Dopo oltre un anno di squalifica per doping, Maria Sharapova tornerà a giocare nel torneo di Stoccarda il 26 aprile (foto LaPresse)

La rabbia di Maria

Giorgia Mecca

Dopo 15 mesi di squalifica Sharapova torna in campo. Chernobyl, la fame, la solitudine. Perché resta la più grande tennista russa di sempre

I bambini cominciano a giocare a tennis per le domeniche pomeriggio di inizio luglio, il silenzio di Wimbledon e le finali sul campo centrale, il tie break tra Borg e Mc Enroe nel 1980, il quinto set tra Federer e Nadal nel 2008. Giocano a tennis per la terra rossissima di Parigi e per quella di Roma, il dritto di Steffi Graff, l’autobiografia di Andre Agassi e il rovescio di Amelie Mauresmo, per Venus e Serena Williams; per il profumo che hanno le palline appena le apri, per il rumore che fanno ogni volta che incontrano le corde di una racchetta. Maria Sharapova ha cominciato a giocare a tennis per Chernobyl e per la fame. Era il 26 aprile 1986 quando la centrale ucraina esplose provocando il più grave disastro nucleare della storia. A Gomel, cento chilometri di distanza dal luogo della strage, la terra diventò improvvisamente infertile, piena di scorie radioattive; le donne abortivano senza motivo, chi poteva faceva le valigie e scappava il più lontano possibile. “E noi qui che cosa facciamo?”, chiese Yelena a suo marito Yuri Sharapov. Aveva appena scoperto di essere incinta e non voleva che sua figlia nascesse in un posto dove non cresceva più nemmeno l’erba. Maria Sharapova è nata il 19 aprile 1987 in Siberia, a Njagan, un luogo di cui ricorda il freddo infernale e nient’altro. Pochi mesi dopo, a Londra, Martina Navratilova avrebbe vinto il suo ottavo titolo a Wimbledon. Yuri e Yelena, però, in quei giorni avevano altro a cui pensare, dovevano sopravvivere. Quando loro figlia compì due anni decisero di trasferirsi a Sochi, sulle rive del Mar Nero. “Maria, ti piace il tennis?”, le chiese un giorno suo papà mettendole in mano una racchetta grossa quasi quanto lei. La bambina non sapeva bene cosa rispondere, ma non aveva importanza, Yuri aveva già deciso, sua figlia sarebbe diventata una tennista. Il problema era capire con quali soldi. Maria, intanto, con la racchetta grossa adattata alle sue mani piccole, tirava palline su palline contro ogni muro che le capitava vicino, come tutti i bambini del mondo. Aveva talento. Martina Navratilova un giorno guardandola giocare suggerì a Yuri di portarla lontano se voleva fare di lei una campionessa. Gli fece il nome di Nick Bollettieri, il padre padrone che costruiva le carriere del tennis del futuro nella sua accademia dorata in Florida. “E dov’è la Florida?”. “Dall’altra parte del mondo”. Appena riuscirono a mettere da parte un po’ di soldi Yuri e Maria partirono, Yelena non aveva ottenuto il permesso per entrare negli Stati Uniti e così padre e figlia si ritrovarono soli; settecento dollari nel portafogli, una lingua sconosciuta, milioni di facce estranee che dicevano cose incomprensibili e ogni sera un nodo in gola, la nostalgia della mamma. Chi glielo aveva fatto fare? La fame, appunto.

  

Quando scoprì di essere incinta, sua madre non volle farla nascere a Chernobyl. Prima la fuga in Siberia, poi gli Usa con suo padre

Bussarono alla porta di Nick Bollettieri. “E’ troppo piccola, provate a tornare tra due anni”, risposero appena la videro. Maria non si sentiva né stanca né scoraggiata; continuava a crescere e a giocare, diventava sempre più alta, sempre più bella. Due anni dopo ritornarono da Bollettieri con un assegno della società statunitense IMG, che aveva deciso di finanziare l’avventura di un padre e della sua bambina obbediente. Questa volta le porte dell’Accademia si spalancarono. Maria non parlava con nessuno e riempiva i suoi diari segreti con pensieri chiari e semplici: “Voglio vincere; voglio che il mio papà sia orgoglioso di me”. Era questione di anni. Guardandola giocare nei suoi “campi di prigionia nobilitati”, come li aveva definiti una volta Andre Agassi, Bollettieri, che ogni giorno vedeva sfilare centinaia e centinaia di giovani e fanatiche promesse, aveva notato in quella bambina silenziosa qualcosa di diverso da tutti gli altri: “Maria sarebbe capace di piegare in due un chiodo di acciaio, se lo volesse”. Ma non era forza la sua, era rabbia, solitudine e freddo, tutto il passato ingoiato e scolpito in mezzo alle ossa. Il 4 luglio 2004, a soli diciassette anni, Maria Sharapova entrò sul campo centrale di Wimbledon per giocare la prima finale Slam della sua carriera. Dall’altra parte della rete la stava aspettando Serena Williams, la tennista più forte del mondo. Fu un’ora e mezza di poca classe e molta adrenalina: l’istinto contro la potenza, la sintesi perfetta di ciò che stava diventando il tennis femminile moderno. Maria portava un crocifisso al collo e stringeva i pugni tra le mani; non aveva paura, non ne aveva mai avuta. Le piaceva il tennis? Era una domanda che aveva smesso di farsi molti anni prima. Quel giorno, mentre prendeva a schiaffi le palline con tutta la forza che aveva in corpo, Maria pensava come al solito a Chernobyl e alla fame. Pensava a suo padre e ai piatti che aveva dovuto lavare per mantenere i loro sogni, a quanto può mancare una mamma a una bambina di dieci anni, pensava a casa sua, ma aveva il sospetto che casa sua non fosse da nessuna parte. A che cosa serve lo sport? “A farti arrabbiare nel posto giusto, serve a prenderti delle rivincite”. Nadia Comaneci ha risposto così alla giornalista di Repubblica Emanuela Audisio, in un’intervista del 9 agosto 2016. La ginnasta romena vincitrice di cinque medaglie olimpiche nei Giochi di Montreal del 1976 divenne la prima atleta della storia ad aggiudicarsi il massimo del punteggio nella sua disciplina, le parallele asimmetriche. Aveva quattordici anni era alta un metro e cinquantatré centimetri e pesava trentanove chili, mangiava due panini al giorno quando era fortunata e sapeva benissimo il motivo per cui ogni giorno usciva di casa per andare ad allenarsi: la fame, sempre lei. E poi le umiliazioni subite, la miseria antica, la vergogna e tutti quei pensieri neri che ti divorano l’anima quando hai quattordici anni e ti accorgi di essere sola al mondo e di non avere a disposizione nient’altro che la tua rabbia e il tuo dolore. Nessuno si dimentica il passato da cui viene. A volte è una fortuna. Subito dopo avere vinto game, set e match sopra al campo più bello e più verde del mondo, circondata dall’applauso del pubblico, Maria chiese una cosa, una soltanto: voleva un cellulare per poter chiamare sua mamma, per dirle che ce l’avevano fatta, finalmente erano riusciti a vincere qualcosa anche loro. Sharapova divenne così la prima russa a vincere Wimbledon, la terza donna più giovane di sempre dopo Lottie Dod e Martina Hingis. “The next best thing”, la soprannominarono i giornalisti, la cosa migliore che sarebbe successa al tennis del futuro. Da allora trentacinque titoli Wta, tutti i tornei del Grande Slam, due volte il Roland Garros, il primo posto nella classifica mondiale (per il momento è l’unica russa ad esserci riuscita). E poi sponsor, autografi, quindici anni di carriera e milioni e milioni di dollari. “La mia vita è cominciata su un volo diretto verso gli Stati Uniti. Il mio posto era in ultima fila, il sedile più vicino al bagno. Di questo non mi dimenticherò mai”. Ha detto così la tennista russa durante una recente intervista al quotidiano britannico Times. Ha appena compiuto trent’anni e lo ha capito anche lei che la donna che è diventata non è nient’altro che la somma di tutto l’affetto che non ha mai ricevuto da piccola, le porte sbattute in faccia, le favole che non ha mai ascoltato, il dolore fisico della nostalgia.

 

Nick Bollettieri la notò subito tra tutti gli allievi della sua accademia: "Sarebbe capace di piegare in due un chiodo di acciaio, se lo volesse"

Maria Sharapova è una donna che non trasmette alcuna simpatia. Di lei dicono che è fredda, feroce, vendicativa. Dicono che è cattiva, superficiale e piena di rancore. Hanno tutti ragione: ogni volta che glielo fanno notare lei alza le spalle e non prova nemmeno a giustificarsi, sa che sarebbe inutile. Negli spogliatoi saluta sempre tutti e non sorride mai a nessuno. Perché dovrebbe? Il tennis che le ha insegnato suo padre non è mai stato un gioco, no, per lei stare in campo è come chiedere vendetta, l’unico modo per ottenerla è vincere, vedere le sue avversarie perdere. Quando passa tutto il dolore che si prova quando si è bambini? Forse mai. E poi c’era un’altra questione piuttosto ingombrante: Serena Williams. Per diventare una campionessa e fare felice suo papà Maria si era dimenticata di essere un bambina: quanto tempo aveva passato dentro a un campo a farsi massacrare la schiena e le ossa? Quanti milioni di palline aveva colpito in tutti quegli anni? Non era bastato. Ogni volta che partecipava ad un torneo, dall’altra parte del tabellone la aspettavano Serena Williams con tutti i suoi trofei. Doveva diventare la rivalità più bella del tennis femminile, non lo fu mai. L’americana era troppo forte; su ventuno incontri Sharapova ne ha vinti soltanto due, l’ultima volta è successo nel 2004, tredici anni fa. Agli Australian Open del 2016, l’ultima volta che si sono incontrate, il punteggio è stato un perentorio 6-4 6-1; un pugno nello stomaco, un altro.

 

Dicono che è superficiale, cattiva e piena di rancore. Hanno tutti ragione: ogni volta che glielo fanno notare lei alza le spalle

Il 7 marzo 2016 Maria Sharapova ha convocato un’inaspettata conferenza stampa in un Hotel di Los Angeles. “E’ finita”, hanno commentato tutti, pensando che volesse annunciare il ritiro. Invece, vestita di nero, bella e sola come al solito, ha dichiarato di essere stata trovata positiva al meldonium, una sostanza dopante che lei, su consiglio del suo medico, assumeva da dieci anni e che era stato inserito nella lista dei medicinali proibiti dal 1 gennaio 2016. In tutto era stata condannata a ventiquattro mesi di sospensione, poi ridotti a quindici perché, come rilevato dalla Corte arbitrale dello sport “la giocatrice ha agito in buona fede, senza provare a mascherare l’accaduto”. Quindici mesi però sono un’eternità, una pietra sopra a quindici anni di successi.

 

È stata ferma più di un anno, ha perso i punti che aveva, gli sponsor e la classifica. "Per la prima volta in vita mia mi sono sentita libera"

“Il tennis è uno sport che ti divora. I momenti di felicità che ti regala sono troppo brevi per vivere di questo e di nient’altro”. Questo disse Martina Navratilova il 13 novembre 1994 annunciando il suo ritiro. Il tennis ti divora e a trent’anni sei vecchio e l’unica cosa che puoi dire di conoscere davvero è un rettangolo di ventiquattro metri con una rete in mezzo. Troppo poco. Maria Sharapova è stata ferma più di un anno, ha perso tutti i punti che aveva guadagnato, ha perso sponsor e classifica. “Per la prima volta in vita mia mi sono sentita libera”. Eppure non vede l’ora di ricominciare. Il 26 aprile, al termine della sua squalifica, la tennista russa tornerà a giocare nel torneo di Stoccarda che comincia il 24 aprile, e poi Madrid il 5 maggio e Roma il 10. Spera anche di riuscire a ottenere una wild card per poter giocare al Roland Garros e a Wimbledon. “In questi mesi non ha mai pensato che forse sarebbe stato meglio ritirarsi?”, le hanno chiesto in un’intervista uscita sull’edizione spagnola di Vanity Fair. Certo che ci ha pensato, ha risposto lei, e ci pensa ancora, tutti i giorni da almeno due anni. Poi però subito dopo pensa ai chilometri percorsi per arrivare fin lì, alla sofferenza che le si legge in faccia e di cui non parla mai perché chi soffre davvero sa che le parole sono quasi sempre inutili; pensa ai commenti delle sue avversarie, alle urla di disperazione, agli schiaffi che ha preso e che non ha restituito. Il tennis ti divora, questo lo sanno tutti. Maria Sharapova scenderà in campo a Stoccarda invecchiata di un anno, con meno muscoli e meno fiato, ma più rabbia nel corpo. E’ a questo che serve lo sport, a farti arrabbiare nel posto giusto. Dopo anni di silenzi, di obbedienza e di signorsì, la tennista russa ha capito che nessuno avrebbe avuto il diritto di prendere le sue racchette e obbligarla a uscire per sempre dal campo; non dopo tutta quella fame, i piatti sporchi, l’infanzia calpestata, la nausea e la nostalgia, quindici anni di carriera e di dolore.

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