Vinicio Capossela (foto LaPresse)

L'ombra non è cupa

Simonetta Sciandivasci

Uno strumento musicale della tradizione e le canzoni di Vinicio Capossela, che attraverso il folklore del sud è arrivato alle viscere del reale

Gli architetti dello studio NBBJ hanno progettato per Londra due grattacieli che non fanno ombra: quando il primo ne crea una, l’altro ci riflette sopra la luce del sole, come un faro, un soccorso dal buio. Il progetto si chiama No Shadows, niente ombre e serve ad arginare la prima conseguenza di uno skyline infittito da un eccesso di edifici multipiano: il rabbuiarsi delle strade. Ad abbattere l’ombra non pensano solo gli abitanti degli skyline, ma pure quelli, terroni e mediterranei, degli orizzonti: è un’ossessione universale, apparentata non a quella per la vivibilità sostenibile, bensì a quella, decisamente più molesta, per la verità. E’ una tracotanza che dura almeno dal Settecento: già allora, quasi subito, la rese oscurantismo la convinzione che nelle tenebre non ci fosse vista possibile o, peggio ancora, nulla da vedere o imparare, tranne che scaramanzie tribali. Invece, il buio ha il suo sapere e il suo popolo, fatto di clandestini, bestie, creature che intridono la realtà di mistero, la squadernano, la smentiscono, l’abiurano, la sbeffeggiano, l’invertono. La cambiano. Sono le creature della cupa che Vinicio Capossela ha cantato nel suo ultimo disco (Canzoni della Cupa) e inscenato nel suo ultimo tour (“Ombra, canzoni della cupa e altri spaventi”), concluso in Italia lo scorso lunedì, all’Auditorium di Roma (“chissà quale droga ha preso Renzo Piano, io non ci volevo venire qui, volevo un teatrino!”, ha detto sul palco, durante i – quattro – bis, il momento in cui “posso finalmente mandare tutto in vacca: sono dodici ore che non bevo”). Dopo Roma, toccherà all’Europa, con e senza skyline, ascoltare le canzoni della cupa, vederle animarsi sul palco.

 

In tutto il sud Italia, la cupa è uno strumento utilizzato soprattutto dai contadini, semplicissimo da realizzare, ma decisamente raffinato: ha una cassa che è una pentola (così scrisse Carlo Levi in Cristo si è fermato a Eboli) o una scatola di latta o terracotta, o ancora un cilindro, coperti da una membrana di stoffa o – meglio – di pelle di capretto al cui centro è innestata una canna: strofinando la canna, con le mani costantemente inumidite dall’acqua, si produce un suono cavernoso, tetro, probabilmente inquietante, al primo ascolto (ma dipende da dove si è nati: per un lucano la cupa, anzi la cupa cupa, è anche gaiezza, nel materano la si suona durante le matinate, le serenate laiche ad amici e compari che si fanno, tutt’ora, nei giorni di carnevale, accompagnando canti che inneggiano alla salsiccia o, spudoratamente, ne chiedono un pezzo alle “padrone”, perché sono le donne che governano la casa e loro è il governo delle primizie e degli scambi, amicali o no). In Campania, la cupa è il putipù o la caccavella. In Puglia, in particolare nel Gargano, è lo zighede-bù. In Molise è il Bufù.

 

Da dove arriva il padre di Vinicio Capossela (Vito, nome immancabile in ogni famiglia da Roma in giù e da Addis Abeba in su), cioè l’Alta Irpinia (Campania), la cupa è una contrada poco illuminata in cui vive una presenza demoniaca che, quando si mostra, ha le sembianze di un neonato. Le sue creature sono il Maranchino che “ti rode la testa e non ti fa dormire” (e che in Basilicata è u munachicch, lo spiritello dispettoso che non s’impossessa dei corpi, ma li molesta), il pumminale (il lupo mannaro), il Mazzamuriello che scompiglia la casa e resta invisibile, la Malombra che ti afferra se ti affacci sul pozzo (in Basilicata è Manilunghe e ti afferra anche se ti sporgi troppo da una finestra, soprattutto se sei un bambino), le Masciare che s’incontrano nei boschi (e sono spietate se sei una ragazzina prepotente e altezzosa, possono appiccicarti una coda di ciuccio sulla fronte per sempre o, se sei buona e modesta, premiarti con una stella splendente). Tutt’e tutte “chiedono vita e non vogliono cura” e “se ne stanno di là, al mondo de la verità”. In Calabria, ha scritto su questo giornale Bruno Giurato, “il mondo della verità” è il comparto del reale dove stanno i morti o, se preferite, i fantasmi. Vivi e morti, vivi e mostri, spiritelli e preti, maghi e dottori: il folklore meridionale li voleva tutti, guerrescamente e mai artatamente, conviventi. Capossela ha indagato quel folklore, quello dell’antropologia di De Martino, dove la medicina era magia; quello del Cunto de li cunti di Giambattista Basile, dove il bene era selvaggio quanto il male; quello dei canti contadini dove per sopportare la fatica era vitale l’adrenalina dello spavento e l’educazione era ritualità pagana per non risvegliare forze arcane e sinistre. E ne ha tirato fuori le viscere del reale: le narrazioni fantastiche che non hanno morale, né lieto fine, per la semplice ragione che non finiscono, ma aleggiano. Non vogliono cure, le masciare, ma esattamente come le fatine di Peter Pan, muoiono all’estinguersi della credulità, all’illudersi che la realtà sia esterna e luminosa, mentre invece è abisso e intruglio. “Se per caso ti prende il lupo ha il buco nel sacco e ti lascia andare, ti lascia andare ma non tornare a come eri prima non sarai uguale”: addentrarsi nell’ombra è un pericolo per la certezza e mai per la vita. Per questo, vestito da spauracchio e poi da spaventapasseri e poi da fauno e poi da corvo e poi da gallo cedrone, sopra un palcoscenico umbratile su cui i musicisti sono musicanti di Brema e la luce è solo controluce che arriva dal fondo animato di ombre cinesi, Vinicio Capossela invita ad abbandonare il sentiero illuminato, a percorrere quello dismesso, oscuro, insicuro: mettere a repentaglio la verità pulita in cui crediamo ossequiosamente, riconnetterci con le bestie, con la fantasia nata nei posti che non cercavano consolazione, ma identità. Il folklore meridionale è impastato all’epos e alla mitologia greca, ma non ne condivide gli scopi. Non ha l’alterigia del valore da indicare: spariglia tutto.

Capossela ha lavorato a questo disco per anni: ci era già dentro quando ha scritto Dimmi Tiresia (dal disco Marinai, Profeti e Balene del 2011), il meraviglioso dialogo con l’indovino più cool della mitologia classica, che fu uomo e fu donna, venne accecato dalla dea Atena, colpevole di averla vista nuda mentre si faceva il bagno (in un’altra versione, invece, fu Era a privarlo della vista perché aveva osato dire che la donna, nel rapporto sessuale, gode di più) e acquisì così il dono della divinazione, che gli permise di predire a Ulisse, quando scese nell’Ade, alcuni snodi del suo destino. Dalla canzone: “Ma è meglio sapere o non sapere, e non poter più credere, sapere e poi dovere, portare fino in fondo il compito, dimmi Tiresia, è duro profetare, la conoscenza è distanza che separa, la fatica di conoscere è più grande fatica di essere creduti?”. Le creature della cupa lasciano insoluti i quesiti della mortalità, perché non sono divine e non arrivano dall’altro regno, non dialogano con il trapasso, non lo conoscono: non sono immortali, ma amortali. Stanno nel solco tra il sapere e il non sapere: frequentarle, ascoltarle, ammetterle, saperle vedere è l’atto di conoscenza che manchiamo sempre più di fare. Ed è un atto di conoscenza che non porta alla verità assoluta, ma ci avvicina a quella particolare degli uomini, alla sfera del loro scandalo privato, all’accettazione del loro buio, che è radice di bene e male, di spavento ma non di paura.

 

La paura è un blocco, dice Capossela, lo spavento no: è un traino. L’ombra sta in agguato con le sue creature: se abbiamo il coraggio di affrontarla, avremo illuminato quelle creature, ci entreranno dentro, ci allargheranno lo spirito, ci condurranno sopra e sotto, nella luce e nel buio. Per questo le favole di Gianbattista Basile sono popolate di mostri, madri cattive, regine che mangiano cuori di drago per restare incinte, sorelle che si scorticano pur di essere belle: perché lo spavento alleva, ti sta alle calcagna e ti costringe a correre in avanti, anche quando davanti è buio pesto e non si vede niente e si sente ululare quel porco del pumminale. La fabbrica dei mostri di Monster’s & Co. (Pixar) prima sfrutta le urla di spavento dei bambini per produrre elettricità e poi capisce che, molto più dello spavento, frutta energia la felicità. Lo schema dell’uso e abuso non cambia, ma il passaggio da spavento a felicità basta a rassicurare tutti di stare dalla parte giusta, quella dei piccoli, di servire loro un mondo migliore, luminoso, abitato da mostri buoni e divertenti. A proposito di cartoni animati: il cinema di silhouette, senza il quale quello di animazione non sarebbe stato possibile, deve molto all’ombra. La silhouette fu inventata probabilmente da Etiènne de Silhouette, finanziere francese che visse nel Settecento e che, quando finì in disgrazia per essersi inimicato il popolo con un eccesso di gabelle, prese a ritrarre i membri della sua famiglia tracciandone sui muri il loro profilo proiettato da un’ombra cinese, profilo che poi riempiva dipingendolo di nero. Birba d’un finanziere!

 

Tornando alla Pixar, Basile era meno ipocrita: la natura inevitabile delle cose la mostrava per intero. Le creature della cupa, che più che mostri sono eccessi, non hanno parvenze educative da salvare. Il folklore meridionale alleva al diverso, mostra che i brutti, i cattivi, i mostri hanno un regno: a renderli innocui è l’ammissione della loro esistenza, la predisposizione a interagirci ed entrare nel loro spazio, da estranei e non da eroi, da visitatori e non da conquistatori. La Pixar esorta all’esorcismo, la cupa alla convivenza. Il bambino che sa di poter trovare la Malombra nel pozzo, da adulto, forse, più difficilmente penserà di poter costruire un muro oltre il quale esiliare ogni elemento di disturbo alla sua normalità. Il bambino che sa che il pozzo è animato, sarà l’adulto più pronto a capire che scendere nell’abisso significa conoscere. Il popolo che crede al lupo mannaro e quindi alla relazione tra uomo e plenilunio, crede all’impossibilità di un dominio incontrastato dell’uomo sulla natura. “Tu non muti. Sei buia. Sei la cantina chiusa, dal battuto di terra, dov’è entrato una volta, ch’era scalzo il bambino e ci ripensa sempre. Sei la camera buia cui si ripensa sempre, come al cortile antico, dove s’apriva l’alba”, scriveva Cesare Pavese ne La terra e la morte (Poesie del disamore), incantato dall’oscurità della terra: è molto più frequente che la poesia canti la natura assolata, inondata di azzurro e nitidezza ed è forse per questo che i versi di Pavese sembrano un verso da Cupa, un’evocazione di una dimensione ctonia. In verità, il buio è un tratto vivo e concreto della terra: non solo perché è condizione dell’alba, ma perché è il riparo della sua forza, il suo riposo, la sua pace.

“Sono sceso al Pireo”, dice Platone nel primo libro della Repubblica. Lui, il filosofo che nella Scuola di Atene (Raffaello Sanzio per la Stanza della Segnatura, Musei Vaticani) indica il cielo, il pensatore del mondo delle idee che sta sopra il nostro, l’ideatore della metafora della caverna, dell’uscire dal buio per conoscere il reale, persino lui, fa la sua catabasi fuori dall’Acropoli, nel porto abitato da mendicanti, ladri, puttane, scarti ritenuti indegni della democrazia, ad essa inabili. Nell’Atene del V secolo, il Pireo era l’ombra dell’Acropoli.

 

Presentando Lavia il Terribile (Manfredi Edizioni), il volume curato da Anna Testa che raccoglie le foto che Tommaso Le Pera, il più grande fotografo di scena del teatro italiano, ha scattato a tutti i suoi spettacoli (a suo modo, unico al mondo: senza fermare l’azione), Gabriele Lavia ha detto che fare teatro è scendere al Pireo. Inabissarsi. Andare giù e risalire, mutati, per restituire i raggi dell’oscuro, “svelare il velato” (come nell’aletheia greca), non per chiarirlo, bensì per testimoniarlo, sempre di nuovo. “Il compito dell’attore non è essere chiari, ma essere scuri. Il difficile, in teatro, non è fare le luci, ma fare il buio”, ha tuonato Lavia, con la sua voce di cupa cupa. Nel libro, a un certo punto, è scritto: “Sotto i riflettori c’è solo la finzione”. Dopotutto, cantava Battiato, che “i più lievi aneliti del cuore, le gioie del più profondo affetto, la vibrante intesa di tutti i sensi in festa, sono solo l’ombra della luce”.

 

Negli Atti degli Apostoli, si racconta che, camminando per Gerusalemme, San Pietro riusciva a sanare gli infermi stesi ai lati delle piazze semplicemente sfiorandoli con la sua ombra. A Firenze, nella chiesa di Santa Maria del Carmine, è conservato l’affresco che a Masaccio venne ispirato da questo episodio. C’è molta luce, San Pietro procede scalzo, deciso: la sua ombra lo segue, come fa con tutti noi. Finché facciamo ombra siamo vivi: è la sola opposizione umana all’accecamento totalizzante dello Zenith. Il nostro effetto speciale innato. L’impronta che non si cancella. La lezione tascabile sulla fedeltà. Poi si muore e ombre si diventa. E, canta Vinicio Capossela, “all’angelo devi andare, se non da vivo, ci vai da morto, all’angelo devi arrivare, nella grotta che schiaccia il male, tra i vagabondi, vagamundi, schiuma dell’umanità” e “sacerdoti, accattosi, accapponi, affarinati, vergognosi, perdonatori, medicastri, apezzenti, limosinanti simulati”. Ci aspetta la feccia anche lassù (o laggiù, dipende da quanto siete pagani): meglio abituarcisi sin da ora con le creature della cupa.

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