Il Foglio Weekend

Vade retro, follower! Perchè Instagram e i social hanno stufato

Michele Masneri

Per favore, non seguiamoci più. Avere molti follower improvvisamente non è più ganzo, lo sostengono parecchi su vari giornali. Secondo il New Yorker, avere profili rimpinzati di seguaci non è più interessante, perché  o son fake, o cercano di venderti qualcosa, o dormono. Se il settimanale newyorchese sostiene che è meglio stare sotto i cinquemila, il Financial Times addirittura si spinge a decretare che  sopra i cinquecento è cafone.   
Ma come siamo arrivati a tanto? Solo fino a ieri   anche l’intellettuale  più dotato di borsina Adelphi contemplava segretamente la possibilità di acquistare in blocco migliaia di seguaci indiani e pazienza se non commentavano e non avrebbero mai letto i suoi articoli o libri, facevano sempre fino. E c’è stata una fase (è finita? Quando è finita?) dove pure i direttori dei giornali (almeno nel primo mondo) venivano scelti anche in base alle loro masse di seguaci. Adesso, contrordine, compagni follower, abbiamo sbagliato. Disperdetevi.  


L’interazione sui social avrebbe raggiunto il picco nel 2022 e da lì sarebbe in costante calo. Sarebbe una delle tante conseguenze della pandemia (anche se ormai ogni fenomeno è colpa o merito della pandemia: lo smart working? Merito della pandemia. La fine dello smart working? Colpa della pandemia. Uscire molto? Colpa della pandemia. Non si esce più? Ovvio, colpa della pandemia). Ma comunque un po’ ce n’eravamo accorti. Quand’è stata l’ultima volta infatti che abbiamo controllato Facebook o Twitter con un reale interesse, e non con quello spirito con cui scavalliamo l’8 e il 9 sul telecomando e andiamo a compulsare strampalate trasmissioni locali, per vedere fenomeni da baraccone che possibilmente ci inducano il sonno o un sentimento di superiorità? Se, come teorizzava McLuhan, ogni nuovo mezzo di comunicazione non uccide i vecchi ma li trasforma, non si sa quale sia il medium del futuro (forse nessuno) ma i social si sono auto-pensionati. Sono diventati la televisione. 

Facebook è diventata Telelombardia quando fa i concorsi delle voci canore con le canzoni della bassa e la scenografia di cartone dietro del finto bar. Nel suo essere “un-cool”, sfigata, Facebook è diventata un canale riposante, come   le televendite delle vasche da bagno trasformabili in docce o degli ascensori per anziani. Un grande spot delle Residenze Anni azzurri, anche con una sua grammatica,  coi commenti infiniti e sgrammaticati, i tre punti di sospensione che diventano trecento, il “buongiornissimo caffè”, gli auguri di compleanno anche bizzarri (io per esempio ormai da anni li ricevo in un giorno che non è quello del mio compleanno, perché Facebook ha deciso che quel giorno è il mio compleanno. E come in un romanzetto kafkiano, “non ho le autorizzazioni necessarie” per cambiare la data del mio compleanno, dice Facebook. Così ormai ho un compleanno vero e uno su Facebook).  Ma nel suo essere completamente fuori moda, e forse anche per quello, Facebook è ancora coi suoi 2 miliardi di utenti giornalieri   il social più usato in tutto il mondo. 
 

E Twitter, anzi “X”? Era Rai Tre, è diventata una specie di Rete4, ma senza i film. Addio infatti ai beati anni dei dibattiti in punta di fioretto specialmente tra giornalisti, affinando “punchline” grazie al limite dei 140 caratteri, che agiva  anche da formidabile argine allo sbrodolamento dei nostri tempi (che infatti è caduto per primo). Così  oggi è diventato uno sterminato cimiterone di bot russi anche un po’ impigriti (hanno vinto) e inserzioni di criptovalute.  Due anni  fa (ma sembrano venti) ci fu  il cambio nome da Twitter a X dopo la gloriosa conquista da parte di Elon Musk (ricordiamo tutti l’entrata trionfale negli uffici dell’azienda con un lavabo in mano e poi  il licenziamento dei tre quarti dei dipendenti).  Ma non erano ancora venuti i balletti da grande alleato trumpiano. E su X non puoi mettere un adesivo come sulla Tesla, “comprata prima che Elon diventasse pazzo”, come se ne trovano in giro.  

Il risultato è che i pochi rimasti sono dormienti, gli altri sono usciti, ognuno si è fatto il suo Twitter: Mark Zuckerberg ha fatto “Threads” (per sinceri democratici, sarebbe un po’ La 7) come derivazione del suo Instagram. Anche qui, però, con  cortocircuiti. Intanto, siccome Threads condivide in automatico i seguaci che hai su Instagram, tu ti trovi a leggere le acute riflessioni di ragazzone e ragazzoni magari analfabeti ma piacenti che  seguivi sull’altro social solo per via delle loro foto in costume da bagno, non certo per l’oratoria o la finezza di pensiero, e invece adesso devi sorbirteli nella versione scritta. Poi, Zuckerberg ha lanciato Threads quando  era ancora buono, e in funzione anti-Musk, e molti l’hanno seguito,  ma poi anche Zuckerberg è diventato trumpiano, e ora va in cerca di “energia virile”, come ha detto, e presenzia a quelle cene dove tipo terapia di supporto psicologico tutti i magnati americani si trovano con regolarità attorno a un tavolo a declamare frasi carine e magniloquenti al loro anfitrione e presidente, con delle facce tra il costernato e l’incredulo (forse se non le dicono abbastanza carine le guardie non li lasciano più uscire; comunque ci vorrebbe Buñuel). 
 
Poi c’è Truth, il Twitter di Trump, dove Trump dice tutte le cose che non dice nelle millecinquecento conferenze stampa e sull’ex Twitter, preferibilmente tutte in maiuscolo. Se fosse una tv sarebbe una   Fox News degli Angelucci,  guidata da un animale immaginario mezzo Cerno e mezzo Silvana De Mari.  

E ancora c’è Substack, che è un po’ Mubi; il Twitter sbrodoloso e intellettuale che raggruppa  newsletter  a pagamento su ogni ambito  dello scibile umano. I giornalisti ne sono ossessionati perchè sperano di fare newsletter pure loro guadagnandoci qualcosa, e non si riprenderanno mai  dal caso Bari Weiss. La giornalista ex New York Times che ha mollato il glorioso quotidiano, ha messo su la sua newsletter “The Free Press” appunto sulla piattaforma Substack, e, non contenta di macinare abbonamenti,    ha venduto tutto per la bella somma di 150 milioni di dollari.    Mubi invece per chi non lo sapesse è un Netflix per cinefili, ti organizza  cicli di film d’autore, ti crea un festival, come al Beltrade, con una grafica che sembra fatta da uno studio milanese. La differenza col Beltrade è che poi metà dei titoli non sono mai veramente disponibili: astutamente alla piattaforma hanno capito  che ci piace l’idea del cineforum online, ma poi nessuno ci vuole veramente andare.  Il problema di Substack è che invece i grappoli di newsletter ti tocca leggerli veramente. E chi ha tempo e voglia? L’unico obiettivo, di nuovo,  è  capire chi e come riesce a guadagnarci (un po’ come i podcast; conosco solo persone che ne fanno, e nessuno che li ascolta). E poi c’è un tempo anche limitato alla quantità di robe che possiamo leggere e compulsare e commentare e ripostare e stipare una password per (sempre più sotto controllo, tra l’altro: Substack sa in qualsiasi momento chi sta leggendo, l’autore vede quando ti abboni e quando disdici, quando metti like o no, così diventa anche un problema di pubbliche relazioni. Chi mai oserà disdire l’abbonamento agli scritti del collega o parente o direttore?).  Forse, insomma, abbandoniamo i social anche perché è diventata ‘na fatica (oltre a essere colpa della pandemia, ovviamente).  

Poi, anche gli idoli più basici di tutto questo gran palinsesto sono caduti. In questi giorni c’è il processo a Chiara Ferragni, la più prestigiosa creatura instagrammatica del decennio; e certo se il palazzo di Giustizia di Milano ha visto altri splendori, con la Mani Pulite del pandoro anche un’assoluzione non riuscirebbe a riportarla ai  tempi d’oro, quando era ascoltata e rispettata come Mattarella, in grado di dettar legge su qualunque dossier anche e soprattutto politico. Pare lontanissima la sbornia e la sovra-condivisione di ogni aspetto della vita privata (a un certo punto ricordo che mostrò tutta contenta un plastico di casa sua mandato da un ammiratore, a me sembrò un dettaglio inquietantissimo). Adesso si sta creando una nuova immagine, è tornata due giorni fa lanciando una candela profumata dal nome un po’ complicato di “It’s gonna be incredible”.  Incredibile sembra se qualcuno la comprerà: il video pare una pubblicità di profumi anni 80, ma è tutto written and directed by Chiara Ferragni  (a Mubi non  so se la prenderebbero). C’è lei che scorrazza per casa in calzini, e poi la sua voce (non proprio il suo pezzo forte) che recita una specie di racconto e chiude su “’it’s gonna be incredible” che fa venire in mente l’ “open to meraviglia” di Daniela Santanché. La candela, che costa 40 euro e che dovrebbe essere  nelle intenzioni un agognato regalo di Natale, è prodotta sotto un nuovo marchio “Chiara Ferragni Milano”, tutto molto “old money” e con tanto di blasone: un po’ Gwyneth Paltrow di CityLife, forse conta anche la relazione con Giovanni Tronchetti Provera, che la porta nel novero della grande borghesia milanese (insomma una deriva Chiara Sotis o Chiara Maria Crespi). 

Anche altri “mostri” social sono in declino o in fase di ripensamento. Sempre a Milano il gintonico Davide Lacerenza esauriti i suoi domiciliari ora siavvia nelle vecchie  tv e radio a raccontare il suo percorso di espiazione e rehab (simmetricamente, la suocera Wanna Marchi regina della tv trash invece  riparte dai social, con un nuovo  format, lei che  in camper va  a cucinare a casa della gente. Onore al merito). 
Ma se l’offerta è in crisi, anche la domanda latita. Soprattutto tra i giovani. Ormai tutti abbiamo un figlio di amici o compagno di scuola di figli di amici che è l’unico della classe senza social, o addirittura senza cellulare, e viene visto con sospetto e ammirazione, esattamente come noi che non avevamo la tv a casa o l’avevamo contingentata nei beati anni Ottanta; si viene su probabilmente più intelligenti anche se poi si spenderanno tutti i soldi dall’analista, coi complessi insanabili per aver mancato riti e appuntamenti collettivi. Però magari non finisci ad accoltellare i coetanei per 50 euro, o a guidare il solito G-Wagon a duecento all’ora, per vedere l’effetto che fa (sui social). Oppure no, boh. Oggi comunque anche le star più star si scollegano: non hanno i social per esempio Daniel Craig, Brad Pitt e Scarlet Johansson, forse celentanizzate cioè chiuse nel villone in tante Brianze globali.  

 


 Reggono invece gli anziani (specialmente le anziane) che in ritardo scoprono la magia di Instagram e  soprattutto i filtri. E’ ormai diventato un sottogenere: pur non essendo anziana Alba Parietti si trasforma in foto, con una pelle da bebè e un effetto lifting inquietante, peggio delle luci di Bianca Berlinguer; col risultato di sembrare sempre alla prima comunione. Ma non c’è solo lei, tutti noi siamo circondati da zie, amiche, signore che improvvisamente si postano con tratti vagamente felini e orientali (e nelle foto di gruppo, si modificano solo loro, lasciando gli altri normalmente vecchi, con un effetto ancora più straniante). Per cui, togliamo i social ai ragazzini, togliamoli agli anziani, e chi rimane in mezzo? Noi boomer di mezza età? Per carità, togliamoceli pure noi.

Ne avremo solo vantaggi.  Anche fuori dal cellulare. Magari ne guadagneranno anche  le nostre città, invase da turisti dotati di telefono;  ormai devi fare lo slalom tra cinesi-coreani-bustocchi (nel senso di abitanti di Busto Arsizio; non offendetevi, anche mia nonna era bustocca) che si riprendono in compagnia di monumenti celebri, per postare tutto online, e tu siccome sei stato ben educato (anche dalla nonna bustocca) ti pare brutto rovinargli la foto (ma poi cresce una specie di ribellione, e cominci a entrare di proposito nelle foto, bustocche e non). 
L’influencer-turista è una calamità. E come i turisti si odiano tra loro, non considerandosi turisti, anche gli influencer-turisti forse si elimineranno tra di loro, stufi di entrare nelle reciproche inquadrature. Qualche anno fa un influencer americano  a Positano sbroccò: “ma che posto di merda, ci sono solo influencer americani”, disse, o qualcosa di simile (non arrabbiatevi, positanesi, anche se qui non abbiamo parenti positanesi, purtroppo). 


E poi hanno stufato anche i paladini dei diritti social, tracimati poi sulle pagine (culturali!) dei giornali e nelle case editrici (prestigiose!); sbugiardati come nella famosa chat “Fascistella”, dove il commando femminista composto da Carlotta Vagnoli, Valeria Fonte e Benedetta Sabene ordiva shitstorm contro eventuali nemici; ma il commando  poi è stato shit-stormato, da Selvaggia Lucarelli, in un classico “Il  più puro che ti epura”. Però francamente ha stufato anche il commando epuratore in servizio permanente effettivo; questi squadroni speciali che si mettono a caccia di imbrogli e pastrocchi  per esporli  al pubblico ludibrio. 
In America,  dove si trova un nome per tutto, c’è  un nuovo verbo: si dice essere “loomered”, per via di Laura Loomer, una svalvolata influencer trumpiana sempre a caccia di passi falsi e slealtà al presidente. “Laura Loomer trascorre quasi venti ore al giorno on line” scrive il New Yorker. A caccia di nuove prede.   “Quando sei loomered la tua carriera è finita”, ha ammesso gongolante Trump. “Loyalty enforcer”, la definisce Antonia Hitchens, figlia di Christopher, nel suo profilone uscito nei giorni scorsi sul settimanale americano. “Come Cassandra anch’io ho ricevuto il dono della profezia”, dice Loomer. Le piace la cultura classica. “Nessuno è più odiato di chi dice la verità”, teorizza come Platone. I suoi post di denuncia hanno anche un milione di visualizzazioni, e lei stessa si vanta di almeno dodici “purghe”  tra i vip americani. 

Insomma i social generalisti tra venditori di tappeti (e candele), gintonieri e pistolere sono  diventati un posto abbastanza infrequentabile.  Scrive il Financial Times che ormai è ganzo fregarsene proprio, dei social. Non postare, o al limite, se proprio si deve, fare dei post brutti: dove si veda che ci abbiamo messo al massimo 20 secondi. Perché se dieci anni fa era ganzo esibirne di  ben curati, oggi siamo tutti in grado di farlo, magari con l’intelligenza artificiale. Anche la vecchia regola di non avere mai meno seguaci di quelli che seguiamo noi è ormai superata, come  il vino rosso col pesce. I followers si pesano e non si contano.  Forse cominceremo a ricevere offerte da indiani sconosciuti del tipo: “per soli 50 dollari ti togliamo diecimila follower VERI”. 


Secondo il New York Magazine, addirittura, il sogno di ogni ragazza è oggi il “boyfriend offline”, il moroso privo di social, che non va a mettere like in giro, che ha passioni vere nella vita reale. Sorge il dubbio che sia però perché così non ti può seguire sui tuoi, di social (e  magari puoi metterne tu,  dei like, senza che se ne accorga. Ma  è di certo tutta colpa della pandemia, vabbè).


 

Di più su questi argomenti:
  • Michele Masneri
  • Michele Masneri (1974) è nato a Brescia e vive prevalentemente a Roma. Scrive di cultura, design e altro sul Foglio. I suoi ultimi libri sono “Steve Jobs non abita più qui”, una raccolta di reportage dalla Silicon Valley e dalla California nell’èra Trump (Adelphi, 2020) e il saggio-biografia “Stile Alberto”, attorno alla figura di Alberto Arbasino, per Quodlibet (2021).