Papa Francesco (foto LaPresse)

Il rivoluzionario Francesco

Matteo Matzuzzi

Il catechismo dirompente del Papa davanti al dramma della modernità

No, comunista Francesco non lo è, e pazienza se i carri carnevaleschi in giro per l’Italia abbiano sostituito la falce e il martello alla croce nel bastone pastorale proprio del Pontefice, sul cui capo è stato appoggiato pure il berretto rossonero del Che. L’immagine ha colpito, tanto da finire pure sul Financial Times, non proprio la gazzetta dei circoli sedevacantisti sparsi qua e là sul pianeta. Se ne sarà forse convinto pure il multimilionario Ken Langone, che un paio d’anni fa minacciava Timothy Dolan, arcivescovo di New York, di non sganciare più neppure un dollaro per il restauro della cattedrale metropolitana di St. Patrick. Troppo hard la predicazione del vescovo di Roma, troppo lontana dai paradigmi che a quelle latitudini per tre decenni erano abituati a sentire. Di certo non contribuì a rasserenare gli animi quanto disse in un’intervista poi divenuta libro (“Il Papa del popolo”, Lev) il mentore di Jorge Mario Bergoglio, il teologo argentino e padre gesuita Juan Carlos Scannone, che cercando di scacciare i dubbi su un presunto antiamericanismo proprio del pensiero del Pontefice regnante disse che “non si tratta di avere riserve sugli Stati Uniti in quanto tali, ma sugli Stati Uniti in quanto potenza egemonica. Il Papa non appoggia l’egemonia, da qualunque parte essa provenga”.

 

Insomma, se non c’è alcuna velleità filocomunista (dopotutto lo si diceva pure di Giovanni XXIII e persino di Paolo VI, anche se in questo caso si preferiva edulcorare la faccenda parlando di semplice “sinistra”), sulla rivoluzione si può discutere. “Intanto diciamo che rivoluzione è una parola talmente abusata che a ripeterla si rischia di andare fuori strada cercando di contestualizzare tutto”, premette il professor Loris Zanatta, storico delle Relazioni internazionali dell’America latina presso la facoltà di Scienze politiche dell’Università di Bologna. “Sento molti sinceri ammiratori del Papa, persone colte e intelligenti, che non a caso preferiscono definirlo un grande riformatore. Ma Francesco non è un riformatore né ha una visione riformista del mondo. Bergoglio è un rivoluzionario”.

 

Non bisogna pensare a rivoluzioni del sistema, ai viri probati cui pure il Papa sta pensando – si tratta dell’eventuale ordinazione di uomini adulti, anche sposati, di provata fede, per supplire alla carenza di clero nelle più sperdute regioni del mondo. In certe zone dell’Amazzonia, ad esempio, l’eucaristia può essere celebrata poche volte all’anno, essendoci neppure trenta sacerdoti per quasi settecentomila fedeli. Né si deve subito pensare alla curia ribaltata e trasformata in una sorta di bonbon di cristallo, trasparente come neppure la Piramide mitterrandiana del Louvre. No, il Papa “è un rivoluzionario secondo quanto questo termine significa nell’immaginario del cattolicesimo latinoamericano. Qui, il termine rivoluzione altro non è che la forma secolarizzata della redenzione. Francesco – prosegue Zanatta – ha una visione apocalittica del mondo, al cospetto della quale propone una rivoluzione. Lui non è votato al compromesso, ma vede il mondo in modo manicheo”. E questo va di moda, piace, crea consenso – che non è solo quello mediatico, del “Papa pop” o dei gadget con il profilo radioso del vescovo di Roma venduti nei posti più improbabili. Il punto è un altro: “Nell’immaginario collettivo, nel sistema di valori delle persone, c’è una grande voglia di semplificazione. Questa realtà è troppo complessa, così si finisce per apprezzare le semplificazioni estreme che hanno una potenza evocativa straordinaria”. Di esempi se ne trovano a bizzeffe, basta prendere in mano un qualunque discorso letto o pronunciato a braccio dal Papa. Il professor Zanatta non va a scavare negli archivi, preferisce tornare indietro di poche settimane, alla conversazione con gli studenti universitari di Roma Tre. Francesco consegna il testo preparato per l’occasione e improvvisa. Parla della disoccupazione giovanile, della mancanza di lavoro che può portare alla dipendenza da droghe, all’arruolamento tra le file jihadiste o al suicidio. Rimarcando poi uno dei suoi cavalli di battaglia prediletti, lo squilibrio esistente nel rapporto economico tra il nord e il sud del mondo. “Leggendo quei passaggi, a me è venuta in mente la teoria della dipendenza che andava di moda nell’America latina degli anni Sessanta e Settanta. E cioè la contrapposizione tra il ricco cattivo e il povero buono”, tra – per citare le parole di padre Raniero Cantalamessa, predicatore della Casa pontificia – il ricco Epulone e il povero Lazzaro. Nord contro sud, ricchezza contro povertà. “Una visione un po’ âgée che però ha prosperato in quello specifico contesto dove è cresciuto e si è formato Bergoglio”. Diciamolo pure, “è una visione che stimola il vittimismo e la deresponsabilizzazione. Si sente dire sempre che le istituzioni non funzionano, che nulla funziona ma che non è colpa nostra. Al contempo, dall’altra parte del mondo, si sviluppa il senso di colpa, favorito anche da letture come ‘Le vene aperte dell’America latina’ di Eduardo Galeano, da anni e di gran lunga il libro sull’America latina più venduto in Italia. Vittimismo allo stato puro, ma capace di rappresentare un immaginario potentissimo”.

 

L’obiezione è che il Papa, in realtà, non dica nulla di nuovo. Che ogni sua parola si può trovare sfogliando la Bibbia, e basterebbe appunto trattare quest’ultima come fosse il proprio smartphone, consultandola e portandola sempre in tasca, per accorgersene. Insomma, la vera rivoluzione sarebbe questa: fedeltà assoluta e semplice alla Parola di Dio, che come noto non uscì dalla bocca di Karl Marx o del da poco defunto comandante Fidel. E le critiche al mercato, dunque, altro non sarebbero che la naturale contestualizzazione del messaggio cristiano alla situazione contingente. “Certo, è una possibile lettura del Vangelo, ma non è che gli altri Papi il Vangelo lo tradissero o non lo conoscessero. E’ che purtroppo il richiamo al Vangelo elimina subito ogni forma di dibattito”, continua Zanatta. “Il magistero di tutti i pontefici ha fatto riferimento ai Vangeli, ma non tutti ne hanno dato la medesima lettura. Quando Francesco parla del mercato, sembra parlare del demonio, un po’ come i preti una volta parlavano del sesso. Nei suoi interventi, e quello a Roma Tre lo conferma, l’economia di mercato è un male in quanto tale”.

 

Voglia di semplificazione, diceva Zanatta. Un termine che torna sovente nelle parole del sociologo Luca Diotallevi. “Se guardiamo alle apparenze, Bergoglio è sicuramente un innovatore, benché non siano rari i casi in cui viene frainteso, visto che soprattutto in Italia consideriamo di sinistra elementi che in realtà derivano dal peronismo, che sinistra non è. Scavando un po’ più a fondo, però, si comprende che in realtà questo Papa non rappresenta altro che il terzo tentativo consecutivo di dare una risposta al dramma di Paolo VI, alla sua grande e grave domanda rimasta ancora senza risposta”. La chiesa immersa nell’umanità, che va incontro a profonde trasformazioni, si legge al punto 28 dell’enciclica Ecclesiam suam, il programma del pontificato paolino: “L’umanità in questo tempo è in via di grandi trasformazioni, rivolgimenti e sviluppi, che cambiano profondamente non solo le sue esteriori maniere di vivere, ma altresì le sue maniere di pensare”, scriveva Montini nel 1964: “Il suo pensiero, la sua cultura, il suo spirito sono intimamente modificati sia dal progresso scientifico, tecnico e sociale, sia dalle correnti di pensiero filosofico e politico che la invadono e la attraversano. Tutto ciò – proseguiva il Papa – “come le onde d’un mare, avvolge e scuote la chiesa stessa: gli animi degli uomini, che ad essa si affidano, sono fortemente influenzati dal clima del mondo temporale; così che un pericolo quasi di vertigine, di stordimento, di smarrimento può scuotere la sua stessa saldezza e indurre ad accogliere i più strani pensamenti, quasi che la chiesa debba sconfessare se stessa ed assumere nuovissime e impensate forme di vivere”. Ecco, “qui c’è tutto il dramma del cattolicesimo moderno, qui c’è tutta la grandezza di Paolo VI, che poi è la grandezza della tradizione cattolica lombardo-trentina”. Il problema è che nessuno, a oggi, ha saputo rispondere a questo dramma, secondo Diotallevi: “C’è la difficoltà di tenere un livello alto di complessità anche per grandissimi teologi come, ad esempio, Von Balthasar e De Certau. Il primo rischia di diventare il teologo dei movimenti, mentre il secondo il teologo della testimonianza di una fede vivissima e inaccostabile. Ecco, direi che Francesco è un po’ figlio di questa siutazione”. Parlare di rivoluzione, dunque, rischia di spostare il baricentro del problema. “Il fatto è che oggi essere chiesa richiede una complessità (interiore ed esteriore) che se non viene ben istruita potrebbe finire col produrre un cristianesimo elitario, per pochi. Paolo VI, nel 1964, lo spiegò benissimo come mai più è accaduto successivamente. Da allora sono prevalse sempre scorciatoie, da Wojtyla a Ratzinger fino a Bergoglio. Anche il parlare continuamente del popolo, non nel senso della varietà data dalla sussidiarietà orizzontale e verticale del popolarismo bresciano in cui si formò  Montini, altro non è che una semplificazione”. Semplificazione di successo, considerata l’ampia adesione di cui gode tale strategia pastorale. Che poi, sottolinea il sociologo, “e prescindendo da quelle che possono essere le intenzioni, il suo impatto può creare uno scostamento dall’insieme dei conflitti che interessano non solo la chiesa, ma pure il mondo”.

 

In questa ricerca della semplificazione è allora possibile perfino trovare una convergenza “oggettiva e non programmatica” tra Francesco, Donald Trump e Putin. “Non deve stupire tutto questo”, sottolinea Diotallevi, che aggiunge: “Quante volte abbiamo sentito dal Papa parlare ai movimenti popolari esaltando le tre ‘t’, tierra, techo e trabajo? Ecco, sono cose che ha detto Bergoglio, ma che in realtà sono proprie di Peron. Ma la stessa cosa avrebbero potuto dirla Vladimir Putin, Donald Trump o Marine Le Pen”. Insomma, Francesco rappresenta un’altra variante della ricerca di una soluzione un po’ meno complessa rispetto alla domanda posta da Paolo VI. Sono tutte soluzioni che si attestano su un piano inferiore, e nell’osservare questo non c’è alcuna mancanza di rispetto. Pure De Certau non ha retto la ricerca di questa complessità”.

 

Una puntualizzazione necessaria: “Non è che a Bergoglio manchino gli elementi, è che la sfida è grande”. Che poi venga strattonato di qua e di là, a destra e sinistra, è vero. “Destrutturalizzando la chiesa e la dottrina è poi più difficile dire se sei o meno discepolo della Teologia della liberazione, tanto per fare un esempio. Francesco salta la mediazione ecclesiastica e si dà in pasto all’opinione pubblica”. Viene in mente il peronismo, “che è una struttura complessa e fraintesa, che mette insieme Cristina Kirchner e Maradona. E’ un movimento paternalista e autoritario”. La vera rivoluzione, dice Diotallevi, sarebbe la revisione del ministero petrino, la sua riduzione: “Il Papa che va al Laterano, cioè che manda in frantumi la piramide che ha portato il vescovo di Roma a stare non nella sua sede naturale ma a San Pietro. Cosa difficilissima, sia chiaro. Però questo è il tema, altro che trasferimento a Santa Marta, che pure è buona cosa”.

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  • Matteo Matzuzzi
  • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.