Ansa

la carpa con la lepre

La restauration populista. Anatomia della crisi francese che rischia di contagiare l'Europa

Stefano Cingolani

Come modernizzare un paese che non vuole? La Francia ringhia contro Macron,  Barnier cade sul deficit. Ma non è l’economia l’ammalata transalpina: è la politica

E’ il matrimonio della carpa con la lepre: Yves Thréard, brillante giornalista conservatore, sul Figaro ha fatto ricorso a un’espressione favolistica che evoca La Fontaine, un modo popolare per definire un rapporto innaturale. Marine Le Pen è la carpa, Jean-Luc Mélenchon la lepre, ma forse potrebbe essere anche il contrario. Questa strana coppia ha stretto in una morsa non solo Michel Barnier, il cireneo che si è preso sulle spalle una croce da 60 miliardi di euro, ma il comandante in capo. Emmanuel Macron dalle elezioni anticipate in poi sembra non azzeccarne più una e quel che accade in questi giorni è la conseguenza diretta della sua parabola. Intanto c’è chi dà le carte per la partita decisiva che si concluderà con le presidenziali, nel 2027 o forse anche prima.

 

Al tavolo del piquet aspirano a sedere due contendenti: Marine Le Pen e Christine Lagarde (il picchetto, come si chiama in italiano, è un gioco per due). Aspirano perché sulla figlia del legionario Jean-Marie, gran capo della destra transalpina, pesa la spada della giustizia (è accusata di frode e appropriazione indebita di fondi europei), mentre sulla presidente della Banca centrale europea grava l’incognita di una recessione che si sta avvicinando a grandi passi. Marine è un’abile tattica, ama giocare duro e lo dimostra ogni giorno che passa: ha dato l’illusione di appoggiare Barnier, ha ottenuto dei cambiamenti al bilancio, poi ha staccato la spina. Christine si è spinta a fare un’avance a Donald Trump, bestia nera di tutta la Francia “per bene”. Lei può rappresentare il colpo di coda di un establishment logoro, stanco, a corto di energie e di idee, ma non ancora sconfitto. Una “terza via” non si vede più, ha tentato di seguirla proprio Macron, però non ha funzionato. La sua spinta, il suo  cambiamento dall’alto, non ha prodotto una rivoluzione, ma ha fatto covare, al contrario, una restaurazione populista che indossa il gilet giallo invece del parrucchino bianco.

La Francia ha una febbre da cavallo e rischia di contagiare l’intera Unione europea. La politica al primo posto, politique d’abord, il motto che i francesi avrebbero dovuto scrivere sul loro tricolore, si sta trasformando in una condanna. Sì, perché alla radice della crisi che il paese attraversa non c’è l’economia, ma la politica. L’una e l’altra oggi si mescolano nello psicodramma del bilancio pubblico ed è già una pozione mefitica. Alla Germania il primato della filosofia, all’Inghilterra quello dell’economia, alla Francia la politica. Karl Marx ne era così convinto da pensare che il capitalismo sarebbe crollato nel suo punto più alto, l’Inghilterra, grazie alle idee tedesche e alla sapienza politica appresa dai francesi. Come sappiamo il capitalismo non è crollato, è stato scrollato in Russia, il più arretrato dei grandi paesi, la filosofia tedesca è morta ad Auschwitz e la politica in Francia s’è ingarbugliata. Basta guardare a quel che accade in questi mesi. Come modernizzare un paese che non lo vuole? A raddrizzare un legno storto senza spezzarlo? A normalizzare una società orgogliosa dei suoi privilegi, convinta che l’eccezione francese debba essere la regola valida per tutti? 

 

Il deficit e il consenso

Lo scontro immediato è su come e di quanto ridurre il disavanzo pubblico arrivato al 6,1 per cento, ma l’allarme è suonato quando si è visto che i mercati finanziari spingono in alto lo spread sui titoli pubblici. In sostanza, i mercati oggi considerano rischiosa la Francia, tuttavia il suo debito, che ha raggiunto i 3.200 miliardi di euro pari al 112,4 per cento del prodotto lordo, continua ad avere un rating elevato: AA- secondo Standard & Poor’s che lo ha confermato, l’Italia ha tre BBB/A-2, uno dei più bassi, la Grecia resta a BBB-. S&P è stata chiara: nessun downgrading se il governo taglia il debito, dunque il deficit pubblico va ridotto senza rinvii o tentennamenti. Qui è Rodi, qui salta, ma può diventare un doppio salto mortale. 

E’ mai possibile risparmiare in un anno 60 miliardi di euro? Tagliare 40 miliardi di spese significa ridurre la sicurezza sociale e mettere sulla graticola le amministrazioni locali. Aumentare le imposte di 20 miliardi di euro vuol dire un colpo di maglio sul potere d’acquisto e la domanda dei consumatori, con chiari effetti negativi su un andamento economico già di per sé debole, anche se molto migliore di quella dell’Italia: +1,5 per cento il pil dell’ultimo trimestre contro lo zero italiano. L’Osservatorio francese della congiuntura stima che la stretta di bilancio potrà dimezzare la crescita il prossimo anno e sopprimere 130 mila posti di lavoro. Un vero choc e per nasconderlo non basterà nessun belletto.  

Barnier aveva deciso di ricorrere all’articolo 49.3 che consente di approvare un testo di legge in materia finanziaria senza un passaggio parlamentare, perché il Rassemblement National, dei cui voti il governo aveva bisogno, aveva minacciato di non dare il proprio sostegno se non fossero state accolte modifiche significative: si tratta della legge sul finanziamento della sicurezza sociale, una delle due principali leggi di bilancio che vanno approvate prima della fine dell’anno; in caso contrario viene adottato il cosiddetto esercizio provvisorio che impone un tetto alle spese nel 2025. Macron ha detto che preparerà un provvedimento ad hoc. Si bloccano così la legge finanziaria, il bilancio dello stato che riguarda le spese dei ministeri così come il prelievo fiscale (è in discussione al Senato dopo la bocciatura dell’Assemblea nazionale) e la legge sulle finanze di fine gestione che chiude i conti del 2024. La mozione di censura mercoledì scorso è passata con 331 voti contro 289. Una vittoria di Pirro per il Rassemblement National e per la France Insoumise? I lepenisti hanno già messo le mani avanti: non voteranno nemmeno il prossimo governo. A sinistra va in scena il solito rovesciamento di budella. Per entrambi gli opposti populisti il bersaglio grosso è all’Eliseo. Il presidente ha detto e ripetuto che non si dimetterà fino al 2027. Riuscirà davvero a rispettare la naturale scadenza? Nel suo messaggio televisivo giovedì sera Macron ha condannato “il fronte anti repubblicano”, annunciando che il prossimo governo sarà “di interesse generale” (l’Italia ne ha sperimentati a bizzeffe). A chi affidarlo lo deciderà nei prossimi giorni. Se quello è il modello, prende quota lo stagionato centrista François Bayrou. I socialisti vogliono un premier di sinistra e in cambio potrebbero smarcarsi dal Nuovo fronte popolare. Tuttavia attenti a un altro coup de théâtre.

 

Delusi da Macron

Dopo il successo delle Olimpiadi, la riapertura di Notre-Dame (alla presenza addirittura di Donald Trump) sarà una tacca in più che Macron incide su quella che è stata a lungo la sua arma migliore: l’immagine. Ma a questo punto non basta. Stupire, provocare, sfidare, era questo che voleva il presidente per far venire alla luce un paese che non s’abbandoni alla “memoria come ripetizione”, idea chiave del suo maestro, il filosofo Paul Ricoeur. Convocare elezioni anticipate la sera stessa della sconfitta alle urne europee è stato un gesto gollista. A chi conosce la storia francese contemporanea è venuto in mente il maggio ‘68, quando Charles de Gaulle, dopo lunghe esitazioni, un viaggio segreto in Germania a Baden Baden, che aveva evocato addirittura l’esilio, torna in elicottero a Parigi, scioglie l’Assemblea nazionale e indice nuove elezioni che segnano il suo trionfo. Il 7 luglio scorso non è andata così. Nessuna adunata oceanica sugli Champs Elysées ha accolto Macron. E il ricorso alle urne ha aumentato la confusione invece di fare chiarezza. 

Lo avevano etichettato come “il miglior ministro dell’economia di destra che la sinistra abbia avuto” quando faceva parte del governo guidato dal socialista Manuel Valls dal 2014 al 2016. Macron stesso si è definito “social-liberale”. Ha guidato il paese come un amministratore delegato, ma non ha soddisfatto i suoi clienti, ha scritto il Wall Street Journal. In tutti questi anni ha spinto il piede sul pedale rinvigorendo l’economia con tagli alle tasse e riforme del mercato del lavoro per attirare ancor più capitali esteri. Il rinnovamento è costato un alto prezzo politico, l’ansia di rendere la Francia sempre più competitiva ha aumentato una già diffusa ansia sociale, mentre il presidente rinunciava a cercare un consenso più ampio. Da quando è stato rieletto nel 2022 ha esercitato ben 23 volte l’articolo 49.3 della costituzione, più di quanto abbia fatto qualsiasi governo negli ultimi trent’anni. Macron ha creato posti di lavoro, ha nutrito la crescita, e portato frotte di investitori a Parigi (la presenza di fondi di private equity è seconda solo alla City), ma ha mancato di dare ai cittadini il senso di sicurezza che prima la pandemia poi le turbolenze internazionali richiedevano. Quando ha cercato di fare le florentin si è confuso, si è impantanato. Di florentin, che sta per machiavellico, nella politica del secondo dopoguerra francese ce n’è stato uno solo: François Mitterrand, capace di svolte improvvise e coraggiose, come quando abbandonò la follia delle nazionalizzazioni, o di giochi pericolosi: alle elezioni del 1986 introdusse il voto proporzionale facendo emergere il Front National di Jean-Marie Le Pen per strappare voti ai gollisti. Modernizzare con il consenso riuscì soltanto a Georges Pompidou (anche lui un ex banchiere dei Rothschild come Macron), ma aveva dietro lo spettro del maggio ‘68 e su di lui aleggiava lo spirito del generale de Gaulle.

“Nessuno ha vinto”, ha sentenziato Macron dopo il voto del 7 luglio. Tecnicamente aveva ragione perché nessuna forza o coalizione politica ha ottenuto la maggioranza, ma Renaissance, il suo partito, ne è uscito male. “Mondialista” impenitente, ha remato contro l’onda nazionalista che ha prodotto la Brexit nel Regno Unito e Donald Trump negli Stati Uniti. Sarebbe tuttavia improprio attribuire a Macron un vizio di economicismo. Fin dal suo discorso alla Sorbona appena eletto nel 2017, ha lanciato l’idea di una sovranità non più nazionale, ma europea: “Faremo riforme, cambieremo il paese – aveva detto – con un’ambizione europea”. Ma chi vuole davvero riformare il sistema? I lepenisti chiedono la scala mobile delle pensioni. Il Nuovo fronte popolare per ammorbidire la sua posizione pretende che le riforme vengano tolte dal tavolo delle trattative.

 

Il ringhio sociale

La Francia sta davvero così male? Parigi prende a prestito sul mercato con un rendimento del 3,019 per cento sui titoli decennali, Atene è al 3,060, Roma al 3,333 per cento (sembra un numero da sabba delle streghe). Dunque non è vero che stia peggio dei peggiori, anche se non era mai arrivata così in basso dal 2012. Il prodotto lordo ha superato i tremila miliardi, circa ottocento miliardi più del pil italiano. Nel decennio post crisi finanziaria, in sostanza dal 2012 al 2023, è cresciuto in media dell’1,2 per cento l’anno, l’Italia dello 0,4 per cento. Il reddito pro capite a dicembre 2023 era di 38 mila 975 euro, se calcolato in parità di potere d’acquisto si arriva a 55 mila 213 euro, rispettivamente più 5 mila e più 3 mila euro dell’Italia. La capitalizzazione della borsa di Parigi è pari al 150 per cento del pil, non lontana da quella di Londra che tocca il 170 per cento, l’Italia è al 37 per cento. Tanto per avere un’idea, non per buttarsi nei soliti paragoni sportivo-militareschi. Un indubbio vantaggio italiano è negli scambi con l’estero. La bilancia commerciale transalpina è rimasta in rosso dal 2006 in avanti; quella italiana è positiva dal 2012, con la sola breve eccezione del 2022, in conseguenza dello choc energetico innescato dalla guerra in Ucraina. Entrambi i paesi stanno subendo le conseguenze della recessione tedesca visto il ménage à trois che lega le economie di Germania, Francia e Italia. Pesa soprattutto la crisi dell’industria automobilistica che colpisce più duramente il gruppo italo-franco-americano Stellantis. Eppure, tutto sommato potremmo dire che l’economia sta meglio dello stato francese. 

Sembra un paradosso, ma guai a chi osa ancora dire “lo stato sono io”, su di lui si scarica quel brontolio diffuso di questi “italiani di cattivo umore” – come Cocteau ha definito i francesi – brontolio diventato malcontento, protesta, fumo di rivolta: la grogne. Alla lettera vuol dire ringhio e ha anche un suono onomatopeico, ma ormai designa il malcontento collettivo. Ebbene la grogne ha accompagnato Macron fin da quando è entrato per la prima volta all’Eliseo. Il movimento dei gilet jaune è scoppiato nel 2018, un’altra fiammata tre anni dopo è stata innescata dalla decisione di rendere obbligatoria la vaccinazione contro il Covid-19, poi nel 2023 c’è l’ondata bipartisan contro la riforma delle pensioni che trova uniti i due populismi, quello di destra e quello di sinistra. E ancora le endemiche proteste delle banlieue, la violenza e la microcriminalità diffusa che gonfia l’onda xenofoba, la frattura tra metropoli e borghi, tra città e campagna, tra élite e masse che vediamo anche in Italia e ormai ovunque nei paesi sviluppati, vecchi, ricchi, satolli e insoddisfatti.

Anche la Francia, come la Germania, ha perso la fiducia in se stessa. Ma a differenza dai tedeschi, i francesi stentano a rendersi conto che il loro modello è in crisi, colpito dal nuovo disordine mondiale, dall’assedio al paradigma liberal-democratico in tutte le sue versioni finora conosciute, dalla difficoltà a cambiare entrambi i capitalismi, quello continentale e quello anglo-americano, come li aveva descritti Michel Albert. E’ una crisi che attraversa società, economia, politica, cultura e nessun paese può illudersi di superarla da solo. Ovunque sta prevalendo il timore del futuro proprio mentre il futuro viaggia per proprio conto (la transizione ambientale, la nuova mobilità, l’intelligenza artificiale). C’è un popolo che vuole scendere da un treno del progresso in corsa verso l’ignoto e vota per chi promette di fermare la locomotiva. E c’è un popolo che non ha il coraggio di scrollarsi di dosso miti, riti e bolsi tabù. Così la Francia, ancora una volta nella sua turbolenta storia, ci racconta una parabola che parla a tutti noi.