“Christian Dior, couturier du rêve” è il titolo della mostra allestita fino al 7 gennaio al Musée des Arts décoratifs di Parigi

La moda si mette in mostra

Fabiana Giacomotti

Dior a Parigi, da ottobre Ferré a Torino, una rassegna all’anno al Metropolitan di New York. Iniziative baciate dal successo. E i musei fanno a gara per accaparrarsi i pezzi migliori

Apoco più di un mese dall’inaugurazione, ha già totalizzato oltre ottantamila visitatori la mostra dedicata ai settant’anni della maison Dior al Musée des Arts décoratifs, branca del Louvre frequentata dai sofisticati che ritengono i motori e le arti applicate più interessanti della Nike di Samotracia, come diceva Filippo Tomaso Marinetti. L’abbiamo chiesto alla direzione del museo e ce lo hanno comunicato con orgoglio, consci che, se il ritmo dovesse mantenersi lo stesso fino alla data di chiusura, prevista per gennaio 2018, potranno inscriverla a pieno diritto fra le esposizioni più viste di tutto il complesso dai tempi della sua trasformazione da palazzo reale a museo, nel fatale anno 1793: venne inaugurato a luglio, per l’anniversario della Repubblica, con un festival pop nel senso più autentico di popolare, fra canti balli ed epiche bevute tipo Magaluf; tre mesi dopo tagliarono la testa di Maria Antonietta, incarcerata al Temple da un paio di anni, e non vi furono più dubbi su chi dovesse calpestare i pavimenti di quei saloni.

 

Curatela, allestimento e occupazione degli spazi della mostra dedicata a Dior hanno tenuto impegnati i curatori per due anni: si estende su entrambe le ali del museo per un totale di tremila metri quadrati e comprende trecento abiti magnifici disegnati sia dal fondatore nel decennio in cui si occupò del proprio atelier prima di morire stroncato da un infarto, sia dai direttori creativi che si sono succeduti alla guida per i successivi sessanta, da Yves Saint Laurent a Marc Bohan, Gianfranco Ferré, John Galliano, Raf Simons e Maria Grazia Chiuri, oltre a un migliaio fra accessori, gadget e bibelot vari a riprova dell’abilità del fondatore e dei suoi epigoni per il marketing. Buona parte dell’interesse della mostra risiede però nella cinquantina di opere e di testimonianze fotografiche dei Picasso, dei Dalí, dei Cézanne che Dior collezionò e anche vendette per un lustro, a cavallo fra i Venti e i Trenta, gli anni in cui sperimentava le proprie forze come gallerista insieme all’amico Jean Bonjean, e che hanno rappresentato una fonte di ispirazione costante anche per i successori. La cifra dell’allestimento non è stata comunicata, ma noi che un po’ ce ne intendiamo l’abbiamo stimata in un milione e mezzo di euro, escluse le assicurazioni di certi capolavori e, si intende, anche il ricevimento offerto dal patron di Lvmh, Bernard Arnault, la sera del 3 luglio alle Tuileries fra installazioni topiarie di modelli del New Look, cappello compreso, la première dame Brigitte Macron, una manciata di attrici del calibro di Jennifer Lawrence e un nugolo di modelle stratosferiche, tutti salutati da una pioggia inarrestabile di like. E qui iniziamo a inoltrarci nel tema vero di questo articolo, e cioè alle ragioni per le quali, a più di un secolo dalla prima mostra di abiti e dall’istituzione di fondi e archivi dedicati al costume presso le più importanti istituzioni museali del mondo, nell’ultimo decennio le mostre di moda siano diventate una leva importante di comunicazione sia per le aziende della moda e dei settori affini, sempre meno entusiaste di spendere in pubblicità tradizionale ma bisognose di darsi lustro affiancando iniziative di impronta culturale, sia per musei fino a oggi inaccessibili e che fino a poco tempo fa forse avrebbero esposto perfino uno di quegli agghiaccianti appendiabiti Liberty in legno di pero tutti a volute e sghiribizzi (non sto citando a caso), ma un mantello da sera ricamato delle coeve sorelle Paquin neanche a morire. In questa riflessione non rientrano i musei del costume, naturalmente, né le gallerie dedicate all’evoluzione dell’abbigliamento, un punto fermo nel racconto visivo della società borghese e di cui, non a caso, il Victoria&Albert Museum di Londra fu il promotore, con un primo ampio spazio inaugurato ancora nel 1913, sotto la guida di sir Cecil Harcourt- Smith, a cui fecero seguito Copenhagen, Stoccolma e in generale i paesi del nord Europa negli anni Trenta. Il Musée Galliera di Parigi data 1977, mentre la Galleria del Costume di Palazzo Pitti, ora Museo della Moda e del Costume, più l’ala costume del Museo Morando di Milano, raccolta delle collezioni del Castello Sforzesco, risalgono invece rispettivamente al 1983 e al 2010, praticamente all’altro ieri, ma dopotutto siamo in Italia, dove si vive di moda e lifestyle ma non sta bene farlo sapere, tanto che fino ad allora le uniche testimonianze sullo sviluppo dell’abbigliamento nazionale degne di nota in Italia erano certe cioppine rinascimentali alte mezzo metro esposte al Museo Correr di Venezia, oltre al centro studi del Mocenigo, sempre in Laguna, e qualche costume regionale al museo etnografico Pigorini dell’Eur, più cosucce sparse fra musei e istituzioni private, perlopiù abiti tardo Ottocento della prozia in taffettà di seta nera con frange in tripolina di jais e maniche a cosciotto d’agnello, nulla insomma per cui valesse la pena di prenotare un aereo.

 

Al Musée des Arts décoratifs anche le opere e le testimonianze fotografiche dei Picasso, dei Dalí, dei Cézanne che Dior collezionò

La gente ha sempre visto volentieri begli abiti e accessori assimilabili al guardaroba della zia ricca, per non dire quelli che avrebbe volentieri ordinato per sé se solo ne avesse avuto la possibilità, ma una cosa sono le esposizioni manifatturiere, un’altra le mostre di rilevanza museale, tanto che in questa analisi non possono rientrare nemmeno i tableaux vivants di costumi storici o contemporanei organizzati durante le grandi esposizioni universali che attraversarono l’Europa vittoriana, e di cui fu grande testimone italiana Rosa Genoni. La differenza fra quelle forme di esposizione di abiti e costumi, destinate perlopiù allo studio o alla promozione commerciale e istituzionale di un paese, sfoggio muscolare-tessile, e le attuali mostre temporanee di moda, è infatti sostanziale. Da una parte si tratta di politica; dall’altra, di cultura, di intrattenimento e di marketing, abilmente promossi. Non a caso, queste mostre sono immancabilmente baciate dal successo e i musei, ovunque nel mondo ormai costretti all’autofinanziamento, fanno a gara per accaparrarsi le idee e i pezzi migliori: a ottobre, a Torino, Palazzo Madama dedicherà a Gianfranco Ferré la prima vera mostra antologica a dieci anni dalla scomparsa, una grande mostra è in preparazione cento metri più in là, a Palazzo Reale, mentre a Firenze, a Palazzo Pitti è ancora in corso l’esposizione più poetica, raffinata e seriamente dedicata al rapporto fragilissimo fra moda e simbologia della manifattura e del corpo vista negli ultimi anni, “Il museo effimero della moda. Appunti per un museo ideale”, curata da Olivier Saillard con la Fondazione Pitti Discovery. Persino istituzioni private austere e un po’ trascurate fino a oggi hanno iniziato a scorgere una fonte di sostentamento fra i tesori nascosti nei bauli di famiglia: chi avrebbe detto, fino a pochi anni fa, che decine di migliaia di persone si sarebbero catapultate da tutto il mondo, come stanno facendo in questi mesi, a Chatsworth House, il castello dei duchi di Devonshire a Bakewell, nel Derbyshire, se non fosse stato per la mostra “The house style” curata da Hamish Bowles e sostenuta da Gucci: eppure, tutto il mondo conosce, anche per via di un film molto hollywoodiano, la storia delle grandiose donne della famiglia a partire da Georgiana, attivista politica e soggetto prediletto di Gainsborough nel tardo Settecento fino a Stella Tennant, volto della moda dei primi anni Duemila. Perché il mondo intero si ricordasse di Devonshire House e della sua pinacoteca, ci sono voluti però cinque secoli di vestiti conservati in soffitta, il rosario pre-scismatico di Enrico VIII e la geniale regia di Antonio Monfreda. Perfino Kensington Palace, ultima residenza di Diana principessa di Galles, erede altrettanto scapestrata e di certo più lagnosa di Georgiana Devonshire, ha aperto in questi mesi di rimembranze per il ventennale della scomparsa una mostra dei vestiti rimasti dopo la grande asta del 2013: i nostalgici della principessa del popolo si sono subito messi in fila, sebbene non ci siano dubbi che una pur improbabile apertura del guardaroba della regina Elisabetta II, supremo feticcio di eleganza sui generis e potere esercitato con intelligenza, scatenerebbe ben altre folle.

 

Il processo di "fashionizzazione" di istituzioni venerande ormai passa anche dall'ingaggio dell'architetto di grido

Oltreoceano, non si può più nemmeno parlare di tendenza: gli allestimenti stagionali del Costume Institute del Metropolitan di New York, anno di fondazione effettiva 1937, radici già nel lontano 1903 a opera di due ereditiere con la passione del teatro rimaste orfane, sono diventate un appuntamento mondano di rilevanza mondiale. Il Met Ball, che dagli anni Settanta raccoglie fondi per le attività dei conservatori e curatori e che tutti conoscono per averne visto qualche ripresa nel “Diavolo veste Prada”, è diventato infatti un avvenimento di cui i media parlano per settimane, e per gli stilisti praticamente un obbligo esserci, prenotando un tavolo al costo di 250 mila dollari e fermo restando la disponibilità ad accogliervi, oltre a una manciata di propri ospiti, quelli che la direttrice di Vogue America, Anna Wintour, ritiene opportuno far sedere, spesso stilisti emergenti che non avrebbero mai la possibilità di acquistare nemmeno un posto a tavola al costo base di 30 mila dollari. Wintour si occupa dell’attività dal 1999, e negli ultimi vent’anni ha piazzato tre delle mostre di moda (Alexander McQueen: Savage Beauty”, “China: through the looking glass”; “Manus per machina: fashion in the age of technology”, main sponsor Apple) sul podio fra quelle più viste non solo nel settore specifico, ma in tutte le attività del Metropolitan Museum nei suoi due secoli di storia, con una media di seimilacento visitatori al giorno e punte di ottomila, rispetto a medie generali pari alla metà. Non c’è dunque da stupirsi che il Costume Institute sia stato intitolato nel 2014 alla Wintour e che il MoMa, a settantatré anni di distanza dalla prima e ultima mostra sulla moda (“Items: is fashion modern?” anno 1944), sia tornato sui propri passi due mesi fa con un allestimento che riprende il tema del debutto da dove si fermò, cioè in piena Seconda guerra mondiale.

 

A quanto sembra, il vecchio dibattito sulla natura e gli scopi della moda è dunque superato, o almeno finge di esserlo: la moda è arte e dunque il suo posto è nei musei, luogo sacro alle muse. Dopotutto, nulla è più rappresentativo di un abito, più “iconico” come si dice con un aggettivo molto di moda, per rappresentare lo spirito del tempo, secondo quanto scriveva già nel 1957 uno dei conservatori del museo di Londra, Martin Holmes, nella sua “Guida per i curatori museali”, e non è un caso che le università più prestigiose abbiano iniziato a concentrare i propri dipartimenti di storia sul tema. La moda riesce a enfatizzare perfino artisti che si sosterrebbero benissimo da soli: la mostra di Giuseppe Penone organizzata da Fendi al Colosseo Quadrato, propria sede, da fine gennaio a fine luglio e prorogata per due settimane, è stata visitata da quarantamila persone, che per Roma è uno sproposito, se si considera la concorrenza non trascurabile di una schiera infinita di meraviglie e la collocazione non proprio agevole degli spazi all’Eur.

 

Il Victoria & Albert Museum dedica uno spazio all'abbigliamento dal 1913. In Italia si vive di lifestyle, ma non sta bene farlo sapere

Superato lo snodo centrale della rilevanza culturale e soprattutto museale dell’abito, resta però quello non trascurabile della selezione, cioè della curatela. Come osservava Marie Riegels Melchior dell’Università di Copenhagen in un saggio uscito qualche anno fa, buona parte di queste mostre hanno assunto la forma di retrospettive più agiografiche che analitiche, pensiamo all’unico tentativo fatto dal Guggenheim una quindicina di anni fa con Giorgio Armani, dove spesso lo stilista interviene in fase di scelta e di allestimento, oppure perseguono in modo evidente la logica dell’entertainment, sottoponendo a fini spettacolari abiti che dovrebbero essere protetti dalla luce e dalla polvere all’interno di teche a veri e propri stress. Per questo qualche museo, dovendo lavorare come ovvio entro logiche di conservazione e preservazione del patrimonio, ha addirittura deciso di non esporre se non pochissimi pezzi della propria collezione, rispettando le regole museali internazionali, e riservando dunque volutamente queste mostre a scopi para-promozionali aziendali: per esempio, a Palazzo Pitti la maggior parte degli abiti, meravigliosi e delicatissimi, è esposta sotto teca per la prima o per l’ultima volta, mentre un abito di Dolce&Gabbana stampatissimo e ricamatissimo è esibito en plein air. Insieme con l’introduzione della moda vanno cambiando anche gli stessi musei: il processo di “fashionizzazione” di istituzioni venerande e costrette al successo economico, ormai passa anche dall’ingaggio dell’architetto di grido, l’“archistar” secondo lessico gradito al giornalismo di velocità. Chi riesce nell’intento, cioè essere di moda anche senza dover esporre per forza vestiti, parte già con un vantaggio considerevole, vedi il rifacimento del British Museum o la succursale del Louvre ad Abu Dhabi, forse finalmente in apertura a fine anno, anche se poi il risultato è la struttura più dispersiva e impraticabile del mondo come il Maxxi di Roma.

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