Alfabeto riassuntivo

Abbecedario dell'alta moda in digitale

Armani a palazzo Orsini, Valentino alla Galleria Colonna, Dior nel castello di Sammezzano. Questa tornata di sfilate si è rivelata un grandioso volano per le bellezze naturali, culturali e industriali dell'Italia turistica travolta dal Covid

Fabiana Giacomotti

Per essere la haute couture di Parigi, questa tornata di sfilate di alta moda in digitale si è rivelata un grandioso volano per le bellezze naturali, culturali e industriali dell’Italia turistica travolta dal Covid. Il meraviglioso palazzo Orsini, sede della Giorgio Armani a Milano, visto da ogni angolatura, per la presentazione di Armani Privé (recensione sul numero stampato); per Valentino la Galleria Colonna di Roma che, dice il direttore creativo Pierpaolo Piccioli, “evoca la Galérie des Glaces di Versailles” ma non è vero, perché è molto meglio (e comunque i famosi specchi voluti da Louis XIV vennero realizzati dai maestri vetrai veneziani che la corona di Francia aiutava a fuggire, pagandoli profumatamente e poi proteggendoli perché non venissero uccisi dai sicari della Serenissima). Genio italiano ovunque. Per Dior il castello di Sammezzano, fuori Firenze, capolavoro orientalista-eclettico curato fra la fine dell’Ottocento e il primo decennio del secolo scorso da Ferdinando Panciatichi Ximenez d’Aragona e molto amato dal regista Matteo Garrone che, prima di convincere la direttrice creativa di Dior Maria Grazia Chiuri a usarlo come set per l’incantevole film di presentazione della collezione, vi aveva già girato il primo episodio del Racconto dei Racconti, “La cerva”. Contiamo che questo viatico farà per la sua salvaguardia quello che nemmeno Italia Nostra è riuscita a ottenere: dopo essere stato sfruttato per matrimoni e soggiorni prezzolati, è ormai in stato di abbandono. In ogni caso, dalla piattaforma della Fédération de la Couture sono stati diramate immagini che dovrebbero far davvero riflettere Dario Franceschini sull’opportunità di lanciare davvero quella sua sedicente “Netflix della cultura”, quando è ovvio che la moda italiana sia il miglior portabandiera possibile per il paese e che Rai5 si occupi egregiamente del resto.

  

Dunque, nei quattro giorni di sfilate vissuti prevalentemente online si è vista molta Italia nella rappresentazione, ma anche nella produzione, nell’azionariato, nella creatività. E questo a prescindere dalle limitazioni del Covid. Come dice Alber Elbaz (vedere sotto), “quando le cose non vanno bene abbiamo bisogno della moda”. Quella che abbiamo visto in questi giorni, anche un po’ di persona, ci ha dato la misura di quanta voglia di sia di tornare a sorridere e a vestirsi. E anche la percezione che nessuno si immagina sul divano o dietro la scrivania da cui stiamo scrivendo adesso entro i prossimi sei mesi. 

Alfabeto propedeutico-riassuntivo di prammatica

  

A-Z Factory. Un alfabeto che si rispetti inizia con la A e termina con la Z, come l’iniziale del nome di Alber e l’ultima lettera del suo cognome: Z come Elbaz. Per il suo ritorno sulle scene a quasi sei anni dall’uscita da Lanvin (che da allora è invece praticamente uscito dai radar del settore, dopo aver cambiato un numero considerevole di designer) ha realizzato una collezione divertente, stuzzicante, perfettamente rispondente ai desiderata delle donne che poi, lo dice anche lui nel divertente video costruito con la “mise en abime” che accompagna la collezione, vogliono sempre le stesse cose: apparire comode ma seducenti, senza doversi cambiare troppo spesso nell’arco della giornata, anche e soprattutto se costrette allo smartworking. Geniale e anche parecchio sexy la catenella dorata per chiudersi gli abiti adernti e modellanti zippati sulla schiena da sole, non male le “pointy sneaks”, le sneaker con la punta affusolata che slancia la gamba senza spezzare la caviglia come una décolléteé), utili le tute abbastanza eleganti da potersi declinare in mise per lo yoga e tenuta per la riunione su Zoom. A rigor di termini, la collezione di Alber Elbaz, che gode del sostegno economico del gruppo Richemont, non sarebbe couture (non realizza abiti su misura, non si è affidato a un atelier ma a un’azienda italiana nota per la maestria dei suoi tessuti elasticizzati, la Mas Italia, che ha realizzato tessuti con tredici differenti tensioni, una soluzione modulante da patto di governo, per dire). Noi però vogliamo considerarla couture lo stesso, perché rappresenta il taglio raffinato del suo pensiero e la sua sottile ironia ebraica: “Ho fatto una piccola collezione ma non voglio chiamarla capsule come fanno tutti perché sono ipocondriaco e a me la definizione evoca gli antibiotici“. Alber is back. Sperabilmente, to stay.

 

Bloomsbury Group. Nota speranzosa di presa in consegna, perché non vorremmo più leggere, ma davvero never ever, l’aforisma di Virginia Woolf sulla moda che “per quanto sembri frivola” è invece tanto rivelatrice della personalità di ciascuno in esergo alle note di sfilata. In questo caso Fendi, che era invece una collezione di debutto piuttosto interessante ancorché da modulare nel messaggio (davvero dobbiamo creare un abito mezza-giacca maschile-mezzo abito da sera femminile per suggerire l’idea dell’interscambiabilità vestimentaria? Ma suvvia): Kim Jones, stilista adorato dall’intero gruppo Lvmh, ottimo su Dior Homme, ha bisogno ancora di un po’ di rodaggio, mentre è ovvio che gli accessori disegnati da Silvia Venturini Fendi risollevino e riequilibrino l’effetto generale. A Vogue Uk, Jones ha raccontato di possedere un cottage dalle parti di Charleston, genius loci del gruppo di Bloomsbury, e di aver tratto ispirazione dalla sua dichiarata profonda conoscenza di Orlando, che è un po’ l’ossessione di tutti gli stilisti da tempo immemorabile per le ovvie ragioni. Benissimo. Perché ammorbare tanti spunti interessanti di nozionistica ritrita. Perché ammorbare il nuovo con un vecchio risaputo. Esiste perfino un sito che evoca quante volte l’Orlando di Virginia Woolf abbia ispirato la moda (gli mancano giusto Burberry e les Copains 2019, ma per il resto c’è tutto, e il video che lo accompagna dura quindici minuti). E’ incredibile quanto siano state saccheggiate le tappezzerie, i libri, le pettinature le abitudini delle due sorelle Bell (fra l’altro citando quasi esclusivamente Virginia e di molto sbagliando, perché l’anima del circolo era Vanessa. Virginia si occupavano tutti soprattutto di curarla e far sì che dormisse e mangiasse abbastanza). Nota in ipotesi: lo stesso discorso vale per Oscar Wilde. Si possono editare collezioni bellissime anche senza dover per forza cercare un riferimento letterario a tutti i costi, che poi in Azerbaijan interessa il giusto.

 

C come cappe (o cotte). In perle (Fendi e Valentino), metallo (Dior), mikado di seta (Antonio Grimaldi). Non sono affatto facili da realizzare

 

C come Maria Grazia Chiuri. Si sta rivelando una strepitosa curatrice di moda. Sceglie i migliori talenti ovunque, dall’atelier alla regia all’artigianato (couture incantevole nei suoi riferimenti esoterici, ma non dimenticate la sfilata resort di Lecce). Non tutte le donne, anzi quasi nessuna, è capace di leadership non accentratrice.

  

C come cioppine. Una visita al Museo Correr, al Museo di Palazzo Mocenigo, o una richiesta del testo di costume “De li habiti antichi et moderni” di Cesare Vecellio, 1599, conservato presso la Biblioteca Alessandrina dell’Università La Sapienza di Roma, vi permetteranno di distinguere fra un banale plateau e la gloriosa pianella rinascimentale, con tacco a zattera in legno sagomato e ricoperto di pelle, velluto o seta alto fra i cinquanta centimetri e il metro, a cui si è ispirato Pierpaolo Piccioli per allungare figure e forme delle modelle con la spaziale armonia di un Brancusi con una lunga serie di Mary Jane dal platform altissimo. Le cioppine erano indossate parimenti da gentildonne e cortigiane (più queste ultime, però), nella Venezia di Veronica Franco, e necessitavano di una o due accompagnatrici perché chi le indossava non ruzzolasse giù per ponti e canali. Il Consiglio cercò in ogni modo di limitarne l’altezza, senza fortuna: il maestro di ballo Marco Fabrizio Caroso, nel suo “Nobiltà di Dame” del 1600, affermava che una donna degna di nota avrebbe dovuto ballare con grazia e bellezza anche indossano le “chopine”.

  

O come oro. Moltissimo. Sulle maglie e le gonne di paillettes effetto bagnato, sul cappotto strepitoso in cashmere e fili di lurex di Valentino, sugli stivali in pelle dorata con plateau (sempre Valentino, vedere anche alla voce “cioppine”), sui gioielli antropomorfi a imitazione di maschere e accessori funerari egizi e micenei (giureremmo che nei mesi del lockdown molti direttori creativi si siano dati alla visione dei canali tematici di arte e archeologia: Agamennone è la vera grande ispirazione degli accessori dell’ultimo semestre). 

 

O come orecchini. Non si portano ai lobi perché li strapperebbero. Si agganciano al padiglione, direttamente, oppure appesi come pendenti a sottili cerchietti di metallo. Immensi, in plastica, metallo, resina: notevoli quelli di Fendi, disegnati da Delfina Delettrez Fendi (che ha sfilato anche, esibendo la sua grazia trattenuta e riservata)

 

M come moda (ma anche PPP come Pierpaolo Piccioli). La moda per la moda. Come l’arte per l’arte. “La semplicità come complessità risolta”. Non dovrebbe essere evidente? Non lo è stato per anni. Il Covid ha imposto una riflessione piuttosto fondamentale su modi e tempi della moda, e tutti ne hanno tratto vantaggio. Quando Pierpaolo Piccioli organizza una sfilata su “rituali e processi classici”, senza mescolare piani diversi, tenendo anche la bella colonna sonora di Massive Attack nel ruolo che le compete e che le spetta, significa che il sistema sta recuperando la propria idea centrale (e in ogni caso, aspettiamo di vedere online a brevissimo la performance che Robert Del Naja ha ideato attorno al progetto di Piccioli, lavorando di algoritmi e intelligenza artificiale sui volti della sfilata con Mario Klingemann, pioniere nell’apprendimento informatico delle arti.

 

S come Schiaparelli. Dopo aver azzeccato l’abito dell’anno vestendo Lady Gaga alla cerimonia di insediamento di Joe Biden alla presidenza degli Stati Uniti, alla sua terza prova Daniel Roseberry ha azzeccato anche la collezione couture. Ha scartato le solite silhouette della couture, prendendo pezzi che non "dovrebbero" essere mostrati in questo contesto. I pantaloni, un bomber, invitando a vederli in modo nuovo. Anche le tecniche sono inaspettate: i pantaloni di pelle blouson hanno un elastico in vita, il denim del jeans color crema è re-immaginato in seta duchesse delavé e double face, impreziosito da lucchetti dorati pendenti. I tessuti sono altrettanto dirompenti: insieme al faille di seta, alla pelle stampata e a un croccante taffettà, c'è anche il velluto di seta legato al neoprene e l'abito a colonna drappeggiato da un sinuoso jersey di seta elastico. In un numero limitato e potentissimo di capi c’è tutto il patrimonio intellettuale e surreale di Elsa Schiaparelli (modificazione del corpo, accessori antropomorfi e ipertrofici) Dice di “voler creare una casa di couture alternativa”, di abiti “che ti rendono consapevole del tuo corpo”. Della fondatrice ricorda gli abiti “che celebravano la gioia di pavoneggiarsi e di mostrarsi”. Per raggiungere la perfezione, gli ci vorrebbe uno zic di leggerezza in più. Che però è molto europea. Gli americani, in genere, sono più apodittici. D’accordo, la collezione è esagerata, eccessiva, piacerà soprattutto alle rockstar. Ma evviva. Era ora che Schiaparelli trovasse la sua strada e il suo stilista, dopo oltre un decennio di collezioni ops. Non ci speravamo più.

    

T come tessuti. Tutti diversi nei quasi ottanta modelli di Valentino. Tutti italiani. Prendete nota, ancora una volta

 

U come uomo. Questa volta, dichiaratamente, Pierpaolo Piccioli si è concentrato sulla sfilata, senza appoggiare istanze sociali come ha fatto negli ultimi anni, cioè quando le sfilate si godevano di persona e si potevano . Però, in quel suo modo sottile, ha trasferito la consapevolezza di quanto, nei secoli e non solo negli ultimi anni, il guardaroba maschile e femminile sia stato interscambiabile. Effetto molto riuscito: c’è modo e modo di dare lezioni, e lui sa farlo. Uomini in passerella anche per Kim Jones, che ha fatto sfilare ragazzi col rossetto, abbigliati con tuniche apparentemente costruite sui parati del cottage della famiglia Bell. 

 

P.S. Ma che cosa c’è di così straordinario in una sfilata couture dove sfilano anche gli uomini da far gridare tutti al miracolo? L’alta sartoria è patrimonio e modello di sfoggio maschile da sempre, a prescindere dalla moda consacrata come tale.

  

V come Giambattista Valli. Non abbiamo immagini da proporvi in galleria, purtroppo. Ma immaginatevi il consueto abito rosa o rosso di tulle a volant (minimo cento metri arricciati, molto strascico) e ci sarete andati vicino. Un tempo sperimentava molto di più, ed era piuttosto straordinario. Poi deve aver scoperto che alle ragazze bling bling d’Asia e d’America piacciono le gonne asimmetriche e vaporose (cortissime davanti, lunghissime dietro) e l’effetto piumino da cipria. Immaginiamo venda moltissimo.

   

W come Watteau. Andate a rivedere Le voyage a Cythère (1717, in caso), perché vi ritroverete tutte le grandi pieghe posteriori, con strascico, che compaiono sugli abiti da sera del momento, da Dior a Grimaldi. Si chiama, non a caso “plis Watteau”. Il dipinto ispirò anche Charles Baudelaire per il suo sonetto più celebre, come noto.

  

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