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I Castellittos, una famiglia in cinemascope

Michele Masneri

Libri, sceneggiature e tanti film. Sono in sei, sono talentuosi, sono i Castellittos, i Coppola di Roma nord

Sul red carpet del Festival del cinema di Venezia che si conclude oggi e dove quest’anno complice lo sciopero e la mancata venuta di tante star americane risaltano vetrinisti, influencer e curiosi domestici che han fatto delle stories divine in gondola; lì dove tutti hanno avuto insomma il loro momento-Zequila (Antonio Zequila infatti è stato immediatamente memizzato poiché in motoscafo sul Canal Grande simulava saluti a un pubblico inesistente dai balconi), proprio lì è risuonato alto com’è noto il monito lanciato da un attore romano, Pierfrancesco Favino, sugli attori hollywoodiani che vengono a rubarci tutti i ruoli. 

A partire da Enzo Ferrari, interpretato dall’incolpevole Adam Driver in un kolossal losangelino sul drake di Maranello. Il dibattito è ancora in corso in queste ore concitate, ma per fortuna tra visagisti e Zequila a Venezia c’erano loro, i Castellittos. Non uno, non due, non tre, ma ben sei. Tutta una famiglia, una dinastia di talentuosissimi a calcare i tappetoni rossi del Lido e a tenere alto lo star system italiano.  

L’occasione ufficiale era “Enea”, nuovo film di Pietro, che a trent’anni, a un’età in cui normalmente in Italia si è fuoricorso a Scienze della comunicazione e si medita di affittare su AirBnb la mansarda di nonna, lui con questa pellicola conclude la “trilogia di Pietro” – come l’ha definita suo padre, Sergio Castellitto, che nel film interpreta sé stesso. La trilogia, indagine sul male di vivere a Roma Nord, è iniziata dieci anni fa quando il regista che all’epoca aveva vent’anni, un’età in cui in Italia ci si è appena iscritti a Scienze della comunicazione, scrisse I predatori, il suo primo film. A questo è seguito il romanzo Gli Iperborei, uscito lo scorso anno per Bompiani. Adesso “Enea”, “un gangster movie senza la parte del gangster – ha detto –, è una storia di genere senza il genere”, qualunque cosa voglia dire. Ma il vero film è la famiglia Castellitto. Verrebbe da dire: film, scansate, facci vedere i Castellittos. Che erano lì, tutti belli, talentuosi, con Pietro/Enea che portava in braccio il suo Sergio/Anchise mentre su Sergio/Anchise si rincorrevano le voci di una prossima presidenza del Centro sperimentale di cinematografia. Voci circolate nelle settimane scorse e ora non smentite dall’attore e regista, “ho letto la notizia anche io, è un’idea affascinante, ma in caso sarebbe una nomina non di appartenenza, ma di competenza”, ha detto Castellitto-Anchise, e ci mancherebbe altro. 

Colonna del nostro cinema, Castellitto padre, infatti, negli anni ha interpretato tutti i ruoli possibili e immaginabili, è stato generale, colonnello, sottotenente, mafioso e antimafioso, prete, papa, re, proletario. Il talentuosissimo neosettantenne (li ha compiuti il 18 agosto) ha interpretato uomini delle stelle, è stato Dante, D’Annunzio, è stato pure, lui sì, alla faccia delle appropriazioni culturali, Enzo Ferrari. L’ha interpretato infatti senza tante storie nella miniserie eponima su Canale 5 uscita giusto vent’anni fa, nel 2003. Ma del resto Castellitto potrebbe, dovrebbe interpretare anche un guidatore di Ferrari, un azionista della Ferrari, un tifoso della Ferrari e anche perché no tutti i dipendenti della Ferrari uno a uno, dai meccanici agli elettrauti. Il suo talento mimetico infatti gli consente ogni cosa. E’ stato magnifico italiano risentito in uno dei ruoli che ci piace di più, il fantastico professor Iacovoni in “Caterina va in città” di Virzì, un insegnante di provincia e aspirante scrittore rabbioso verso “il sistema”, in una scuola di fighetti consociativi romani. Il talento, mimetico e non, sgorga alle pendici dei Parioli dove la famiglia Castellitto dimora in una delle vie più signorili, via di villini ascosi, di siepi ben tenute, di tranquillità borghese. Se i Coppola, la dinastia californiana di cineasti e creativi, stanno in una fattoria a Nord di San Francisco, a Ovest di Villa Ada allignano i Castellittos, i Coppola de noantri. Scrittori, registi, attori, sceneggiatori. Nella factory dei Castellittos non c’è un familiare che non sia dotato di peculiare talento creativo. Il figlio Pietro, appunto attore, regista, ma anche scrittore, ossessionato da Roma Nord come John Fante da Los Angeles, ha proferito a suo tempo una frase netta, che ha provocato riflessioni: “Roma Nord è come il Vietnam”. Talento mimetico o in mimetica, noi si preferisce quella di Enrico Vanzina: “Essere poveri ai Parioli è bruttissimo”. Intanto per vedere un ottimo film su Roma Nord e in attesa del film definitivo sui colf filippini dei Parioli bisognava andare non a Venezia ma al Sacher, a Trastevere, dove è stato proiettato “Las Leonas”, storia di tate e badanti sudamericane che superano il male di vivere giocando a calcio, regia e idea di Chiara Bondì e Isabel Achával prodotto da Nanni Moretti. 

Ma tornando ai Parioli e ai Castellittos: ci dev’essere qualcosa nell’acqua del quartiere. Eppure con tanto talento in famiglia il bello dei Castellittos è che loro non si son montati la testa, son rimasti com’erano; fieramente romanisti, quando c’è la partita si va allo stadio o la si guarda tutti vestiti con la maglia della Roma. Tutti cucinano, soprattutto la scrittrice madre, Margaret Mazzantini, la cucina del villino è il luogo dove si sta tutti insieme. Nessuna formalità. Tutti golosissimi nello specifico di gelati. Tutti dicono gran parolacce! Sono un clan, nel senso migliore del termine. Come clan hanno un chiodo fisso, che arriva dal passato ma che li ancora fortemente al presente. Covano un vago risentimento verso il presente, verso il passato e il futuro, come se la Vita e l’Arte gli avessero mancato di rispetto in qualche modo. Questa è una molla pazzesca che li porta a studiare, vivere, lavorare come fossero sempre sotto attacco. Condannati al talento. Una certa acrimonia iacovonica verso il “sistema”, verso il mondo dei David, verso “l’industria”. Un sentirsi vittime che quasi sfiora il vittimismo, e in questo i Castellittos sono veramente allineati col presente. Vittimismo performativo, enorme successo e talento ma sentendosi sempre un po’ perseguitati. 

Quando ne conosci un membro, della famiglia dei Castellittos, uno qualunque, ti dice subito: “Eh perché mio padre/suocero/nonno...”. E lì l’atmosfera si fa cupa, la parola si inceppa, lo sguardo si incrina… Il nonno era Carlo Mazzantini, scrittore e baby combattente della Repubblica di Salò alla quale aderisce all’età di 17 anni, dopo l’8 settembre, militando nella 63ª Legione d’Assalto “Tagliamento”. Segue vita d’esilio e di bohème nella Spagna di Franco, poi Francia e Olanda, e addirittura Tangeri, dove farà il professore di italiano, e poi Irlanda dove conoscerà la futura moglie, la bellissima pittrice irlandese Anne Donnelly dalla quale ha quattro figlie tra cui, oltre a Margaret, Moira, agente di cinema, Giselda, attrice teatrale, e Cristina, giornalista.  

Tornato in Italia, per sbarcare il lunario fa il redattore alla Treccani vivendo rusticamente vicino a Tivoli, in una casa costruita con le sue mani. Sempre consideratosi di sinistra, infine accolto nel Partito radicale di Pannella, che per primo aveva sdoganato i repubblichini distinguendoli dal “fascismo di regime”. Un’epopea - su Radio Radicale si possono sentire ancora delle interessanti interviste a Mazzantini - che si inserisce nella nicchia delle memorie del genere, tra il “Fasciocomunista” di Antonio Pennacchi e “Mio padre era fascista” di Pigi Battista. La storia è narrata nel suo “A cercar la bella morte” (Marsilio, 1986). Questo nonno fascista è stato un ingombro ma oggi è anche una gran medaglia (non che i Castellittos ne abbiano bisogno, però fa fino). E poi non fascista semplice, fascista colto, fascista critico, fascista romantico, e, medaglia o ingombro, rimane una ferita aperta per i Castellittos, che provoca sindrome dell’accerchiamento, e una vaga diffidenza verso l’esterno del villino e del clan. Consapevoli anche dell’enorme invidia che li circonda, talentuosi in un mondo di mezze calze, stanno infatti molto tra loro, non fanno gran vita sociale né pubblica. No Capalbio. No birignao. Se ci parli sembrano una di quelle famiglie di medici in cui ognuno ha una specializzazione, chi ortopedico chi oculista chi dermatologo, si confrontano tra di loro con lastre e referti e non frequentano che altri medici. Non hanno nulla di estroso, son piuttosto molto solidi, educati, e molto vogliosi di integrazione nella borghesia come se fossero degli impresentabili scappati di casa e non invece la massima dinastia dello star system italiano. Unitissimi. Co-dipendenti, si muovono in gruppo, in multipli di due. Per qualche tempo Pietro, sex symbol ambitissimo, ha avuto un attichetto in Prati, ma alla fine torna sempre a casa nel villino ai Parioli, a mangiare e dormire, è lì che tutto succede, e anche i tanti amori che gli sono attribuiti per ora sono evanescenti, effimeri, pure quelli con Benedetta Porcaroli, o quello con Matilda De Angelis, lui poi a casa sempre torna, da papà e mammà. “E’ bello ma non balla”, dicono le fortunate, lui se lo incontri dice “scusami devo tornare a casa dei miei che c’è una cena”, e alla festicciola nel villino ci vanno Montezemolo e Malagò. 

Sul villino regna la madre, Margaret Mazzantini. Un passato da attrice, dopo l’Accademia nazionale d’arte drammatica. Nella stagione 1982/83 vince il Premio Ubu come nuova attrice per le sue interpretazioni teatrali in “Ifigenia in Tauride” e “Venezia salvata”. Successivamente lavora in teatro, cinema e televisione. “A casa a Tivoli non abbiamo la tv, quando c’è Margaret vado in trattoria a guardarla”, ha detto il padre in un’intervista negli anni Ottanta. Ma è nella scrittura che trova la sua strada. E che strada. Con “Il catino di zinco” del 1994 sbanca mercato e critica, e poi è un’infilata di successi pazzeschi che si rivelano un business model di economia circolare castellittica. Dai libri vengon fuori infatti sceneggiature per film diretti e interpretati dal marito. Con “Non ti muovere” (2002) ha vinto, tra gli altri, il Premio Strega, il Rapallo e il Grinzane Cavour. Nel 2004 viene tratto l’omonimo film con Penélope Cruz, diretto dal marito. Nel 2008 si replica con “Venuto al mondo”, vincitore, tra gli altri, del Campiello e di nuovo film con Penélope Cruz, diretto sempre da Sergio Castellitto. Del 2011 è il romanzo “Nessuno si salva da solo”, vincitore del Premio Flaiano, da cui nel 2015 viene tratto l’omonimo film con Jasmine Trinca e – no, non Castellitto, bensì Riccardo Scamarcio – ma diretto da Sergio Castellitto. Nel 2013 l’ultimo romanzo, “Fortunata”, per Mondadori, e da lì in poi, fino ad oggi, più niente. Fortunata un po’ meno la Feltrinelli, che a Mondadori strappò l’autrice, ghiotta, la casa editrice, di nuovi successi, e sborsò quello che pare essere il più grande anticipo mai avanzato per un autore italiano. Un milione di euro, favoleggia qualcuno, per un nuovo romanzo, romanzo che però non è mai arrivato, e capita, gli scrittori mica sono juke boxe che inserisci la monetina e scrivono. Da allora però poi più nulla, Mazzantini “si dedica alla famiglia”, raccontano, in un ruolo di supervisione di tutto, dalle sceneggiature dei film del marito alla casa-factory.  

Nonostante questo, dicono, lei ce la mette tutta per trovare una trama, una sottotrama, un’idea per un nuovo romanzo. Parte per ritiri intensivi nella casa di San Casciano, dove si chiude senza cellulare né internet, per mesi, facendo preoccupare tutta la famiglia, ma niente. Torna con la pagina bianca, col blocco della scrittrice. Ora, sarebbe normale e ok in una famiglia basica magari col marito bancario e i figli bamboccioni che ciondolano sul divano. O anche in una famiglia di cinematografari basici sciamannati. Ma mentre lei è a San Casciano col blocco della scrittrice quelli producono come forsennati. Il marito nel frattempo ha fatto almeno tre film, due miniserie, preso tre David, sei Nastri d’argento; il figlio ha scritto due romanzi ambientati ai Parioli premio Bancarella e Pulitzer. E mo’ ci si mette pure un’altra figlia, Maria, ventiseienne, che ha esordito l’anno scorso con un romanzo, pubblicato da Marsilio, “Menodramma”, autofiction incredibilmente non ambientato ai Parioli ma a Londra. Dopo la laurea in Filosofia alla Soas (School of Oriental and African Studies), la protagonista si trova a lavorare senza entusiasmo in una casa di produzione cinematografica. Il libro è stato immediatamente candidato allo Strega. Perché non ha firmato con uno pseudonimo, le han chiesto. “Me l’avevano consigliato. Ma mi sono detta: Magari è l’unico libro che scrivo. E comunque, prima o poi, con il mio cognome dovevo pur fare i conti”. 

Mancano all’appello gli altri due fratelli, ma basta aspettare. Ecco Anna: ha una laurea in Scienze Politiche, e ha appena fatto uno stage nelle relazioni istituzionali di Banca Intesa con Stefano Lucchini – dove si recava “con la Smart da viale Parioli fino a piazza Colonna”, raccontava agli amici, tipo Lapo alla catena di montaggio Fiat, ma sempre con umiltà e voglia di fare, ma adesso niente, adesso sembra voler calcare pure lei le orme talentuose della famiglia con un master in letteratura in Scozia. E poi Cesare che è apparso per la prima volta al festival di Venezia partecipando a “Enea”, è solo sedicenne e forse vuole solo “sentirsi vivo”, come ha detto il fratello Pietro a Venezia riguardo ai “giovani”. 

Tema vero: son di destra o di sinistra i Castellittos? Tutti rispondono: “di destra”. Un amico di famiglia mi dice con l’aria saputa: “sono attori romani”. Intendendo quella sottosfera peculiare, a Roma c’è il Pd romano che è un’altra cosa, ci son le terrazze romane che sono un’altra cosa, insomma tutto sfugge alle classificazioni. Il senso è che a Roma è impossibile avere una vera collocazione che non sia di comodo, transitoria, attendista verso il potere di turno. Non è il loro caso, anche se ora sono ambitissimi. Di sicuro tutti affermano che intimamente i Castellittos siano di destra, certo “Sergio non credo che voti la Meloni”, dice un amico, un altro è più possibilista. Scarse ma di progressiva autoaffermazione le sue dichiarazioni politiche. Nel 2017 Sergio Castellitto dichiarò: “Ho sempre votato Pd, ma adesso sono confuso”. Ai tempi del Ddl Zan (era contrario) disse più assertivamente che “purtroppo da un po’ di tempo c’è stato un trasferimento a destra di quelli che sono i grandi valori della sinistra. Esiste una destra capace di parlare alla pancia delle persone in maniera diretta, concreta. Più di quanto, purtroppo o per fortuna a seconda dei punti di vista, oggi la sinistra sia in grado di fare”. Boh. Dica una cosa di destra. A Venezia: “Credo nell’esempio”, ha risposto a chi gli chiedeva conto appunto della talentuosità endemica dei Castellittos. Forse la sua grandiosa interpretazione di Iacovoni era “cinema verité”, lui è un arrabbiato contro il sistema, destra o sinistra poco importa.  

Essere un artista presentabile ed essere di destra, in Italia, non è mai riuscito del resto quasi a nessuno. In uno spettro che va dal grado zero di Pino Insegno al massimo di Pupi Avati, la presentabilità di destra è sempre stato “il problema”. Altro che fare i film su Ferrari. O si fingeva, iscrivendosi al partito comunista alla Visconti, o si taceva alla Fellini. Si poteva far finta di esser democristiani, oppure fottersene in virtù di un successo planetario che relegava quello domestico alla sezione “peanuts” alla Zeffirelli. Il rischio di finire tra gli appestati è sempre stato comunque altissimo. Castellitto è stato bravissimo, riuscendo a essere mainstream e fascia alta senza mai collocarsi. Fuori dal villino dei Parioli, tanto, c’è il Vietnam. Però una serie sulla famiglia Castellitto a questo punto perché non l’hanno ancora fatta? Non si sa se vi siano degli americani interessati: nel caso però Favino è pronto a interpretarli tutti e sei. 

  • Michele Masneri
  • Michele Masneri (1974) è nato a Brescia e vive prevalentemente a Roma. Scrive di cultura, design e altro sul Foglio. I suoi ultimi libri sono “Steve Jobs non abita più qui”, una raccolta di reportage dalla Silicon Valley e dalla California nell’èra Trump (Adelphi, 2020) e il saggio-biografia “Stile Alberto”, attorno alla figura di Alberto Arbasino, per Quodlibet (2021).