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Guerre e soluzioni

Comunicare per enigmi è la chiave per vincere il nemico, dai navajo a Turing

Roberto Volpi

Messaggi criptati, testi cifrati e lingue misteriose. Dove c’è un segreto, di norma c’è pure un codice perché i codici sono fatti per nascondere e custodire segreti. E di segreti sono lastricate le vie della nostra storia

Abbiamo bisogno di risolvere misteri. E di inventarne. Ci diamo alla soluzione di cruciverba e sciarade, leggiamo gialli e polizieschi, ci cimentiamo in finali di scacchi con il matto in tre mosse. Chi non ha cifrato un messaggio, semmai fosse caduto in mani sbagliate? E inventare codici? Come scrivere poesie, nell’adolescenza ci siamo passati tutti. Dove c’è un segreto, di norma c’è pure un codice perché i codici sono fatti per nascondere e custodire segreti. E di segreti sono lastricate le vie della nostra vita. Non si sfugge.

 

Non sfuggì Maria Stuarda, alla regola. Il suo intento era decisamente arrischiato; il codice (addirittura doppio: messaggio prima occultato, quindi alterato sia a livello di lettere che di parole) conseguentemente complesso. Complessità che non le evitò la decapitazione. Il primo grande evento storico imputabile a un codice decifrato. Un caso di scuola, praticamente. La prima battaglia vinta dai decifratori (decrittatori), che avendo tempo a disposizione escono (quasi) sempre vincitori dalla guerra con i codificatori. Salvo che il più delle volte è proprio il fattore tempo a decidere chi la spunta, perché c’è sempre un termine scaduto il quale i giochi sono fatti. Nel caso di Maria Stuarda la spuntò sir Francis Walsingham, machiavellico, spregiudicato ministro alquanto sui generis della regina Elisabetta preposto alla raccolta delle informazioni per la sicurezza della regina e dello stato – in pratica, il capo dei servizi segreti moderni. Ci riuscì non certamente in un batter d’occhi a portare alla luce il complotto che puntava a detronizzare e uccidere Elisabetta e a mettere sul trono d’Inghilterra quella Maria Stuarda regina di Scozia che Elisabetta chiamava, corrisposta, la mia dolce sorella, pur se le due regine non erano che cugine e non si amavano neppure un po’. E fu Walsingham a imputare questo complotto alla stessa Maria Stuarda, se non proprio nella progettazione e predisposizione senz’altro nel “visto, si proceda” che la regina di Scozia, prigioniera da diciotto anni della dolce sorella Elisabetta, chiusa a Chartley Hall nello Staffordshire senza poter muovere un passo, accordò al complotto. Con tanto di missiva doppiamente codificata ai cospiratori, e tuttavia intercettata e tradotta in chiaro da chi non aspettava altro che una mossa falsa della cattolicissima Maria per rafforzare la Riforma e la Chiesa anglicana sull’isola liquidando l’opposizione cattolica a furia di teste mozzate e sbudellamenti atroci. Piano perfettamente riuscito. E’ una storia complessa e formidabilmente importante per gli eventi storici successivi, con una morale: tutto si traduce sempre nel braccio di ferro tra chi inventa codici e cifrature e chi si ficca nell’impresa di smascherarli. Maria Stuarda perse la testa l’8 febbraio 1587 e Sir Francis Walsingham ne decise la sorte perché quest’ultimo aveva al suo servizio, con il titolo che sembra falso tanto suona appropriato di “segretario delle cifre”, Thomas Phelippes, trentenne di bassa statura, il volto butterato dal vaiolo, intelligentissimo, poliglotta, forse il più abile crittoanalista europeo del suo tempo – un tempo che brulicava di spie; Walsingham ne aveva una rete super efficiente che si diramava per tutta l’Europa.

Ma che succede se a cifrare messaggi non è una persona fisica ma una macchina? Mettiamo, cioè, che: ogni volta che una lettera è digitata su una tastiera, viene crittata tramite uno scambiatore che poi ruota di posto, cambiando il modo in cui viene crittata la lettera successiva, dopodiché ruoterà ancora di posto sostituendo la terza lettera digitata in un modo ancora diverso. E via e via. Che succede se a cifrare un messaggio è una macchina così strutturata in cui uno scambiatore rotante produce, come fu per Enigma, la grande (in realtà poco più grande di una Olivetti Lettera 22) cifratrice del Terzo Reich, 17.576 procedure di sostituzione diverse? Succede che l’assetto iniziale di Enigma si dirama in 17.576 chiavi possibili. Ammettendo di poter controllare un assetto in un minuto e di continuare senza interruzioni di sorta, vagliarli tutti implicava il lavoro di neppure due settimane, che si riducevano però a un solo giorno impiegando non una ma ventotto persone, ciascuna per dodici ore al giorno. Un livello di sicurezza discreto, e si dica pure buono, ma certamente non invalicabile. Tant’è che combinando rotori e pannelli a prese multiple il numero delle chiavi possibili fu innalzato in Enigma all’inimmaginabile cifra di 10 milioni di miliardi. Di fronte a una mostruosità tale fu chiaro che occorreva trovare altri metodi di decrittazione, per sferrare l’attacco ad Enigma con qualche speranza di condurlo in porto. In realtà non fu subito così chiaro, ci si ostinò ancora per un po’ con carta e penna e l’impiego di nient’altro che di reti neurali eccezionalmente portate alle combinazioni.

Occorse il talento di un genio come Turing per contrapporre alla elettro-meccanizzazione della codificazione la elettro-meccanizzazione della decodificazione. Ad Enigma si arrivò così a rispondere con le “Bombe”, complessissime e smisurate macchine in grado di risolvere crittogrammi, ideate da Turing per il costo approssimativo di 100 mila sterline di allora l’una. Ne furono messe in funzione, contemporaneamente, fino a 49. Sappiamo come andò a finire. Fu una lotta all’ultimo sangue e alla fine la spuntarono Turing e la sua équipe di crittoanalisti reclutati, quando si presentò la necessità di allargare la cerchia, tra quanti erano riusciti a completare in meno di dodici minuti un intricato cruciverba pubblicato sul Daily Telegraph su iniziativa della Scuola governativa inglese di codici e cifre. Risposero in 25, superarono in sei le successive prove.

 

Valutazioni di parte inglese stimano che la guerra sarebbe potuta finire nel 1948, anziché nel 1945, se non si fosse riusciti a “decifrare i crittogrammi di Enigma”. Un ruolo di primissimo piano in questo braccio di ferro lo giocò l’allora primo ministro inglese Winston Churchill, che rispose all’appello a lui rivolto da Turing e altri tre crittoanalisti della prima ora affinché si facessero tutti gli sforzi possibili se si voleva vincere la battaglia contro Enigma inviando questo laconico quanto inequivocabile memorandum al capo di stato maggiore: “Si assicuri che ottengano con assoluta priorità tutto quello che è loro necessario, e mi confermi che si è provveduto”.

Di fronte a storie così complesse viene quasi da sorridere pensando alla soluzione rappresentata dai cosiddetti Navajo Code Talkers a un problema di bruciante attualità che assillava la marina americana nella campagna del Pacifico. Siamo ancora nella Seconda guerra mondiale e la cifratura elettromeccanica usata dagli americani era lenta e aggredibile da parte dei decrittatori giapponesi. In una parola: inaffidabile. E qui arriva l’incredibilmente semplice ma proprio per questo inarrivabile idea del colonnello James E. Jones, ufficiale addetto alle segnalazioni, che suggerì di ricorrere ai navajo. Proprio così: agli indiani navajo. Suggerimento che si tradusse nel seguente esperimento: due giovani navajo furono isolati l’uno dall’altro: al primo furono consegnati sei tipici messaggi in inglese che egli tradusse nella lingua dei navajo e trasmise all’altro indiano che li ritradusse in inglese su un foglio che consegnò a sua volta in busta chiusa a coloro che controllavano l’esperimento. Traduzione perfetta, nessuno che si fosse neppure sognato di poter decifrare l’impenetrabile lingua che funzionava da codice. E se non se lo sognavano gli americani che coi navajo vivevano a contatto di gomito, potevano forse riuscirci i giapponesi? Che infatti non ci riuscirono, per quanto i Navajo Code Talkers che prestarono servizio nelle comunicazioni di guerra del Pacifico arrivassero fino a 420. Per impiegarli utilmente, considerando che i moderni termini tecnici e militari non avevano equivalente nell’idioma navajo, si dovette ricorrere a un lessico ad hoc che a ogni termine militare faceva corrispondere un vocabolo navajo tratto dalla natura: uccelli per i vari tipi di aeroplani, pesci per i vari tipi di navi e così via.

 

Questo dei navajo parla-codice è un formidabile esempio di come anche una lingua, col suo corrispondente alfabeto e vocabolario, possa rappresentare nella sua interezza e complessità un codice a tutti gli effetti. I giapponesi non fecero che intercettare messaggi in navajo negli anni di guerra 1943-1945, ma ci sbatterono contro la testa senza riuscire letteralmente a cavare un ragno dal buco. Ci sarebbero riusciti avendo avuto più tempo a disposizione? Non è detto. Il navajo è linguaggio per tanti aspetti a tal punto estraneo a tutte le lingue parlate da rappresentare una sfida estrema anche per i più abili tra crittoanalisti, decodificatori e decifratori di lingue sconosciute.

 

Esempio eccelso di una decifrazione che ha impiegato non anni ma decenni a compiersi, per quanto i più brillanti tra decifratori di codici, linguisti e archeologi del loro tempo si fossero applicati in questo tentativo, è quello della cosiddetta lineare B. Scoperta a Creta agli inizi del Novecento, ma non decifrata, da sir Arthur Evans, l’archeologo inglese che portò alla luce il palazzo di Cnosso, disvelando agli occhi del mondo l’inimmaginabile sovranità della società palaziale cretese, la lineare B è stata decifrata in ogni suo aspetto da Michael Ventris, architetto e linguista britannico affascinato dall’impresa già dall’età di dieci anni, quando gli capitò di ascoltare una conferenza di sir Arthur, in collaborazione con John Chadwich, altro linguista britannico – ma non certo casualmente crittografo proprio durante la Seconda guerra mondiale. La conclusione dell’impresa si ebbe soltanto con la pubblicazione nell’autunno del 1956 dell’opera in tre volumi Documents in Mycenaean Greek, contenente le fasi della decifrazione della lineare B, la descrizione particolareggiata di 300 tavolette e un dizionario di 630 termini. Michael Ventris era nel frattempo tragicamente morto in un incidente stradale poche settimane prima all’età di appena 34 anni.

 

Sir Arthur Evans assieme ai resti del palazzo di Cnosso aveva infatti portato alla luce anche una  grande quantità di tavolette di argilla risalenti a un periodo compreso tra il 2000 e il 1650 avanti Cristo che riportavano incise addirittura tre diverse forme di scrittura: una, la più antica, di tipo geroglifico, una seconda che fu chiamata lineare A in quanto i suoi segni seguivano l’andamento di una linea retta che procedeva da sinistra a destra e una terza, alla quale apparteneva la grande maggioranza delle tavolette, che fu chiamata lineare B in quanto più ricca e moderna della A, e che procedeva a sua volta in linea retta da sinistra a destra. Sir Arthur Evans interpretò la lineare B come la lingua scritta della società cretese-minoica che, ragionava, doveva per forza di cose essersi giovata di una forma evoluta di scrittura per spingersi tanto avanti nel cammino della civiltà. E quando tavolette di lineare B vennero alla luce anche in Grecia lesse in questa nuova scoperta il segno di una supremazia della civiltà cretese-minoica su quella greco-micenea.

Anche Michael Ventris seguì agli inizi della sua opera di paziente decifrazione della lineare B la stessa linea interpretativa di sir Arthur Evans. Ma, a mano a mano che la sua mente portata alla soluzione dei più enigmatici codici procedeva, scopriva che le tavolette in lineare B contraddicevano ogni affermazione sostenuta da sir Arthur e dagli archeologi della sua generazione arrivando alla conclusione che la lineare B era greco, la prima forma scritta di greco, poi passata dal continente all’isola di Creta a seguito dell’occupazione micenea dell’isola.

 

C’era peraltro un’altra prova, pur se indiretta, di questa conclusione. La lineare A era unanimemente ritenuta una forma più arcaica della lineare B, e in quanto tale sua immediata progenitrice. Concordemente con questa ipotesi, una volta giunti alla piena comprensione della lineare B per arrivare a una analogamente piena comprensione della lineare A non ci sarebbe stato da percorrere che un tragitto breve e di tutto riposo: stesse scritture, di cui la seconda filiazione diretta della prima, stessa o quasi decifrazione. Nessun vero ostacolo da superare. Una questione, al più, di alcuni anni dopo il mezzo secolo di cui aveva avuto bisogno la lineare B per essere capita. Ma la lineare A giace ancora lì, incompresa, illeggibile. Cosicché l’ipotesi più convincente è che essa non sia affatto la madre della lineare B ma tutta un’altra scrittura. Magari, essa sì, la scrittura autentica della civiltà minoica. Tutto chiaro, dunque?

Non così come sembrerebbe. Infatti mentre dai “mucchi” di tavolette in lineare B si è potuto ricavare un intero vocabolario, dalle poche tavolette in lineare A si è rivelata impresa fino ad oggi impossibile risalire alla loro traduzione. Ma esse sono altresì troppo poche anche per escludere una volta per tutte qualsiasi ipotesi di imparentamento con la lineare B. 
Ed ecco allora l’ultimo input che si ricava dalla guerra dei codici: meglio poco per chi codifica, meglio molto per chi decodifica. Ma tutto dipende se puoi fare con poco, o se sei obbligato al molto.

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