Spartaco, il re degli schiavi

Maurizio Stefanini

Non solo gladiatori. La costrizione, il lavoro, la lotta per la libertà: dall’antica Roma al ’900. Una mostra all'Ara Pacis

Io sono Spartaco!”. Così proclamavano l’uno dopo l’altro gli schiavi ribelli prigionieri nella famosa scena del kolossal di Stanley Kubrick con Kirk Douglas, sfidando l’offerta di Crasso di risparmiare la vita a tutti se identificavano “il corpo o la persona viva dello schiavo chiamato Spartaco”. Il gladiatore che fece tremare l’Urbe è ora di nuovo preso a simbolo in “Spartaco. Schiavi e padroni a Roma”: mostra in corso all’Ara Pacis fino al 17 settembre, con 250 reperti archeologici, 10 fotografie e installazioni audio-video. Non solo gladiatori: anche a schiavi domestici, schiavi nei campi, schiavi sessuali, schiavi professionisti, schiavi minatori, schiavi bambini sono dedicate le undici sezioni del percorso espositivo. Una gerla che il catrame ha conservato nei secoli in una miniera spagnola e che serviva presumibilmente a portare l’acqua sta accanto a catene e collari da schiavi. Tra varie illustrazioni di carattere allegramente pornografico spiccano alcuni curiosi gettoni che sono stati trovati a Pompei, e che illustrano appunto differenti pratiche erotiche con precisione da Kamasutra. Tessere di un misterioso gioco? Oppure gettoni di bordello attestanti l’avvenuto pagamento di quella prestazione?

 

Catene e collari, mosaici e statue: sono 250 i reperti archeologici esposti all'Ara Pacis accanto a quadri, fotografie e installazioni

Sempre da Pompei vengono alcuni resti di schiavi, uccisi nell’eruzione. Schiavi al lavoro appaiono in mosaici, mentre una statuetta ritrae un piccolo lanternarius: un ragazzino addetto all’illuminazione, chiaramente rimbecillito dal sonno. Altre statue indugiano sui tratti esotici di prigionieri provenienti da terre lontane: neri dalla pelle lucida e dagli occhi grandi; barbari irsuti. Non mancano i quadri ottocenteschi. Uno ci mostra Plauto che legge un suo testo ai suoi compagni di lavoro, nel mulino in cui sarebbe stato ridotto in schiavitù per debiti: in realtà oggi gli studiosi ritengono pressoché all’unanimità che la riduzione in schiavitù dello stesso Plauto sia una leggenda, nata da una assimilazione con quei servi bricconi che nelle sue commedie vengono appunto minacciati di quella destinazione; ma il dipinto è di Camillo Miola, artista napoletano vissuto tra 1840 e 1919. Sempre di Miola è un Orazio in villa dove il poeta è abbracciato a una schiava e dalla finestra guarda altri schiavi al lavoro attorno a un’anfora. Ma c’è pure un gruppo di crocifissi, che ci ricorda la punizione dei seimila schiavi che dopo la sconfitta di Spartaco furono fatti appendere da Crasso lungo la Via Appia. Come annota Luciano Canfora in uno dei saggi che accompagnano il Catalogo della mostra, “non si seppe mai dove fosse sepolto il corpo di Spartaco. Questo significa probabilmente che qualcuno volle impedire che il suo corpo venisse esposto lungo la via Appia insieme alle migliaia di schiavi crocifissi. Fare scomparire quel corpo era forse un modo per mantener vivo il mito di Spartaco, altrimenti si dovrà supporre che i vincitori volessero impedire che il luogo della sua sepoltura divenisse meta e oggetto di culto”. In effetti il mito ha sfidato i secoli. Film, sceneggiati, romanzi, graphic novel, la Lega di Spartaco nella Germania di Weimar, le Spartachiadi del mondo comunista, quelle polisportive Spartak che sono rimaste anche nel mondo post-comunista. “Gli storici greci di età imperiale – Plutarco e Appiano, all’inizio e alla fine del II sec. – ci hanno lasciato alcune pagine memorabili sulla guerra di Spartaco: Plutarco ponendo soprattutto l’accento sulla umanità e la saggezza e scaltrezza tattica di Spartaco; Appiano dedicando attenzione all’embrione di organizzazione sociale di carattere comunistico che Spartaco tentò di instaurare nella sua armata e nei territori che veniva via via liberando”, ricorda ancora Canfora. Secondo lui, “sono questi i segni più vistosi del progressivo consolidarsi, anche nel mondo dei ‘vincitori’, del mito di Spartaco nei secoli successivi”. L’“o santo Spartaco, prega per noi” di Johann Gottfried Seume. L’annotazione di Voltaire secondo cui “di tutte le guerre combattute dall’umanità quella di Spartaco fu la più giusta e, forse, la sola giusta”. L’ammirazione di Marx. L’avvertimento su Spartaco come metafora della Rivoluzione che tradisce sé stessa fatta dall’anticomunista ex comunista Arthur Koestler nel romanzo che assieme a quell’altro di Howard Fast fu una delle due fonti per il film di Kubrick.

 

A Spartaco è dedicata la seconda delle undici sezioni. All’inizio, però, si parla delle campagne di conquista che dopo la vittoria nelle guerre puniche misero a disposizione dei grandi latifondisti quella manodopera servile di massa che diede il colpo di grazia al modello di piccola proprietà agricola su cui si era basata la Res Publica, e che i Gracchi avevano cercato invano di salvare. Mutatis mutandis: non è una storia molto simile a quella del lavoro umano oggi in crisi per via della diffusione di robotica e automazione nell’Industria 4.0? Dite che non si può comparare un’economia postindustriale con una preindustriale? Un altro dei saggi che accompagnano il Catalogo sostiene invece che “la schiavitù è stata parte integrante del precoce modernismo dell’Impero romano”. L’autore è Kyle Harper: uno storico del mondo classico con Ph.D. a Harvard che è Senior Vice President della University of Oklahoma e il cui primo libro, pubblicato dalla Cambridge University Press, fu appunto dedicato alla storia della schiavitù a Roma. Secondo lui, “non è sbagliato analizzare i monumenti e le lettere della civiltà romana e percepire che i romani, da certi punti di vista, erano protesi verso la modernità. Raggiunsero significativi livelli di crescita economica reale pro capite, svilupparono avanzati istituti di proprietà e sistemi creditizi che somigliano a quelli del primo mondo moderno per la loro raffinatezza. Costruirono città e reti commerciali stupefacenti”.

 

Nella sua armata e nei territori che liberava, Spartaco tentò di instaurare un'organizzazione sociale di carattere comunistico".

Forse è un’impostazione molto yankee, del paese che si considera un po’ l’erede dell’antica Roma nel mondo di oggi, e al contempo la sintesi tra elemento repubblicano e elemento imperiale che il modello originale non riuscì mai a raggiungere. Comunque grazie a questo approccio Harper ci può spiegare come, lungi dall’essere un tratto arcaizzante, “la schiavitù era legata ai più avanzati elementi della macchina economica romana. In quanto considerava l’essere umano e il suo lavoro come un bene materiale, la schiavitù era amplificata dalle tendenze protocapitaliste dell’economia romana”. “Era incastonata in quelli che riteniamo essere gli elementi più caratteristicamente avanzati del regime romano imperiale, le istituzioni dello stato e le reti commerciali che tenevano insieme l’impero”. Senza gli schiavi difficilmente l’agricoltura avrebbe potuto raggiungere quel livello di coltivazione intensiva necessario a nutrire le popolazioni di un impero che nel suo fulgore contava tra i 50 e i 60 milioni di abitanti. Né il commercio intrecciato le sue rotte e distribuito merci su grande scala. Né l’industria tessile, le fabbriche dei laterizi, la produzione ceramica, le imprese estrattive di cava e di miniera avrebbero potuto far fronte ai consumi delle grandi concentrazioni urbane sorte intorno al Mediterraneo. Persino l’industria oggi detta “dell’intrattenimento”, tra teatro, circo e terme, si reggeva su una larga percentuale di lavoro servile. Peraltro a Roma erano in gran parte esercitate da schiavi anche attività oggi di grande prestigio e gestite da professionisti: non a caso nella mostra ci sono attrezzi da medici e immagini di insegnanti.

 

Comunque, anche allora questa massiccia concorrenza al lavoro tradizionale fu accompagnata da un’ondata di globalizzazione: “Già da un pezzo l’Oronte di Siria si è riversato nel Tevere e ha portato con sé la lingua e i costumi, con i flautisti, le corde oblique, i timpani della propria gente”, è una famosa invettiva di Giovenale che starebbe benissimo sulla bocca di una Marine Le Pen o di un Wilders. Oggi i ceti medi impoveriti rivolgono la loro rabbia a leader populisti che promettono il reddito di cittadinanza: magari tassando il lavoro robotico. Cosa emerse a Roma dopo le guerre civili, se non un nuovo paradigma politico autoritario in cui il potere imperiale ridusse a parvenza le istituzioni repubblicane, ma dando in cambio al popolo dei liberi quel Panem et Circenses le cui risorse erano appunto reperite grazie al lavoro degli schiavi? Particolare inquietante: in cambio del quale i cittadini avevano rinunciato al voto.

 

Agli schiavi romani venivano concesse molte più possibilità di quelle previste dall'ordinamento della Louisiana al principio dell'800"

Il dato “capitalistico” di questo particolare tipo di economia servile è esaminato anche nella terza sezione, sul Mercato degli schiavi. E il percorso termina su Schiavitù e religione: dal rapporto degli schiavi con il culto ufficiale romano all’affermazione del Cristianesimo che proclamò gli schiavi figli di Dio come gli uomini liberi, anche se per molti secoli a venire le chiese si guardarono bene dal chiedere che la schiavitù fosse abolita. “Ciascuno rimanga nella condizione in cui era quando fu chiamato”, scriveva San Paolo nella Lettera ai Corinzi. “Sei stato chiamato da schiavo? Non ti preoccupare; ma anche se puoi diventare libero, profitta piuttosto della tua condizione! Perché lo schiavo che è stato chiamato nel Signore, è un liberto affrancato del Signore!”. Già il fatto che simbolo del nuovo Dio era quella Croce su cui i seguaci di Spartaco erano stati puniti significò che nulla sarebbe più stato come prima.

 

Quella storia, in realtà, non è ancora finita. Accanto ai reperti archeologici, come già ricordato, nella mostra ci sono anche foto. E, ovviamente, non sono state scattate in epoca romana. Una, ad esempio, mostra bambini al lavoro in una fabbrica tessile in Georgia: anno 1909. Un’altra corpi nudi di minatori in una zolfatara presso Caltanissetta: anno 1953. C’è una perquisizione di lavoratori neri pure nudi nel Sudafrica dell’apartheid: anno 1957. Una fila di prigionieri legati durante la Guerra del Vietnam: anno 1967. Una prostituta bambina in Thailandia: anno 1991. Un gruppo di detenuti incatenati ai lavori forzati in Alabama: anno 1995. Uno stagionale africano sdraiato su un giaciglio in un edificio abbandonato vicino a Napoli: anno 2004. Un bambino che prova un difficile esercizio acrobatico in un circo indiano: anno 2007. Assieme a archeologi e storici alla mostra ha infatti collaborato anche l’Ilo, l’Organizzazione internazionale del lavoro. E dall’Ilo apprendiamo che oggi nel mondo ci sono almeno il doppio degli schiavi che vivevano nell’Impero romano: 21 milioni contro 5-6. Certo, il peso relativo è infinitamente minore: l’impero, lo abbiamo ricordato, di abitanti ne aveva 50-60 milioni, mentre la popolazione mondiale oggi è più di 100 volte superiore.

 

 "La schiavitù era legata ai più avanzati elementi della macchina economica romana: le istituzioni dello stato e le reti commerciali

Gli orrori del passato non sono affatto terminati nel mondo di oggi, come ricorda il revival sfacciato della schiavitù proclamato dall’Isis. Né, protocapitalismo a parte, certi valori di oggi appaiono del tutto assenti nel mondo di due millenni fa. A parte le testimonianze su schiavi che facevano professioni qualificate come il medico o il retore, a parte quelli che potevano essere divi dell’epoca come aurighi o mimi o gladiatori, tra i reperti esposti si trova ad esempio una bulla aurea, ambito simbolo di affrancamento. E ci sono bracciali che testimoniano di rapporti tra padroni e schiave che sembravano essere diventati relazioni sentimentali serie. La penultima sezione e anche il saggio sul Catalogo a firma di Egidio Incelli ci spiegano appunto che gli schiavi romani arrivavano abbastanza facilmente alla libertà, e la carota della manumissio era importante per la tenuta del sistema quanto il bastone delle crocifissioni. In un ulteriore saggio Claudio Parisi Presicce e Orietta Rossini ricordano la storia del prefetto Padanio, la cui uccisione da parte di uno schiavo al tempo di Nerone fu punita con l’esecuzione di tutti i suoi 400 schiavi, compresi donne e bambini. Ma Parisi Presicce e Orietta Rossini citano anche le parole di Filippo V di Macedonia: “Quando i Romani affrancano i loro schiavi li ammettono in seno alla loro cittadinanza e consentono loro di accedere alle cariche pubbliche. Grazie a questa politica, essi non hanno soltanto reso più grande la patria, ma sono anche riusciti a inviare colonie in poco meno di settanta località”.

 

Insomma, “la liberalità con la quale i romani concedevano l’affrancamento ai propri schiavi meritevoli e la politica socialmente aperta usata nei loro confronti erano universalmente note anche in antico”. La manumissio, ricorda Indelli, era prevista già nelle Dodici Tavole, redatte alla metà del V sec. a.C.. “Il fatto che i Romani avessero previsto la liberazione dei propri schiavi sin da epoca molto antica non stupisce, dal momento che la città di Roma era nata dalla fusione di gruppi eterogenei, secondo la leggenda per volere del suo fondatore, Romolo. L’integrazione era perciò alla base del successo di Roma come compagine politico-amministrativa, oltre a rappresentare un elemento chiave dei suoi successi militari, resi possibili nel corso dei secoli dalla grande disponibilità di risorse umane”.

 

Anche se nel mondo romano mancava “la minima concezione di quelli che oggi consideriamo diritti fondamentali dell’uomo e del cittadino”, comunque “agli schiavi venivano concesse molte più possibilità di quelle previste, ad esempio, dall’ordinamento della Louisiana statunitense al principio del XIX secolo. La legge americana, al contrario della giurisprudenza imperiale, riteneva che alcuni individui nascessero schiavi per natura, facendo leva su un elemento, quello razziale, del tutto irrilevante negli ordinamenti di Roma”.

Di più su questi argomenti: