Alieni al cinema: una scena di “E.T. L’extraterrestre” di Steven Spielberg (1982)

Il cosmo in silenzio

Roberto Volpi

Ma dove sono finiti tutti quanti gli alieni? Dal paradosso di Fermi al neodarwinismo. Per scoprire che la vita forse è solo la nostra

Enrico Fermi, oltre a essere riconosciuto come il più grande fisico dei suoi tempi, andava famoso per le sue domande a bruciapelo, le cosiddette domande alla Fermi. Un giorno chiese ai suoi studenti americani quanti accordatori di pianoforti ci fossero a Chicago, domanda ostica ma decisamente più abbordabile di quella su quanti granelli di sabbia ci sono sulle spiagge del mondo. Più che ai risultati, Fermi guardava al ragionamento che compivano gli interpellati per giungervi. Per esempio, il 1950 fu un anno di molti avvistamenti di dischi volanti e altri Ufo nei cieli americani ma, come pubblicarono i giornali della città, anche della sparizione del più grande numero di cestini per rifiuti dalle strade di New York. Così, un arguto vignettista mise assieme le due cose: astronavi e cestini. Ecco perché venivano gli alieni sulla terra, per fregarsi i nostri cestini dei rifiuti! La vignetta mostra un enorme disco volante dalla cui pancia scendono sulla terra degli alieni mentre nel frattempo altri vi rientrano carichi dei cestini trafugati. A Fermi piacque molto l’associazione della vignetta, che gli fu riferita mentre pranzava a Los Alamos con alcuni amici scienziati, tra cui Edward Teller, senz’altro il fisico che più aveva voluto la bomba atomica. La trovava ingegnosa. E così, di associazione in associazione, eccolo buttare lì, nel corso di quello stesso pranzo, un’altra domanda alla Fermi rimasta famosa, riferita agli extraterrestri: “ma dove sono tutti quanti?”.

 

Dalla domanda alla Fermi al “Paradosso di Fermi” il passo è breve, perché il paradosso consiste nel fatto che di Cet, Civiltà extraterrestri, non se ne vedono le più evanescenti tracce in giro nel mentre, a stare a un po’ di parametri e variabili che il grande fisico considera e valuta lì per lì, mentre pranza, se la vita fosse qualcosa di appena appena presente nella galassia avremmo dovuto – calcolava – essere già stati, come terrestri, visitati e non una sola volta ma più volte. Era l’estate del 1950. Sembra che Fermi riponesse una qualche fiducia nell’esistenza di Cet, ma forse proprio per questo faticava a capacitarsi com’è che nessuno fosse ancora venuto a farci visita, considerando i miliardi di anni a disposizione della vita e i miliardi di stelle e i chissà quanti milioni di pianeti adatti alla vita esistenti nella nostra galassia.

 

La ricerca si avvale dal 1974 di un progetto internazionale di grande prestigio, ma non ha ancora portato ad alcun risultato concreto

Oggi, a distanza di quasi settant’anni da allora, e con gli straordinari progressi compiuti nel campo dell’osservazione dell’universo – con telescopi, e reti di telescopi, capaci praticamente di risalire sino al primo vagito del cosmo, quand’esso ha cominciato col Big Bang la sua corsa espansiva verso l’infinito – chissà se il grande fisico, in mancanza di risultati d’un qualche rilievo, continuerebbe a nutrire quel tanto di speranza che nutriva allora. Ma il punto è che il paradosso è dato, e troneggia ancora oggi, irrisolto, sulla ricerca di Cet. Ricerca che per quanto dal 1974, e dunque da più di quattro decenni, si avvalga di un progetto internazionale di grandissimo prestigio, qualità, potenza, dotazione scientifico-tecnologica ed economico-finanziaria, il progetto Seti, acronimo di Search for extra-terrestrial intelligence, non ha ancora portato ad alcun risultato concreto – almeno relativamente, s’intende, alla domanda se gli alieni esistano o meno. Gli alieni, gli extraterrestri intelligenti, se ne stanno dunque alla larga dalla Terra, non l’hanno in nota, non ci provano neppure a instaurare un qualche contatto con noi? O siamo noi che non riusciamo a intercettare o a riconoscere come provenienti da loro i loro messaggi?

 

Niente da fare, non si sfugge al paradosso di Fermi: se la vita è un fenomeno piuttosto comune e diffuso come si ritiene, e se l’evoluzione così com’è giunta fino a noi sapiens sulla Terra non può che esser giunta in chissà quanti altri pianeti della galassia all’intelligenza e alla coscienza, al pensiero astratto e simbolico, al linguaggio e dunque alla comunicazione, com’è che di tutta questa intelligenza universale non si riesce a captare un bel niente? Com’è che non si scorge traccia alcuna di artificiosità, solo di naturalità, in tutta la galassia?

 

Domande che devono aver agitato mente e coscienza di un fisico teorico inglese, Stephen Webb, al punto da ispirargli, una quindicina di anni fa, un libro intelligente e spiritoso già dal titolo “Se l’universo brulica di alieni… dove sono tutti quanti?”. Libro espressamente articolato attorno al paradosso di Fermi e alle sue possibili soluzioni. L’autore ne ha raccolte, dalle più eterogenee e tutte qualificate provenienze, addirittura 50, una delle quali espressamente sua. Cinquanta possibili soluzioni del paradosso di Fermi. Tantissime, e poche al tempo stesso. Tant’è che lo stesso Webb non ne salva più di tre: 1) gli alieni ci stanno inviando dei segnali, ma noi non sappiamo come ascoltare; 2) gli alieni ci stanno inviando dei segnali ma non sappiamo a che frequenza ascoltare; 3) non abbiamo ancora ascoltato abbastanza a lungo. Tutte e tre queste possibili soluzioni si confrontano col problema che già agli inizi degli anni Ottanta David Brin, grande scrittore di fantascienza autore di “The Postman”, da cui fu tratto un film di successo con Kevin Kostner, aveva posto con acume, quello del “grande silenzio” che ci arriva dal cosmo.

 

Il fatto è che non sappiamo neppure come sia cominciata, la vita, come dalla materia inanimata si sia passati a quella biologica

Naturalmente il “paradosso di Fermi” implica il “grande silenzio” e, a sua volta, quest’ultimo rafforza il paradosso di Fermi; sono, si potrebbe dire, le due facce della stessa medaglia: gli alieni se ci sono tacciono o, se non tacciono, comunicano in modi che non riceviamo o non siamo capaci di discernere. Se ci sono, attenzione, ovvero ammettendo che nella nostra galassia ci siano delle Cet. Ma ci sono? Stephen Webb presenta in ultimo, alla cinquantesima posizione, la sua soluzione del paradosso di Fermi. Ed essa è che no, non ci sono Cet. Non ce ne sono mai state né ce ne sono oggi né ce ne saranno domani. Lo afferma sulla base di calcoli probabilistici assolutamente opinabili, esattamente come lo sono tutti i calcoli sull’argomento basati sulla probabilità – che però è l’unica disciplina che ci consente di affrontarlo, quell’argomento. Siamo soli nella galassia, per Webb (e per non pochi altri fisici, astrofisici e cosmologi che chissà perché si danno tutti per conquistati all’idea dell’esistenza di molteplicità di Cet nell’universo). E, per estensione, forse siamo soli nell’intero universo. Senonché l’universo, a differenza della nostra galassia, è infinito. Anzi, no, non sembrerebbe. Siccome continua a espandersi ciò vuol dire che non è infinito, non ancora almeno, ma semmai che non ha limiti. Sottile distinzione, ma cionondimeno distinzione da tenere presente, giacché nell’infinito davvero infinito non c’è cosa, fenomeno che non possa accadere, che possa essere negata. Il lettore è pregato di leggere con attenzione questo passo: “Una statua di Primo Levi fatta con olio d’oliva tibetano raffreddato a meno di 200 gradi esiste certamente [il corsivo è mio] da qualche parte dell’universo: si tratta di un oggetto estremamente improbabile, per cui bisognerà viaggiare un certo numero di miliardi di anni per trovarlo, ma da qualche parte esiste. L’universo è infinito perché deve consentire assolutamente tutto quello che è permesso, perché tutto quello che è permesso è obbligatorio”.

 

A fare questa affermazione, che definire a prima vista azzardata è dire poco, non è un visionario folle ma uno dei più grandi fisici del mondo, l’italiano Tullio Regge (1931-2014) in un libriccino (quanto a mole, non certamente quanto a sostanza) che riproduce il dialogo tra lo stesso Regge e il grande scrittore – e pure chimico di vaglia, anche se non quanto scrittore – Primo Levi. Il libro di Primo Levi e Tullio Regge si intitola, per l’appunto, “Dialogo”, ed è del 1984.

 

Per Tullio Regge, che nel 1995 diede alle stampe un libro intitolato espressamente “Infinito: viaggio ai limiti dell’universo”, l’universo è infinito, ma anche no (se no come fai a viaggiare ai suoi limiti?), forse è infinito in potenza se non proprio in essere, ma non è così decisiva neppure questa distinzione perché l’universo è comunque di un’infinità che “deve consentire assolutamente tutto quello che è permesso”. Anche una statua di Primo Levi fatta con olio d’oliva tibetano raffreddato a meno di 200 gradi, dunque, esiste certamente. Ma esisterà altrettanto certamente anche una seconda statua di Primo Levi fatta eccetera eccetera? Qui i dubbi, ammesso e non concesso che già non siano spuntati prima come violette a primavera, si fanno di necessità assai fitti. Personalmente, e per quanto possa dire di intendermi di probabilità, tenderei a escludere quanto meno la ripetizione in olio tibetano raffreddato a meno di 200 gradi della statua di Primo Levi. Se per incontrare la prima statua si deve viaggiare un certo numero di miliardi di anni, mi sorge il sospetto che per incontrare la seconda non ci sia neppure il tempo strettamente necessario. Il sole, tanto per dire, non ha più di cinque miliardi di anni di vita, mentre l’aumento del flusso di energia proveniente dalla nostra stella che volge al declino distruggerà ogni forma di vita sulla terra entro il prossimo miliardo di anni. Non è poco, un miliardo di anni. Ma non ci bastano neppure per incontrare la prima statua di Primo Levi in olio d’oliva tibetano, figurarsi la seconda. La incontrerà qualche altra Cet – sempre che ce ne siano altre, oltre la nostra. Il fisico e cosmologo Paolo De Bernardis nel suo “Solo un miliardo di anni?” azzarda una stima dei pianeti abitabili nella nostra galassia che ha il merito di poggiare sul conteggio dei pianeti extrasolari effettivamente scoperti dai nostri telescopi. “Aggiornato al luglio 2016, il conteggio è di circa 3.400. In media si è trovato circa un pianeta per ogni stella. Tra le stelle simili al Sole, almeno una ogni cinque ha un pianeta di dimensioni simili alla nostra Terra”, afferma, concludendo che “Estrapolando queste statistiche, si conclude che nella nostra galassia ci dovrebbero essere alcune decine di milioni di pianeti simili alla Terra potenzialmente abitabili!”. Un condizionale, quest’ultimo dello scienziato italiano, usato dannatamente a proposito perché, e lui è del resto il primo ad accorgersene, decine di milioni di pianeti simili alla Terra potenzialmente abitabili nella sola nostra galassia non fanno che rendere ancor più macroscopico e inesplicabile il paradosso di Fermi riferito agli extraterrestri: “Dove sono tutti quanti?”.

 

Gli alieni se ci sono tacciono o, se non tacciono, comunicano in modi che non riceviamo o non siamo capaci di discernere

Il fatto è che noi diciamo vita e subito ci passano davanti agli occhi cellule e piante e insetti e animali e uomini bell’e fatti. Eppure non sappiamo neppure come sia cominciata, la vita, come dalla materia inanimata si sia passati a quella biologica. Abbiamo al riguardo un bel po’ di ipotesi, qualcuna più attendibile e fondata di qualcun’ altra, ma niente di più. Ancora oggi nella comunità scientifica non c’è accordo neppure su questo che pure è lo step 0 sulla strada della comprensione del cammino della vita. Non ci raccapezziamo più di tanto su com’è sorta la prima molecola, figuriamoci su come si è giunti alla formidabile complessità di una cellula o del primo organismo capace di riprodursi. Strano modo di vedere le cose, il nostro. Non ci capiamo pressoché nulla su come sono andate, ma abbiamo deciso che per la vita è uno scherzo arrivare a intelligenze come la nostra e anche superiori, anche molto superiori.

 

E se la vita, invece, fosse un po’ come la statua di Primo Levi fatta con olio d’oliva tibetano raffreddato a meno di 200 gradi? Fosse non già una roba facile facile, che scivola via da sola, senza bisogno che di tempo per fiorire su qualsivoglia terreno, tanto c’è l’evoluzione che tutto risolve e a tutto approda, ma un evento estremamente improbabile al pari di quella statua? E se la vita, anche quando e dove esiste, trovasse difficoltà pressoché insormontabili a uscire dal livello minimo procariotico, ovvero degli organismi unicellulari neppure provvisti di nucleo? E se la vita, pur se fervesse da più parti, in tanti pianeti classificati come “abitabili”, non ce la facesse ad approdare a esseri che come noi hanno sviluppato il linguaggio e il pensiero astratto? Ecco bell’e risolto il paradosso di Fermi. Davvero quest’ultima è un’ipotesi così improbabile? Ma se proprio l’esperienza ci suggerisce il contrario, che sia piuttosto se non addirittura assai probabile. In fondo sul nostro pianeta, sulla Terra, si sono succedute, dalla prima forma di vita, qualche miliardo di specie, ma solo una, noi, sapiens, abbiamo sviluppato il linguaggio e il pensiero astratto: una su alcuni miliardi. Un po’ di proporzioni fanno pensare che qualche milione di pianeti genericamente abitabili non significhino poi così tanto, alla luce di tutti questi interrogativi e possibilità.

 

E’ che siamo stati educati dal benedetto neodarwinismo che tanti meriti (e qualche demerito) ha a pensarci al ribasso. La nostra galassia? Periferica. La nostra stella, il sole? Anonima. Il nostro pianeta? Piccolo. Il genere Homo? Un ramoscello tra i tanti del cespuglio della vita. La nostra specie, sapiens? Una fogliolina tra le tante di quel ramoscello di quel cespuglio. E via sminuendo. Poi succede che passa il tempo, i decenni, che sempre più mostruosi telescopi scrutano lo spazio in ogni anfratto, che le missioni di sonde su questo e quel pianeta ci sommergono di informazioni. Ma di vita, zero. Di artificiosità che provi l’esistenza di un’intelligenza che plasma la natura meglio non parlare neppure.

 

Bisognerà viaggiare un certo numero di miliardi di anni per trovare la statua di Primo Levi fatta con olio d’oliva tibetano raffreddato a meno di 200 gradi. Potrebbe non essercene una seconda. Non certamente in quel modo, di quel tipo preciso, per quanti miliardi di anni viaggiamo per incontrarla. E per quanti milioni di pianeti abitabili incontriamo, potrebbe essere la stessa cosa con la vita: potrebbe non essercene un’altra che sta anche soltanto alla pari con quella della Terra. Attenzione, perché il paradosso di Fermi fa oscillare il pendolo proprio in questa direzione.

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