Offenbach, prima esecuzione nel 1868, andata in scena nei giorni scorsi a Parigi nel Théâtre des Champs Élysées (regia brillantissima di Laurent Pelly e altrettanto effervescente direzione musicale di Marc Minkowski). In un Perù immaginario una cantante dei bassifondi viene presa di mira dal locale Viceré (il titolo italiano è “La cantante e il dittatore”, cioè il non plus ultra del potere assoluto), che la separa dal fidanzato e glielo chiude in galera per avere campo libero; per fortuna il contesto non è melodrammatico ma buffo, come si richiedeva a una serata musicale a teatro nella Parigi del Secondo Impero, mentre il Barone Haussmann sventrava vicoli e stamberghe in favore degli ampi e alberati boulevard, e trasferiva povertà e miseria ai margini della città. La parola d’ordine era ridere: le note della spumeggiante partitura  composte dal creatore del celeberrimo Can-can, adombrano l’invito a sopportare con accondiscendente bonomia gli scempi edilizi e l’umiliazione nell’assistere all’evoluzione di una metropoli sempre più classista, ma soprattutto senza irritare o infastidire il boss, Napoleone III: tutto sommato, una musica che mette in scena il potere senza necessariamente irriderlo, e anzi ne costituisce l’unico possibile antidoto, gradevole da succhiare come un cristallo di zucchero alla violetta, non nel privato piacere della lettura di un pamphlet, ma nel contesto di un pubblico rito sociale come una soirée a teatro. A ben guardare, opera e potere sono un perfetto ed esemplare matrimonio. In un dramma lirico tutti sono nelle mani di qualcuno che li tiene in scacco, come Turandot che impone tre impossibili enigmi ai suoi sfortunati (e solutori poco abili) pretendenti destinati alla forca; qualcuno che può decidere per loro vita e morte, come lo Scarpia di “Tosca”; che in virtù del suo rango regale può vendicare una passione amorosa respinta, come l’egizia Amneris che, innamorata di Radames, lo fa rinchiudere vivo nella tomba di una piramide insieme alla sua amata schiava etiope Aida; che può abusare dello ius primae noctis, come il Conte delle “Nozze di Figaro”, o il libertino mozartiano per eccellenza, Don Giovanni, che Chiara Muti, nella sua regia al Regio di Torino con la direzione musicale di papà Riccardo, immagina come un faustiano Mangiafuoco in controluce che muove ed anima come burattini il suo servo, le sue amanti, nobili, contadini e chiunque venga attratto nel vortice del suo raggio d’azione, e che alla festa in maschera abbigliato da Re Sole canta ai suoi ospiti, implicitamente negandogliela, ‘Viva la libertà!’. Morto lui, tutti gli altri personaggi si afflosciano come inerti manichini. Ma è, credo senza alcun dubbio, il Grande Inquisitore del “Don Carlos” (che nelle scorse settimane a Napoli si è aggiunto al ciclo di aperture delle stagioni liriche nella consueta tornata di queste ultime settimane dell’anno, dopo Torino e prima di Roma e Milano) la massima espressione nel teatro musicale di ogni tempo di quel Potere veramente supremo e indefettibile, inattingibile e invisibile, di natura quasi divina, ben al di sopra di chi, agli occhi di tutti, siede sui massimi scranni delle sedi governative e nei parlamenti del mondo, qualcosa di simile a quel New World Order oggi paventato, anzi dato per scontato, dai Teorici del Complotto. Sua Maestà il Re Filippo, la cui pena più insostenibile è il proprio amore, non ricambiato, per la stessa donna che ama, riamata, suo figlio (‘Il re piange perché è solo e senza amore’ racconta Tonio Kröger all’amico Hans, fresco della lettura di Schiller, fonte del libretto verdiano), esce annientato dall’incontro segretissimo con quel vegliardo ‘cieco, nonagenario’ del Grande Inquisitore. Quel Potere Assoluto (le maiuscole non sono casuali), che il cinema ha pudore di mostrare (si pensi all’afasico e sfuggente Dio in ‘Loro’ di Paolo Sorrentino), è la vetta della piramide, e insieme la piramide intera, il suo interno e il suo esterno, nessuno è al di sopra di lui, e Verdi lo ammanta di un commento musicale grave come i passi di un anziano e fiacco pachiderma che avanzi affondando le zampe in una palude limacciosa, statica, pestifera: una musica, insomma, che quasi non si muove e sembra girare intorno per ripiegare su se stessa, espressione in termini sonori dello sterile solipsismo cui può arrivare soltanto chi, per età o per elevazione di rango, non debba più obbedire ad alcun ordine. Lord Macbeth e Boris Godunov sono invece burattini di se stessi. Entrambi si sono macchiati di orrendi delitti per inseguire le proprie ambizioni, e una gelida brezza di morte ha preso a soffiar loro controvento. Il monarca scozzese, personalità debole, pavida e manovrabile, ha ceduto alle turpi suggestioni della ben più determinata consorte; lo Zar russo ha agito invece per correggere il tiro rispetto alle durezze e alle crudeltà del suo predecessore Ivan il Terribile. Ma anche lui, come Macbeth, ha ucciso, e questo non può che scatenare in entrambi terrore e rimorso. Lo scrive Tullio Serafin in un suo manuale sull’interpretazione del melodramma italiano, come racconta in un’intervista nel numero di dicembre della rivista della Scala Riccardo Chailly, che addirittura ipotizza tra i due titoli ulteriori legami suscettibili di approfondimento: Musorgskij, che compose il “Boris Godunov” pochi anni dopo la seconda versione del ‘Macbeth’ (del 1865) conosceva forse il capolavoro di Verdi? Tra il lamentoso intervallo di semitono nella scena dell’Innocente e il Coro “Patria oppressa” c’è ben più di una straordinaria somiglianza… Se il caso non esiste, questa doppietta inaugurale in sequenza – che culminerà nel suo terzo e conclusivo capitolo con il ‘Don Carlos’ programmato per il 7 dicembre 2023 – ne è l’ennesima prova.

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