Il Foglio Weekend

Femministe contro Netflix

Michele Masneri

Da “Orange is the new black” a “Pose” fino a “Disclosure”. E  poi soprattutto “Transparent”. La politica delle piattaforme streaming da anni punta su storie transgender. La nuova guerra dei sessi tra destra e sinistra  

Mentre si sta qui a domandarsi se la storia di Biancaneve baciata senza consenso sia vera o fasulla e se sia giusto che le grandi questioni vengano ormai decise  non dal capocorrente o dal capostruttura bensì da instagrammer e algoritmi, è chiaro che stiamo perdendo tempo.

 

Come con smottamenti e inondazioni con cui il Paese è incapace di prevedere eventi anche quando  si ripropongono con ciclica regolarità, nessuno pare prepararsi oggi per tormentoni prossimi venturi che sono lì già pronti, oltretutto in un’epoca in cui la trasmissione di questi è sempre più veloce. Se in Italia ci siamo appena appassionati tantissimo contro la dittatura del politically correct, tema che è in giro almeno dal 2000 (“La Macchia umana”, del vituperatissimo Philip Roth, è di quell’anno), con  Alberto Arbasino che si ribellava già in “Fantasmi italiani con zombi”, anno 1998, contro il pc “da non confondere col vecchio partito comunista nostrano o col personal computer”, se il Metoo scoppia in California nel 2016 e, pur nella sua versione mediterranea con victim blaming, arriva qui con almeno due anni di ritardo, è chiaro che altri cambiamenti epocali di costume non tarderanno, e ci coglieranno impreparati.

 

 

E così, anche apoliticamente e apartiticamente, non sembra davvero utile tenere la linea Meloni, quella del “non so cosa sia il gender, ma non mi piace”, perché anche se tu non ti occupi di lui, il gender si occuperà di te. E comunque vada a finire la defatigante questione della legge Zan, come nella moda nel design e nella meccanica di precisione, in cui l’Italia da sempre pensa di dover reinventare la ruota ogni volta, basterebbe invece copiare, per non trovarsi poi sempre in ritardo. Dunque guardare alle piattaforme televisive estere per capire che fissarsi a discutere la vetusta questione gay nel 2021 è come promuovere dibattiti sul microonde o sugli aerei a reazione.

 

E’ ora per esempio di prepararci alla nuova questione transgender, scoppiata nel 2014 in America e oggi centrale, col presidente Biden che incoraggia ogni giorno persone “f-to-m” o “m-to-f” a prendere parte alla cosa pubblica. Anche nelle forze armate  (e nessuno che obietti: il o la trans in divisa non spaventano, non sono come il generale Figliuolo). Sette anni fa il "Time" mise in copertina Laverne Cox, star di “Orange is the new black”, come simbolo di una nuova generazione di donne transgender. Con la praticità americana il magazine non certo trasgressivo certificava  “the trangender tipping point” cioè il punto di non ritorno sulla questione, e la star diceva: “ecco chi sono, e ci sono sempre più persone transgender come me che vogliono raccontare le loro storie. Sempre più persone tra noi stanno vivendo allo scoperto e cercando di realizzare i loro sogni".

 

Laura Linney e Olympia Dukakis  in "Tales of the city"

La serie inaugurava un nuovo filone della “Netflix politics” che ha portato a un’infornata di sceneggiati televisivi a svelare le vite di tanti poveri cristi e criste che ambirebbero solo a una esistenza più degna. Esistono, sono fra noi. E’ tutto un fatto di rappresentazione, ripetono nel pregevole “Disclosure”, documentario dell’anno scorso ovviamente sulla piattaforma siliconvallica, in cui le più celebri attrici transgender raccontano la storia d’America attraverso le loro vite sullo schermo. Analizzando molti classici, per arrivare fino ai giorni nostri, e dimostrare che da “Psycho” a “Dressed to Kill” fino a “Il silenzio degli innocenti” in cui il serial killer Buffalo Bill scuoia serialmente delle signore per appropriarsi della loro femminilità, nel cinema americano da sempre se c’è un mostro da mettere in scena sarà idealmente un signore che vuol diventare una signora. Capostipite della transfobia, il film “A Florida enchantment” del 1914 in cui le persone ingurgitando degli strani semi si trasformano nel sesso opposto diventando cattivissime (se lo sa Pillon aderisce subito alla teoria).

 

Il cinema è stato fondamentale per la comunità transgender americana, perché, dicono in questo documentario, l’ottanta per cento degli americani non conosce nessuna persona trans direttamente, e dunque l’unico modo che ha di vederle è sullo schermo. La prima persona transgender buona appare sulla scena nel 1952, con Christine Jorgensen, ex marine diventata star del cinema, ma poi è soprattutto la saga delle serie dell’ultimo decennio a sdoganare un genere e un gender. “Orange is the new black”, appunto, in cui Cox fa la carcerata transgender nera Sophia; e poi “Pose”, ambientata tra le "ballrooms" cioè gran balere latinoamericane e nere nella comunità queer di New York negli anni Ottanta, con oltre cinquanta attrici transgender; e soprattutto la magnifica “Transparent”, che andrebbe mostrata a leghisti e pii e amedei di ogni latitudine.

 

Prodotta da Amazon e visibile in Italia su Sky, narra il caso umano e troppo umano di una famiglia californiana in cui l’anziano patriarca, Mort Pfefferman, esimio professore  in una primaria università, alla bella età di settant’anni capisce quello che ha sempre capito, e cioè di trovarsi nel corpo sbagliato, e con gran sgomento di tutti incomincia la sua transizione divenendo Maura. Svelando soprattutto nervi scoperti della meglio società in cui è immerso, famiglia iper liberal e figli fricchettoni in una magnifica magione modernista a Los Angeles; il figlio maschio playboy nevrotico è il più arrabbiato; le figlie grandi e sgamate capiscono, chi più chi meno; la ex moglie pure, finalmente si dà una ragione per quel matrimonio che alla fine ha funzionato né meglio né peggio di tanti altri, e vorrebbe tanto tenerselo lo stesso, quel marito diventato femmina. La storia è vera, è di chi ha inventato della saga, Joey Soloway, che ha avuto un genitore proprio come “Mort” che diventa “Maura” Pfefferman.

 

Il bello della serie è che dopo un po’ non ti preoccupi più dei genitali ma ti soffermi sulle persone: come diceva Guzzanti alias Funari, “è tanto tanto libberatorio”. E spiega moltissime cose, per esempio che transessualismo non c’entra niente col travestitismo, come in molti ancora magari sospettano – anzi negli anni in cui è ancora fedele alla moglie, il protagonista frequenta  raduni per maschi anche maschissimi che però di tanto in tanto amano vestirsi da donna, salvo poi deludere tutti quando capisce che lui vuole proprio diventare quella cosa lì, non solo imitarla. In quella magnifica serie, Alexandra Billings, oggi anche lei superstar transgender americana, fa Davina, l’amica del cuore e coinquilina di Maura, e a differenza sua però non possiede phd e biblioteche, ma si è dovuta prostituire, e accompagnare a loschi figuri (un altro luogo comune vuole che tutte le persone trans siano prostitute, mentre è un po’ il contrario: non essendo proprio benvolute e agognate in cda e salotti buoni, in qualche modo devono pure campare.

 

E’ un po’, per dirla in pioamedeese, come gli ebrei con le banche, non è che nascevano col pallottoliere in mano, gli era concesso di fare solo quello. Nella serie, comunque, la famiglia è anche ebrea, e le scene all’aeroporto di Tel Aviv coi raggi x che segnalano genitali imprevisti, e i parenti israeliani molto macho che hanno messo su un impero dell’aria condizionata, valgono da sole la visione).

 

In Italia invece siamo ancora molto indietro e però i segnali di una nuova defatigante battaglia ci sono già perché proprio sul “genere” cominciano i mugugni: per cui varrebbe un ripassino (il sesso indica come sono nato a livello biologico, l’identità di genere chi mi sento - e, tenetevi forte, sono 51 le opzioni  -, l’orientamento sessuale chi mi piace). E’ un tema complicato, ma non più del nostro iPhone di cui ci vantiamo però di conoscere ogni segreto. E il tema terrorizza e polarizza, e si preannunciano sfracelli, e non solo dove te li aspetteresti: a dare contro la grande cavalcata dei diritti trans sono non solo ovvi maschioni di destra ma anche tante femmine di sinistra o percepite tali, anche lesbiche dette “Terf” cioè trans-excludenti, un po’ all’antica, diciamo le femministe iPhone 7, quelle per cui  non è assolutamente accettabile che un maschio voglia diventare come loro (bel modo di trattare i propri fan più accaniti).  

 

A non piacere, soprattutto ad antiche femministe e lesbiche di nicchia autocertificate, sono soprattutto i signori che vogliono diventare delle signore; le spaventano molto questi portatori di pene che agognerebbero, secondo loro, a  vincere le gare destinate alle atlete femmine: stessa posizione peraltro del leghista Alberto Zelger, consigliere comunale leghista di Verona, uno dei quattro dell'apocalisse omofoba citati da Fedez al primo maggio, e che a Piazza Pulita giovedì sera ha detto che queste atlete “mettono a disagio le donne, perché vincono tutte le gare e loro non possono difendersi”. Un paese di allenatori che improvvisamente passa dal calcio all’atletica leggera (ha senso). 

 

Altra questione, che riguarda anche le donne transgender non atletiche, sarebbe che sarebbero vogliosissime di stuprare femmine biologiche e DOC nelle carceri. Mah: sembrano tutti casi abbastanza remoti, e istintivamente pare più probabile che una poveretta che si sottopone a tutto questo defatigante percorso forse non vedrà l’ora di andare a ballare o al cinema o in profumeria per farsi bella piuttosto che iscriversi a maratone e tornei, o farsi carcerare solo per la possibilità di avvinghiarsi ad altre signore non consenzienti.

 

Con una magnifica ironia della sorte, sul set di Transparent, l’unico attore cisgender (cioè maschio nato e maschio rimasto),  quello che impersona il patriarca in transizione, Jeffrey Tambor, è stato poi accusato di violenze e non ha recitato nel film conclusivo della serie. Peccato: intanto, in un'altra scena memorabile lui interpreta la povera Maura Pfefferman che, scoperta in un raduno estivo di donne molto californiane e inclusive, viene stanata da anziane lesbiche terfissime, e scappa dandosi alla macchia. 

 

E certo gli  Stati Uniti sono un’altra cosa, e lì ormai alligna tutto uno star system trans: oltre a Laverne Cox c’è Candy Cayne di “Dirty Sexy Money”,  e poi naturalmente Caitlyn Jenner che pur nella sua scombinatezza aiuta la causa. Protagonista anche lei di una celebre copertina di Vanity Fair e del reality “I am Cait”, Caitlin  già – si perdoni il deadnameBruce Jenner, dopo esser stato (lui sì) atleta olimpico e aver gestito la famigliona acquisita Kardashian, ora ha deciso non di sbaragliare povere femmine al salto in alto ma di candidarsi al governatorato della California. Si ispira a Reagan e Schwarzenegger, attori assurti all’immane carica, si dichiara “socialmente progressista” e “fiscalmente conservatrice”, e ha assoldato l’ex stratega elettorale di Trump poi andato in depressione e alcolizzato Brad Parscale. Cosa potrà mai andare male.

 

E da noi?  Non sembra immaginabile per ora un governatore o governatrice transgender, neanche di piccole regioni come la Val d’Aosta o il Molise, e non già enormi economie come la California: chissà se Platinette, drag queen nostalgica dei bei tempi andati potrebbe succedere al calabrese Spirlì che pure agogna d’essere chiamato con la parola con la f. Divisioni, divisioni. E  spauracchi causati soprattutto perché “il trans”, rigorosamente maschile, è una creatura che nell’immaginario italiano abita i margini della notte e delle città, spesso associata a paesi esotici e a sostanze da inalare, e a politici corrotti e rampolli in crisi esistenziale che talvolta si fermano a chiedere l’ora o vengono ritrovati in pigiama a vagare per le città (e però, anche, un grande amore per filmografie di paesi simili come Almodovar, in cui si cambia sesso allegramente e pittorescamente).  

 

Però qui per ora si è fermi a “Splendori e miserie di Madame Royale”, magnifico Tognazzi en travesti, e a “Un amore difficile”, episodio di “Sessomatto” in cui Alberto Lionello alias Gilda seduce un inesperto Giancarlo Giannini suo fratello inconsapevole in una Porta Nuova non ancora gentrificata. Poi più niente: dunque invisibilità, mancata rappresentazione, e confusione nel solito cronista collettivo di fronte ai più tragici casi di cronaca, come con la fidanzata morta in motorino del ragazzo transgender Ciro Migliore: lì, non sapendo bene come chiamarlo, si azzarda perfino un “Cira”.

 

E anche qui, davvero cosa si aspetta a dare alle stampe un opuscolo, sulla pronuncia, come evitare il “misgendering”, un galateo che farebbe bene a tutti: si chiamano col loro nuovo nome, il pronome è quello del genere di arrivo e non di partenza; si potrebbe aggiungere per i più tardi che le parole con la N e con la F non fanno ridere più nessuno, e alla più comune obiezione – “ma anche loro si dicono F!” – basta applicare una facilissima regola: la minoranza ha il diritto di chiamarsi come vuole, come “ei tu ebreaccio”, detto da un confratello ebreo, va benissimo, e anche “frocio, frociona, frocissima”, se detto da altri omosessuali, specialmente agé, fa fino (eccezionalmente è permesso anche all’amico e all’amica del F ma è un diritto che si conquista sul campo dopo molti anni). 

 

E'  una regola che le nostre zie avrebbero capito benissimo: come con l’ospitalità, “che casa di merda”, la potrà dire il proprietario, non l’eventuale ospite, o a “oggi mi sento proprio un cesso”, si risponderà: ma no, stai benissimo, sei un fiore, anche e soprattutto mentendo. Il grande paradosso del politicamente corretto infatti è questo: si vuole sostenere che miri a cambiare la testa delle persone e che le parole non contino, mentre è proprio il contrario  – nessuno ci costringerà a scacciare pensieri come: che schifo di cena, quell’ebreaccio, quel frocione, quel troione, quel negraccio. Semplicemente, si tratta di tenere le proprie opinioni finalmente per sé.

 

Ma sulla faccenda transgender, una questione interessante è che tutto lo sdegno è per i signori che vogliono diventare delle signore. Per il contrario, invece, nulla. E  Elliot Page già Ellen dà in fondo poco scandalo, perché forse il patriarcato è anche questo, la società degli uomini accoglie tutti, mentre si presume che “la trans” maschile andrà a battere con voce gutturale, dunque avrà vita difficile perché chi se la prenderebbe in casa o in ufficio? Come insegna la storia triste di Olympia Dukakis alias Anna Madrigal, nelle varie rappresentazioni televisive dei “Tales of the city”, la serie celebre di Armistead Maupin su un compound di varia umanità queer  a San Francisco. Ultimo lavoro della leggendaria attrice americana morta pochi giorni fa, Dukakis ha interpretato in vari remake e riprese le fasi della vita di questa placida donna trans americana che voleva solo essere libraia, provò ad avere una vita borghese e normale come tutte addirittura fidanzandosi con un poliziotto, ma alla fine non riuscì, dunque grande  scandalo, e creazione di una comunità leggendaria al 28 di Barbary Lane (nell’ultima serie abitata anche da Page, quando era ancora Ellen).

 

Per le signore che diventano signori però il destino sembra meno arduo. Sono assolutamente in ugual numero, insegnano in “Disclosure”: solo che non li vediamo. Eppure basterebbe guardare meglio, ecco per esempio Francesco Cicconetti alias Mehths, centomila followers, ventenne romagnolo che racconta su Instagram la sua transizione giorno per giorno, con sogni di ragazzo, rotture burocratiche per farsi adeguare documenti, fidanzata innamorata e creativa, caro affitti, e insomma tutto molto borghese e molto a posto. Non sono pervenuti lamenti di maschilisti e antichi membri Arcigay, ma magari manca qualche dato. Di sicuro manca una serie: fatela presto, noi si aspetta.

 

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  • Michele Masneri
  • Michele Masneri (1974) è nato a Brescia e vive prevalentemente a Roma. Scrive di cultura, design e altro sul Foglio. I suoi ultimi libri sono “Steve Jobs non abita più qui”, una raccolta di reportage dalla Silicon Valley e dalla California nell’èra Trump (Adelphi, 2020) e il saggio-biografia “Stile Alberto”, attorno alla figura di Alberto Arbasino, per Quodlibet (2021).