In “Alice nel Paese delle Meraviglie”, qui illustrato da John Tenniel (Wikipedia), il dodo compare come caricatura dello stesso autore Lewis Carroll

de-estinzione

Bentornato Dodo. Un'azienda americana vuole riportarlo in vita

Massimiano Bucchi

Oggi la Colossal Biosciences, che punta a invertire la tendenza alla perdita di biodiversità, sta studiando come ricreare geneticamente la specie. O qualcosa di molto simile. Estinto dal ’600, sopravvissuto nei romanzi e nell’arte, il suo aspetto è la storia di un grande equivoco 

È notizia di questi giorni che un’azienda americana dal nome non poco ambizioso, Colossal Biosciences, ha in programma di riportare in vita il dodo, animale estinto da oltre tre secoli. La Colossal dichiara di occuparsi di “de-estinzione” e intende invertire la tendenza alla perdita di biodiversità riportando tra noi animali come la tigre della Tasmania, il mammut e, appunto, il dodo. Fondata dall’imprenditore Ben Lamm e dal genetista dell’Università di Harvard George Church, l’azienda ha raccolto in soli due anni 225 milioni di dollari dagli investitori, tra cui imprenditori del settore bitcoin, In-Q-Tel (società di venture capital della Cia) e Thomas Tull, già fondatore di Legendary Entertainment.

E se il nome di quest’ultima non vi dice nulla, provate a scorrere la lista dei film che ha prodotto: oltre alla fantascienza di “Interstellar” (2014) e “Dune” (2021) ci sono infatti vari episodi di “Jurassic World” e numerose pellicole con protagonisti Godzilla e King Kong. Da qui si comincia anche a capire meglio perché focalizzarsi proprio sul piccolo e da lungo estinto dodo. Ai finanziatori della Colossal, oltre che ripristinare la biodiversità e sviluppare “tecnologie per la conservazione” (si pensi a tutto quello che ne può seguire dal punto di vista delle ricadute mediche per i nababbi della Silicon Valley che da tempo aspirano alla vita eterna) non dispiace certo l’idea di avere a disposizione animali estinti in carne, ossa, pelo e piume per le produzioni cinematografiche, o addirittura di crearne di nuovi e mai esistiti. E se è vero che il dodo è fisicamente estinto da un pezzo, gode ancora oggi di ottima salute nell’immaginario collettivo, con una versatilità e una popolarità seconda solo a quella dei dinosauri: cartoni animati (come “L’èra glaciale”, 2002), pubblicità, collezioni di gioielli, musica pop.

 

I genetisti della Colossal non sono tuttavia i primi a trovarsi a “ricostruire” il dodo, né ad anelarne la scoperta. La storia di questo animale è infatti segnata da una serie di avvincenti incontri, intrighi e fraintendimenti tra scienza, arte e letteratura.

 

Il primo incontro degli europei con il dodo avviene sull’isola di Mauritius nel 1598, durante una spedizione guidata dall’ammiraglio olandese Jacob Corneliszoon van Neck. Uno dei partecipanti alla spedizione racconta: “Trovammo grandi uccelli, con ali grandi come quelle di piccione, così che non potevano volare. […] Questi particolari uccelli hanno uno stomaco così grande che potrebbe sfamare due uomini”. Il paleontologo statunitense Stephen Jay Gould ha definito il dodo “una specie di gigantesco piccione incapace di volare”, alto circa un metro e pesante fino a circa venti chili, che aveva sviluppato queste caratteristiche grazie anche all’assenza di predatori nel suo habitat. La mappa in cui il geologo britannico William Buckland riassume le estinzioni sulla base delle ère geologiche vede assieme a dinosauri, mammut e grandi orsi anche il dodo. 

Tra il 1605 e il 1610 il primo esemplare vivente di dodo arriva in Europa ed entra a far parte della collezione dell’imperatore Rodolfo II d’Asburgo. Ne abbiamo un ritratto non firmato, probabile opera del pittore fiammingo Jacob Hoefnagel il vecchio. Dopo il 1626, non vi è altra traccia di dodo “importati”. Tuttavia, un esemplare arriva in Inghilterra nel 1638, dove è esposto come attrazione popolare. Alla sua morte, viene impagliato e finisce prima nel gabinetto di rarità di John Tradescant e poi all’Ashmolean Museum di Oxford. Ancora oggi a Oxford se ne conserva la testa e una zampa: uno dei pochissimi resti e l’unico provvisto di tessuto, tale da permettere l’analisi del dna. L’ultimo esemplare vivente è avvistato con certezza a Mauritius nel 1662. Il precedente avvistamento risaliva a ben 24 anni prima. Studi successivi, sulla base di analisi statistiche e di diari di coloni olandesi che ne annotano successive catture, stimano che alcuni dodo potessero essere in vita ancora attorno al 1690. Il termine dodo viene dal portoghese doudo, poi doido, e sta per “sempliciotto”, alludendo forse alla goffa andatura dell’animale. Il grande naturalista svedese Linneo, che nel 1758 lo classificò come Raphus cucullatus, lo indicò anche come “Didus ineptus”. Gli olandesi lo chiamavano walgvogel, “uccello insipido” o anche “disgustoso”, il che potrebbe confermare la scarsa rilevanza che il consumo alimentare umano diretto ebbe nel provocarne l’estinzione – più probabilmente dovuta all’importazione di specie animali come maiali e cani che si nutrivano con facilità delle sue uova nidificate a terra. 

 

In ogni caso gli esseri umani ebbero meno di un secolo per familiarizzare effettivamente con questo animale, ma questo bastò per restarne affascinati. Delle migliaia di immagini di dodo che tuttora circolano, solo una decina sono state effettivamente disegnate avendo davanti l’animale, mentre tutte le altre sono state riprese o elaborate da quei secenteschi disegni originari. 

II più prolifico illustratore di dodo fu senz’altro il fiammingo Roelant Savery. Lavorando alla corte di Rodolfo II, Savery aveva accesso ai rari esemplari che periodicamente arrivavano ad arricchirne la collezione. Savery dipinse almeno sei quadri raffiguranti dodo. Il più celebre è quello noto come “Edward’s Dodo”, datato attorno al 1626, così chiamato dal nome dell’ornitologo George Edwards che ne entrò in possesso.

Due secoli dopo il dodo è ormai una figura quasi mitologica, sogno proibito di zoologi e paleontologi. Tra gli studiosi che più intensamente lo inseguono c’è l’anatomista e zoologo britannico Richard Owen, dal 1856 soprintendente delle collezioni naturalistiche del British Museum, accanito oppositore delle teorie di Darwin. I suoi ritratti ci consegnano un viso spigoloso incorniciato da lunghe basette, e la sua celebre immagine in cui guarda l’osservatore dritto negli occhi, appoggiato fieramente a uno scheletro di moa gigante (oltre tre metri, l’uccello più alto di sempre), non è esattamente una che mostrereste volentieri ai vostri figli prima di farli addormentare. Nel 1863 Owen riesce a incontrare il vescovo anglicano delle Mauritius e non ci gira attorno: eccellenza, se si trovano resti di dodo da quelle parti, devono arrivare a me e a nessun altro.

Il messaggio arriva forte e chiaro a Edward Clark, un insegnante di storia naturale che ha cercato tracce di dodo senza successo in quell’area per più di trent’anni. Forse ringalluzzito dalla prospettiva di entrare in contatto con il grande Owen, Clark si rimette all’opera e nel 1865 finalmente la sorte gli arride: a Mare aux Songes, a meno di un chilometro dalla Blue Bay, oggi rinomata destinazione turistica, saltano fuori un centinaio di ossa di dodo. Clark le spedisce subito a Owen con la benedizione del vescovo e riceve in cambio cento sterline. A Mauritius arriva in quegli anni anche un giovane e ambizioso ingegnere ferroviario, Harry Higginson.

 

Supervisionando i lavori ormai quasi conclusi della nuova ferrovia, una mattina Higginson vede i suoi “coolies” (termine dispregiativo usato all’epoca per indicare per gli operai asiatici, dall’hindi kuli) che sistemano il terreno ammucchiando da un lato alcune ossa trovate sotto terra. E se quelle ossa fossero proprio del “mitico dodo”? Higginson va da Clark e ottiene la conferma. Il destino vuole però che in quegli anni a Mauritius sia attivo come amministratore coloniale Edward Newton, fratello dell’ornitologo e zoologo Alfred Newton. Anche Alfred vorrebbe tanto avere a disposizione qualche osso di dodo per studiarlo. La spedizione parte diretta a lui ma Owen, non si sa bene come, riesce a metterci le mani sopra grazie anche alle proprie relazioni. Alfred Newton avrebbe tutte le ragioni per ribellarsi pubblicamente, ma Owen è assai influente e potrebbe mettersi di traverso rispetto alla sua promozione a professore a Cambridge. Nel frattempo Owen non perde tempo, e il 9 gennaio 1866 presenta la sua sensazionale scoperta alla Zoological Society e poi in una serie di conferenze ampiamente pubblicizzate. 

 

Anche per lui però il rompicapo non è semplice da risolvere. Ora ha a disposizione le preziose ossa, ma un dodo dal vivo non l’ha mai visto. Come fare? La soluzione è sotto i suoi occhi, o almeno così crede Owen. Al British Museum è infatti conservato il citato “Edward’s Dodo”, un ritratto dell’uccello a grandezza naturale realizzato due secoli e mezzo prima, che ritrae l’animale goffo e paffuto come da tradizione. Così, lo scienziato ricalca la silhouette del dodo dal quadro e vi dispone sopra le ossa, pubblicandone un’accurata descrizione scientifica corredata di meravigliose illustrazioni a colori in Memoir of the Dodo (1866). Passa qualche anno e Owen capisce di aver commesso un grossolano errore fidandosi del dipinto. Pubblica allora una nuova e più accurata ricostruzione del dodo, stavolta ben più snello e slanciato. Ma ormai il danno era fatto: l’immagine del dodo basso e tozzo con le piume colorate era largamente circolata e si era fissata anche in ambito popolare. Owen non è l’unica vittima illustre del dipinto di Savery. A rimanere impressionato dal ritratto (sbagliato) del dodo in quegli stessi anni è anche il matematico e scrittore Charles Dogson. In “Alice nel Paese delle Meraviglie” (1865), scritto con lo pseudonimo di Lewis Carroll, il dodo infatti compare nel romanzo come caricatura dello stesso autore, che al suo nome collega ironicamente la propria balbuzie “Do-do-dogson”. Ed è di nuovo al dodo di Savery che si ispira il disegnatore John Tenniel quando illustra il libro di Carroll.

“In ogni caso, dopo che ebbero corso per una mezz’ora, quando ormai erano tutti perfettamente asciutti, il Dodo improvvisamente gridò: ‘La corsa è finita!’. Tutti si affollarono intorno a lui col fiato grosso e gli chiedevano: ‘Allora, chi ha vinto?’. Per poter rispondere a questa domanda il Dodo dovette riflettere a lungo. Perciò se ne stette seduto per molto tempo e teneva il dito premuto sulla fronte, nell’atteggiamento in cui, di solito, vediamo ritratto Shakespeare. Intanto tutti gli altri aspettavano in silenzio. Alla fine, alzò il capo e disse: ‘Tutti hanno vinto, e tutti meritano un premio’”. (Lewis Carroll, “Alice nel paese delle meraviglie”, 1865, trad. it. Masolino D’Amico, Rizzoli, 2006).

La rappresentazione del dodo è un esempio straordinario di immagine artistica che ha influenzato sia la ricerca scientifica (la ricostruzione dell’animale da parte di Owen) che un’opera letteraria (scritta da un autore di formazione scientifica). Essa è un esempio classico di come certe convenzioni visuali si fissino e si perpetuino, in ambito popolare e perfino in quello specialistico, acquisendo una vita propria. Enorme, da allora fino a oggi, è stato il successo del dodo nella cultura popolare: dai film di animazione alle citazioni nella pop music. Tra gli esempi più celebri in questo ambito il brano “Dodo”, nell’album “Abacab” del 1981 del gruppo inglese Genesis; le immagini sulle copertine degli album della cantautrice americana Aimee Mann (“Bachelor No. 2 or, the Last Remains of the Dodo”, 2000) e del gruppo inglese Talk Talk (“Missing Pieces”, 2001) a linee di gioielleria e modelli automobilistici (la Lancia “Y DoDo”).

 

Il dodo resta un caso davvero unico di animale fisicamente pressoché sconosciuto, ma estremamente familiare a noi tutti. La sua immagine codificata in quei primi, pochissimi dipinti, il suo aspetto pacifico e paffuto tra paesaggi idilliaci ha contribuito a farne un’icona dell’estinzione inconsapevole e indifesa, della perdita irreversibile di un equilibrio naturale non ancora perturbato dalla presenza umana.

La Colossal punta a ricreare un mammut entro il 2028, ma la tigre della Tasmania e il dodo potrebbero arrivare anche prima. Mutatis mutandis, il problema dell’azienda è simile a quello che dovette affrontare a suo tempo Owen. “Non è certo possibile riportare in vita un vero dodo, definito come geneticamente identico alla forma estinta”, afferma Tom Gilbert, professore di paleogenetica all’Università di Copenaghen e membro dell’advisory board della stessa Colossal. Il metodo utilizzato prevede infatti di sequenziarne dapprima il genoma usando le ossa disponibili e poi di fare un editing genetico della cellula di un vicino parente del dodo, il piccione delle Nicobare; la cellula così ottenuta verrò utilizzata per creare un embrione. Ma a quale immagine assomiglierà allora il dodo 2.0 della Colossal? A quella che gli attribuisce oggi la paleontologia, o a quella goffa e paffuta a cui siamo tutti tanto affezionati? E stavolta, riuscirà finalmente a sopravvivere all’estinzione?

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