Uno store Zara a Madrid (foto LaPresse)

Crollano i ricavi di Zara (-44 per cento), che ora promette un modello più sostenibile

Fabiana Giacomotti

L'aumento graduale delle vendite online porterà nei prossimi anni alla chiusura di un migliaio di store. Intanto il ceo Isla, spinto dalle campagne ambientaliste, studia una riconversione dei punti vendita fisici e digitali

Due più due non fa necessariamente quattro, soprattutto in politica e ancora di più in economia dove numeri, si sa, si possono leggere in modo diverso a seconda degli obiettivi. Per questo, rilasciando poche ore fa i risultati del primo trimestre del 2020, la holding di Zara, Inditex, ha dichiarato che i ricavi sono diminuiti “solo” del 44 per cento “nonostante l’88 per cento dei punti vendita chiusi” e che le vendite online sono invece aumentate del 50 per cento. A noi, che non dobbiamo fare maquillage al bilancio, questi dati sembrano invece raccontare qualcosa di diverso, e cioè che il fatturato si è sostanzialmente dimezzato, e che i punti vendita potranno anche rimanere sbarrati a vita, anzi chiudere proprio, perché Zara non ha più bisogno di negozi fisici – si è fatto conoscere abbastanza per poter lavorare quasi esclusivamente online, usando i flagship store come showroom aperti al pubblico – e deve invece puntare su un modello di sostenibilità che è invece il suo punto debole e come peraltro ben sa. Tutto questo sta scritto a chiare lettere nel bilancio, a volerlo leggere con attenzione.

 

Partiamo dai ricavi: 3.3 miliardi. Lo scorso giugno Inditex annunciava trionfante di aver sfiorato i 6. Il calo, drammatico e accompagnato da un Ebit negativo per 200 milioni e perdite nette per 175 milioni al lordo degli accantonamenti, è stato in parte mitigato dalla robusta posizione finanziaria netta a 5,8 miliardi di euro, e dall’aumento delle vendite online (questo, ci dicono fonti di mercato, soprattutto da parte del pubblico giovane), che nel solo mese di aprile sono addirittura raddoppiate: +95 per cento. Il margine operativo lordo è rimasto invece invariato al 58,4 per cento delle vendite, “a dimostrazione della flessibilità insita nel nostro modello di business, che nel mese di aprile ha portato a effettivi di magazzino inferiori del 10 per cento rispetto al 2019”. Il sistema sta cambiando, e questa volta for good, per sempre.

 

Per il 2022, prevediamo che le vendite online peseranno per il 25 per cento sul totale ricavi, rispetto al 14 per cento del 2019”. Dunque, si abbassano le saracinesche. Quante e quali, lo esplicita – fra le pieghe del documento – una nota sulla prossima chiusura di mille-milleduecento punti vendita in tutto il mondo entro il 2022 sul totale di oltre 7400 di oggi: si spegneranno le luci dei negozi più piccoli e di quelli in partnership con altri brand, mentre i flagship entreranno a far parte del nuovo piano di implementazione digitale, a cui il ceo Pablo Isla intende destinare 2,7 miliardi di investimenti, in buona parte mirati a rinnovare “con un sistema tailor made”, la piattaforma digitale e le interazioni fra negozio e smartphone. In parallelo, conscio che le campagne ambientaliste contro i danni provocati al pianeta dal fast fashion hanno lasciato il segno, Isla promette una rapidissima “conversione sostenibile” dei punti vendita fisici e digitali:”Useremo meno energia, e solo rinnovabili, useremo la plastica monouso, ricicleremo tutti i materiali e promuoveremo il riutilizzo dei capi”. Aspettiamo di vedere come. Nel frattempo, gli azionisti di Inditex si vedranno staccare un dividendo ordinario di 0.35 euro per azione a novembre.

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