Il Foglio della moda

Le nuche misteriose

Andrea Minuz

Le masserie bucoliche. Le tonnare neorealiste. O, all’opposto, metafore didascaliche ed evocazioni fumose. I fashion film sono l’ultimo rifugio di ogni cliché, posa e tic stilistico. Con qualche eccezione

Sembra emergere un’affinità specifica, una tendenza oggi piuttosto diffusa, tra moda italiana e mitologia del territorio. Saranno le “tradizioni”, le “artigianalità”, le tante specificità dei nostri distretti ma, se interpellati, i giovani stilisti non perdono occasione per rievocare i nonni contadini, il pranzo della domenica in campagna, le cicale, le galline, i vigneti, i campi con le balle di fieno. “La tovaglia che usava mia nonna”, racconta per esempio Federico Cina, “giovane designer della Romagna, ”è il segno attraverso cui “portare i valori della famiglia contadina nel mondo della moda, per creare qualcosa di poetico” (lo spiega, del resto, in un’intervista il cui titolo è un manifesto programmatico: “Territorio, famiglia, identità: i valori della nuova moda italiana”). Si ricorderà, ormai una decina d’anni fa, all’alba o quasi di questo sfrenato ritorno bucolico, un Pitti Uomo riconvertito a fattoria, con campi di grano, covoni di paglia e spaventapasseri in giacche di tweed. Oppure le ormai celebri collezioni “neorealiste” di Dolce & Gabbana, con l’omaggio al Visconti de “La terra trema” e i modelli “presi dalla strada”, cioè veri e autentici pescatori siciliani mandati in passerella, come usava nel cinema italiano del dopoguerra con gli attori non professionisti.

 

È così in fondo che il mondo ci vuole. Un’Italia fatta di cascine nel Chianti, frantoi in Umbria, tonnare siciliane e masserie in Puglia, come quella in cui Madonna ha festeggiato il suo ultimo compleanno, immortalato su Instagram sulle note di “Vurria” cantata da Claudio Villa, in un mash-up davvero straniante. Nella moda e nel made in Italy il “ritorno alla terra” fa sempre da sfondo all’esaltazione d’una manualità artigianale intesa, com’è ovvio, in senso anticonsumista e antindustriale. L’Italia come placida resistenza alla modernità (e sarà forse anche per questo che a Madonna o Anthony Hopkins piace cantare “Bella ciao” appena mettono piede qui). Tra le tante retoriche in cui è intrappolato il racconto dell’italianità, appaiono così particolarmente intramontabili una permanente nostalgia dell’autentico e del “vero” e una visione mistica dell’arte. Sembra anzi impossibile immaginare una narrazione della moda che non passi da qui, costretta in un continuo ripiegamento al passato: quello del retroterra incorruttibile e incontaminato della campagna, delle valli, dei borghi, o quello della mistica dell’arte, della metafisica della bellezza pura e autoriflessiva. Ecco perché la moda si ritrova spesso in una condizione paradossale: un linguaggio innovativo, l’espressione più autentica del nostro presente, ma raccontata, soprattutto da noi, nei modi più vecchi e retorici. Il demone della legittimazione culturale, il peccato originale e pur presunto di frivolezza e superficialità, condannano del resto la moda a un’autorappresentazione cui raramente è concessa l’ironia.

È un mondo dove tutto viene preso sempre molto sul serio, con punte di pura megalomania artistica, come nel caso dei fashion film, che ormai accompagnano spesso ogni nuova collezione. “Il cinema è un linguaggio potente che racchiude tutte le muse d’Apollo”, dice Alessandro Michele, reincarnatosi artista rinascimentale, parlando della mini-serie che ha diretto con Gus Van Sant, “Ouverture Of Something That Never Ended”, che è una specie di “Heimat” dei fashion film. Parla del cinema, Michele, come uno dei primi teorici fin de siècle a caccia dello “specifico filmico”, un Ricciotto Canudo, un Louis Delluc, rivelando un atteggiamento assai diffuso tra i suoi colleghi, e cioè che al massimo del glamour e del pop può corrispondere la posa estetica più magniloquente, la soggezione all’arte più naïve e scolastica. Lanciati una decina d’anni fa come un “nuovo linguaggio” per raccontare la moda (anche se nessuno sapeva spiegare la differenza con uno spot o una campagna pubblicitaria), i fashion film sono così diventati l’ultimo rifugio di cliché, pose, tic che ormai si fa fatica a trovare anche nell’ arthouse cinema più vecchio. Hanno spesso titoli criptici, come un brano di Ludovico Einaudi o un profumo: “The Dream”, “Destinéé”, “Time passing”, “Plateau”. Non di rado i fashion film “esplorano l’arte in tutte le sue forme” con sinossi assai minacciose (“mondi naturali si aprono attraverso le parti vitali della donna rappresentando la connessione tra la carne, l’anima, la natura”). Metafore didascaliche, immagini pesanti come macigni, narrazione neanche a parlarne: il fashion film non racconta, “evoca”.

 

Il lessico è quello del film d’autore come se lo immagina uno studente del Dams: sguardi persi nel vuoto, nuche misteriose, mani che cercano mani (o se c’è di mezzo l’artigianato italiano, mani che lavorano, disegnano, cuciono, rammendano), e poi corridoi infiniti, ombre, penombre, tende che svolazzano, immagini sacre, irruzione di cavalli o bestiame vario, statue classiche à la De Chirico, boschi, arbusti, fogliame, molto ralenti, inquadrature controluce, musica quasi sempre “contemplativa”, come nei percorsi spa con sauna e bagno turco. L’avanguardia di ieri rinasce nei fashion film di oggi: con la musica giusta e il brand che spunta nel finale, “Un chien andalou” di Buñuel e Dalì sarebbe un fashion film perfetto. Solo vecchio di cento anni. Ma ecco che con la loro ossessione per le vette più inaccessibili dell’arte, i fashion film sembrano fatti apposta per i nostri “auteur” da esportazione: Paolo Sorrentino, Alice Rohrwacher, Luca Guadagnino, Matteo Garrone (anche se il suo fashion film per Dior, visto l’anno scorso a Milano per il Fashion Film Festival, che ha vinto, è uno dei pochi da salvare). Rohrwacher, per esempio, che passa dall’epica del mondo contadino ai fashion film ipnotici per Miu Miu, è forse l’esempio migliore di una perfetta complementarietà tra retorica del cinema d’arte e autenticità della campagna. Anche Wes Anderson nel suo fashion film per Prada (“Castello Cavalcanti”) non rifà il Fellini urbano e moderno de “La dolce vita”, ma quello bucolico e pascoliano di “Amarcord”, il Fellini del “borgo natio”.

 

Si delinea qui tutta una tradizione italiana di ricerca del vero e del bello (purificato dall’industria) che va dai sacchi poveri e francescani di Alberto Burri al cashmere di Brunello Cucinelli. È lui il capostipite, e se non altro il più autentico interprete di questa narrazione della moda italiana. Nel “Sogno di Solomeo”, un libro-manifesto, pubblicato da Feltrinelli qualche anno fa, Cucinelli definiva così il senso della sua parabola imprenditoriale: “Il sogno di Solomeo è quello di un contadino che, seguendo i valori umanistici scoperti nella vita rurale e nella filosofia, diventa un grande industriale. Un misterioso, spirituale regno dell’artigianato dove si “custodisce la bellezza”. Due anni fa c’è stato in visita anche Jeff Bezos. Cucinelli è oggi il più grande interprete della trinità italiana, “Arte-Bellezza-Territorio”. Resta però da chiedersi se esistano e quali siano le eventuali alternative a questa rappresentazione della moda. Nell’anno di Expo, Carlo Calenda che era vice ministro allo sviluppo economico commissionò uno spot con lo scopo di ribaltare i grandi luoghi comuni del Made in Italy. Si intitolava, “Italy: The extraordinary commonplace” (potete vederlo su YouTube). Nel video, quelli che a prima vista sembrano pizzaioli, bamboccioni, latin lovers, eccetera, si rivelavano professionisti dell’high-tech, delle nanotecnologie, dell’industria farmaceutica e di altri settori poco associati all’italianità, secondo pregiudizi consolidati, ma confutati dai dati sull’esportazione. Forse ci vorrebbe qualcosa del genere anche per la moda. Provare magari a raccontarla senza troppi moralismi paralizzanti e trip arcaici. Senza aver paura di essere leggeri, frivoli, divertenti, e un po’ più nuovi.

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