L'interno id un negozio Ovs (Foto LaPresse)

La classifica

“Chi ha fatto i miei vestiti?”. OVS è l'azienda più trasparente al mondo

Fabiana Giacomotti

The Fashion Revolution ha pubblicato l'annuale indice che indaga sulle supply chain delle case di moda, sugli stipendi e sulle condizioni di lavoro della filiera. Gucci, primo marchio del lusso ad entrare nella top ten dal 2016

Premessa. Qui si parlerà di trasparenza nelle informazioni fornite sulla sostenibilità della propria filiera, non di sostenibilità, però anche essere onesti e corretti sulle fonti di approvvigionamento di tessuti e pelletteria, e su come, dove e per quanti denari mensili si faccia lavorare la gente ci pare una cosa importante, per cui siamo andati a cercare l’annuale classifica del movimento The Fashion Revolution (gruppi di attivisti no profit in cento paesi, slogan: “Chi ha fatto i miei vestiti?”), scoprendo che l’azienda più trasparente al mondo sulla propria supply chain è OVS. I risultati dell’indice sono stati resi noti in Italia parzialmente e con una certa cautela; in parte si può capire perché: su duecentocinquanta aziende con un turnover minimo di 400 milioni, che sono la base di selezione di Fashion Revolution, OVS raggiunge un punteggio del 78 per cento di obiettivi raggiunti, con un aumento del 44 per cento rispetto al 2020; Gucci, che è il primo marchio del lusso ad entrare nella top ten dell’indice dal 2016, quando è stato lanciato, raggiunge il 56 per cento; H&M è secondo con un punteggio del 68 per cento (eh sì, l’ondata di cattiva pubblicità sul fast fashion ha consigliato alla multinazionale svedese di impegnarsi seriamente, anche nel riciclo), seguito da Timberland e The North Face.

 

Quest'anno, l’azienda guidata da Stefano Beraldo ha comunicato per la prima volta alcuni dei suoi fornitori di materie prime, ed è stato una delle uniche due, insieme con Patagonia, a pubblicare i dati sul salario dei lavoratori della filiera: in parole povere, se la signora del sud est asiatico che ha cucito i nostri pantaloni e le nostre t shirt sia stata pagata abbastanza da poter mettere cibo in tavola tutti i giorni per i propri figli, mandandoli anche a scuola e non nei campi o a cucire palloni. Questo significa che duecentoquarantotto brand su duecentocinquanta non hanno detto o provato in alcun modo a quali condizioni vengano realizzati i capi che vendono talvolta con margini superiori del 400 per cento, e ce ne sono addirittura venti di cui nulla si sa su ogni fronte, compreso quello, molto rilevante al momento della diversità e inclusione, e comprendono Tom Ford, Pepe Jeans, Tory Burch e Max Mara, che l’altra settimana festeggiava la propria collezione cruise sulla spiaggia di Ischia in atmosfere marino-bucoliche. I venti alla base della classifica hanno ottenuto punteggio zero, che non significa certo essere inquinatori schiavisti, ma di sicuro un po’ troppo gelosi sulle proprie pratiche in anni che esigono al contrario certificazioni per fondi e investitori e rassicurazioni per i clienti. Max Mara usa lane bellissime e un giorno ci dirà dove faccia davvero cucire i suoi bellissimi cappotti e a quali condizioni, così, come non ci sono dubbi che il pile di Patagonia non sia esattamente il massimo della sostenibilità e del riciclo.

 

La nota positiva è che però adesso tutti noi possiamo saperlo leggendo le etichette e iniziando anche ad agire per conto nostro, che sarà il prossimo grande tema della sostenibilità: le aziende possono anche fare il massimo possibile per diminuire il proprio impatto sul pianeta e pagare tagliatori e sarte il giusto, cercando al contempo di fare il proprio mestiere che è quello di portare fatturato e utili, ma se noi continuiamo a comprare da sventati, la responsabilità è anche nostra. Da OVS, comprensibilmente molto soddisfatti, dicono di “stare investendo per far conoscere ogni anello della filiera produttiva, rendendo disponibili le liste dei fornitori diretti e indiretti (tema importante: tutti i guai di Benetton negli Anni Novanta iniziarono sui sub-fornitori, ndr) e segnalando con precisione il consumo di acqua ed emissioni di Co2 attraverso il coinvolgimento dei propri fornitori e a livello di ogni singolo prodotto, attraverso un progetto in collaborazione con l’Università di Padova, Eco Valore, che consente ai clienti di valutare l’impatto generato dai capi”. In generale, quel che si evince dalla classifica non è proprio confortante: la moda e l’abbigliamento, secondo agente inquinante mondiale, procede con troppa lentezza sulla strada della sostenibilità, e anche della trasparenza: mentre il 62 per cento dei marchi ha pubblicato i dati sul proprio footprint, solo il 26 per cento ha divulgato queste informazioni a livello di lavorazione e produzione e il 17 per cento a livello di materia prima.

 

Quasi un terzo dei brand considerati ha fatto sapere di avere programmi di recupero e riutilizzo dell'abbigliamento smesso (H&M, per esempio, ancorché in misura non ancora massiccia), mentre solo il 22 per cento ha comunicato che cosa accada davvero ai vestiti dopo la riconsegna, e qui tocca a noi spiegarvi perché: se acquistate una t shirt di cotone a duecentocinquanta euro, non vorrete di certo una maglietta bianca, giusto? La vorrete ricamata, con decori, stampe, accessori vari. Bene: ognuno di questi abbellimenti comporta materiali diversi, processi di smaltimento differenziati e non sempre possibili, oltre a costi rilevanti. Non vi diciamo di comprare solo t shirt di cotone biologico naturale cioè non sbiancato. Però, iniziate a fare attenzione a tutte le zip.

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