William Hamilton, “Maria Antonietta condotta al patibolo”, 1794 (Vizille, Museo della Rivoluzione francese)

Le vie della ghigliottina

Antonietta che fu frivola a corte ma regina sul patibolo

Marina Valensise

Dopo aver setacciato gli archivi e riportato alla luce fatti e personaggi inediti, Emmanuel de Waresquiel ricostruisce in un saggio avvincente gli ultimi giorni della vedova di Luigi XVI. E ne svela la tempra straordinaria

Maria Antonietta di Lorena d’Austria aveva solo trentotto anni, ma ne dimostrava ottanta, quando salì sul patibolo in una mattinata di sole, vento e pioggia improvvisa. Era il 16 ottobre del 1793. La vedova del re di Francia Luigi XVI, anzi di Luigi Capeto re dei Francesi, ghigliottinato il 21 gennaio dello stesso anno, ebbe anche lei diritto a un processo sommario, che durò tre giorni. Apparve in tribunale alle nove di mattina di lunedì 14 ottobre, percorrendo pochi passi dal piano terra della Conciergerie, dov’era detenuta in completo isolamento da più di due mesi, al primo piano dove si trovava la Sala della libertà, così ribattezzata dopo che la giustizia rivoluzionaria aveva spodestato quella regia con tutti i suoi simboli. Aveva l’aria smunta, lo sguardo triste e assente, gli occhi grigio-azzurri velati da rassegnata malinconia, ma il passo e il portamento conservavano una grazia divina. La vedova Capeto era vestiva di nero in segno di lutto, e aveva tutti i capelli bianchi.

 

La canizie improvvisa era apparsa, secondo alcuni, nell’estate del 1789, quando il figlio primogenito, malato di tubercolosi, era morto alla vigilia dell’apertura degli Stati generali, che in nome della sovranità nazionale avrebbero rovesciato la monarchia di diritto divino. Altri invece sostenevano che fosse l’effetto dei lunghi mesi di prigionia al Temple, dove la regina era stata rinchiusa col re, la cognata e i due figli, dopo che l’insurrezione parigina e l’invasione delle Tuileries nell’agosto 1792 avevano provocato la caduta della monarchia e l’instaurazione della repubblica. Chiamata a comparire in tribunale, doveva rispondere di accuse gravissime: tradimento, cospirazione, intelligenza col nemico. L’accusavano di aver disposto di fondi segreti per assoldare una rete di agenti stranieri, di aver foraggiato il nemico con invio di danari in Austria in tempo di guerra, di aver manipolato il marito come una marionetta, di averne organizzato la fuga a Varennes per permettergli di risalire sul trono, di aver tramato per assassinare la metà dei rappresentanti della nazione.

 

Non solo volevano minare la sovrana, ma umiliare la donna e la madre, perpetrare una sorta di tirannicidio morale per liquidare la regalità. Perciò venne accusata persino di crimini sessuali ai danni del figlioletto di otto anni, rinchiuso con lei al Temple, ma affidato per ordine della Convenzione al calzolaio Simon, un sanculotto fanatico ligio agli ordini dell’estremista Hébert, e già zelante commissario della Comune insurrezionale del 10 agosto, tanto da essere raccomandato da Marat per prendere in consegna il piccolo Capeto e curarne l’educazione, anzi la rieducazione, per farne un uomo nuovo, mondo delle scorie del passato e dell’aborrita regalità. Maria Antonietta si difese con dignità, senza abdicare al senso innato di orgoglio e al suo rango. Rispose a tutte le domande con prudenza e fermezza, sventandone le insidie, correggendo qualche data, facendo attenzione a non compromettere nessuno. “Il mio intento non è la negazione, ma la verità che ho detto e che persisterò nel dire”, obiettò ai giudici. Cercò di schivare le accuse più fantasiose: “Un conto è consigliare di fare una cosa, altro è farla realizzare”. Ma quando l’interrogatorio cadde sul tema hard, restò allibita. L’accusatore Hébert, altra canaglia inferocita che da anni denunciava “la louve autrichienne” e la corruzione della corte, evocò varie peripezie della vita dissoluta dell’ex sovrana, e prese a parlare di “polluzioni indecenti” del piccolo Capeto, spiegando che vi era stato iniziato dalla madre e dalla zia, sino a sferrare poi il colpo finale: “Risulta che le due donne lo facessero spesso dormire tra di loro, e che allora si commettessero atti della lascivia più sfrenata, di cui non si potrebbe nemmeno dubitare, perché il figlio Capeto ha detto che ci fu un atto incestuoso tra la madre e lui”. Hébert , oltranzista radicale, cercò pure di argomentare: era convinto infatti che l’ex sovrana perseguisse il fine machiavellico di “snervare il fisico” del figlio, per dominarlo meglio.

 

E sosteneva che l’accusa era fondata sulla testimonianza fornita (o meglio estorta) dallo stesso figlioletto, un bambino di otto anni che in realtà, per la ferita a un testicolo, aveva preso l’abitudine di toccarsi, e soprattutto aveva sin da piccolo il vizio di ripetere a ogni piè sospinto tutto quello che sentiva dire intorno a sé. “L’enfer est sur la terre”, scriverà Madame de Staël, la figlia dell’ultimo ministro di Luigi XVI, l’egeria liberale, che sarà una delle poche a prendere le difese dell’ex regina, lanciando un mese prima del processo un appello alla compassione della donna, della madre, della moglie. Maria Antonietta in aula fu talmente scossa da quell’accusa che finse di non sentire, e quando uno dei giurati tornò alla carica, reagì senza nemmeno considerarla: “Se non ho risposto, è che la natura si rifiuta di rispondere a un simile atto di accusa rivolto a una madre. Mi appello a tutte quelle che possono trovarsi qui”, disse rossa in volto, facendosi scappare una lacrima. “Facile far dire a un bambino di otto anni tutto quello che si vuole”. Quel giorno, si arrivò quasi a una svolta in suo favore. I quindici giurati ebbero un sussulto. Ma il fatto è che sin dall’inizio fu una partita persa per Maria Antonietta. Il verdetto, anche se le prove mancavano o erano lacunose, era scontato: iscritto nella logica di una frattura insanabile, di un contrasto incomponibile tra due mondi e tra due opposte concezioni del mondo. Da un lato c’era lei, l’ex sovrana, che non capiva cosa stesse accadendo, e giudicava la rivoluzione come un insieme di malintesi, un complotto di una banda di faziosi e forsennati. Dall’altro lato i rivoluzionari, che consideravano l’ex regina come il cuore pulsante del complotto, l’artefice stessa della cospirazione che fomentava la guerra civile all’interno e la minaccia straniera sul fronte esterno. Di questo processo assurdo e però esemplare, che segna l’origine tragica della democrazia francese, pensavamo di sapere tutto: come si arrivò a quella sentenza che avrebbe dovuto consacrare la nuova sovranità del popolo, legittimando per via giudiziaria la repubblica nata dal terrore, mentre finì solo per accelerarne la fine; in quali circostanze e in quale contesto avvenne il processo – la Francia rivoluzionaria in guerra contro vari nemici, le potenze straniere, gli insorti della Vandea, i federalisti a Lione e Marsiglia, mentre Tolone era in mano agli inglesi, e il Terrore che imperversava con arresti, requisizioni, imposte forzose, controllo dei prezzi, e la legge dei sospetti che dal settembre 1793 seminava la paura ovunque, trasformando ogni individuo dissenziente, ogni aristocratico, ogni prete refrattario in un nemico del popolo e della rivoluzione: “Se ridevi ti accusavano di approfittare delle difficoltà della Repubblica, se piangevi di rattristarti dei suoi successi. A ogni momento i soldati entravano dentro le case per scoprire complotti e cospirazioni”, ricorderà Grace Dalrymple Elliott, un’amica inglese del duca d’Orléans, sfuggita per un pelo alla ghigliottina. Pensavamo di conoscere tutte le procedure, i trucchi, i protagonisti del processo contro Maria Antonietta.

 

Pensavamo non ci fossero più misteri. E invece no. La ricostruzione affidata agli atti ufficiali del tribunale rivoluzionario creato nel marzo 1793 (processi senza appello, giurati che si esprimono ad alta voce e all’unanimità, in due anni 2.747 condanne a morte) aveva permesso di chiarire la logica della giustizia rivoluzionaria, la dinamica di uno scontro inesorabile tra due rappresentazioni del potere opposte e però simmetriche, visto che la nuova sovranità popolare attingeva all’assolutismo della monarchia di diritto divino, per rinnovarlo su altre basi come l’ateismo, la scristianizzazione, il culto dell’Essere supremo, la religione della legge astratta e impersonale. Ma restavano da chiarire i dettagli infimi e però essenziali per ricomporre l’intero puzzle e restituire la verità di questa tragica pagina della storia d’Europa. Ignoravamo per esempio le miserie umane, le vicende a tinte fosche, i tanti casi della vita che nel giro di un mese, di un anno, potevano trasformare un ciabattino, un falegname, un liutaio in un despota assoluto, in grado di decretare la vita o la morte dei suoi simili, per servire la giustizia rivoluzionaria e diventare alfiere di un’irresistibile palingenesi.

 

Non cercate di capire il male, avvertiva già sant’Agostino, è come guardare il buio della notte o ascoltare il silenzio. Duecento anni dopo, c’è voluto uno storico ostinato come Emmanuel de Waresquiel, libero battitore col fiuto di detective, per restituire la verità di quel processo e tutti i pezzi mancanti del puzzle. In un saggio avvincente come un romanzo d’appendice (Juger la reine, 360 pagine, 22,50 euro, Tallandier editore), dove la storia scivola di continuo nella letteratura e la tragedia presta il fianco al romanzo, Waresquiel racconta l’esistenza di tanti personaggi secondari il cui destino si intreccia con quello di Maria Antonietta, magari per un giorno, per un’ora, per una ciocca di capelli, o per un anello, per una lettera mai recapitata o per due orecchini come quelli destinati e mai recapitati alla “cittadina Laborde”, alias Louise de La Borde, una delle più vecchie amiche della regina, incarcerata a più riprese, moglie di quel cavaliere di Jarjayes, il fedelissimo che invano cercherà di organizzare un finto rapimento per liberare l’ex sovrana, e madre di Laure Hinner, la quale sposerà un certo Gabriel de Berny, diventando il grande amore di Honoré de Balzac. Così dalle pagine di Waresquiel spuntano fuori i quattro giudici col loro presidente Herman, vecchia famiglia dell’Artois, amico di Robespierre; l’accusatore pubblico Fouquier-Tinville, che morirà sul patibolo l’anno dopo; i quindici giurati, di cui lo storico francese, massimo esperto del loro dante causa Fouquier, fornisce per la prima volta la lista completa, che include due liutai, un violinista, un miniaturista, un cesellatore sul bronzo, un falegname, un carpentiere, un cappellaio, un parrucchiere, un avvocato, un ufficiale giudiziario… Fra loro spicca il chirurgo regicida Joseph Souberbielle, uomo per tutte le stagioni, l’unico di cui resta un dagherrotipo.

 

E’ il medico personale di Fouquier e di Robespierre, cura Maria Antonietta alla Conciergerie, ma è convinto che meriti di morire. Alla Restaurazione, oserà addirittura presentarsi alle Tuileries, facendo svenire la duchessa di Angoûleme, figlia di Maria Antonietta e unica sopravvissuta al Temple. E poi c’è l’enigma del pittore Claude-Louis Châtelet, ovvero il morso del beneficato, che ispirerà ad Anatole France il personaggio di Evariste Gamelin in Les Dieux ont soif: negli anni spensierati del Petit Trianon, costui era uno degli artisti favoriti di Maria Antonietta, si era imbarcato per l’Italia con Vivant Denon, ma con la rivoluzione diventa un giacobino fanatico, lacerato tra salvezza e perdizione, convinto che il trionfo della giustizia avrebbe reso gli uomini migliori. Anche lui morirà sul patibolo dopo la caduta di Robespierre. Ci sono i testimoni, in tutto una quarantina, che Waresquiel riesuma dall’ombra: vecchi aristocratici come il marchese di Gouvernet, l’eroe della Guerra dei sette anni, che restò in silenzio, o come il conte di La Tour du Pin, che si rivolse all’imputata con tutti i riguardi di un tempo. Entrambi ghigliottinati l’anno dopo. Oppure figure pusillanimi, come il conte d’Estaing, che prese parte alla Guerra di indipendenza americana, ma non avendo ottenuto il grado di maresciallo, disse parole amare e piene di risentimento. E poi ci sono i difensori, Claude François Chauveau-Lagarde, e Guillaume Tronson du Coudray, figli della borghesia di toga e dei commerci, filorivoluzionario il primo, più riservato il secondo: sono abili, eloquenti, intrepidi, come segnalerà Collot d’Herbois preoccupatissimo.

 


  

Jean-Emmanuel Van den Bussche, “Il pittore David ritrae Maria Antonietta condotta al patibolo”, 1793 (Vizille, Museo della Rivoluzione francese)


 

Avvocati d’ufficio vengono reclutati dopo che la Convenzione fa arrestare, e l’anno dopo condannare a morte, i fratelli Nicolaï, che si erano candidati per difendere Maria Antonietta. Ma non hanno nemmeno il tempo di studiarsi i capi d’imputazione, perché la Convenzione respinge la richiesta di rinvio avanzata dalla stessa Maria Antonietta. Parlano in piena notte, due ore il primo sulla collusione con i nemici stranieri, un’ora e un quarto il secondo sulla cospirazione interna. E anche qui Waresquiel fa miracoli: distrutta l’arringa di Tronson, tira fuori dagli archivi gli appunti manoscritti di Chauveau, che insiste da penalista sulle prove e però le prove mancano, anzi sono di una “ridicola nullità” e denuncia la dimensione politica del processo. Arrestato dopo l’arringa, Chauveau resterà in carcere fino a Termidoro, ma si salva dalla ghigliottina, facendo appello al pregresso patriottismo. Tronson invece riprende a lavorare dopo la caduta di Robespierre, ma si rifiuta di difendere il terrorista Carrier, autore delle noyades nella Loira, inventando lo slogan del Direttorio o l’impossibile oblio della violenza. “Riusciremo a essere liberi senza essere degli assassini”. Viene eletto al Consiglio degli anziani, ma dopo il colpo di stato antimonarchico di Fruttidoro, finisce vittima della “guillotine sèche”: deportato in Guyana, muore di febbre putrida nel 1798. E infine ci sono gli amici, i complici, i fedelissimi di Maria Antonietta come il cavaliere di Jarjayes, i pronti a tutto e gli innamorati come il conte Fersen, lo svedese che sembra uscire da una favola dei fratelli Grimm.

 

Per ricostruire la trama della loro vita, Waresquiel, finalmente libero da altri pensieri (ha alle spalle una serie di fondamentali biografie di gran successo, su Talleyrand, sul duca di Richelieu, su Fouquier, l’ex seminarista massacratore di Lione e poi ministro della Polizia durante e dopo il Terrore, che l’ha messo sulle tracce della manovalanza di sanculotti disperati di cui pullula il libro), indulge all’autofiction e parla di sé in prima persona. Racconta per esempio l’impressione di ritrovarsi da solo, nel silenzio plumbeo della cella in fondo al corridoio al piano terra della Conciergerie, dove Maria Antonietta passò settanta giorni in attesa di giudizio. Fu lì, in quel loculo angusto, umido e senza luce, che Waresquiel ebbe l’idea della reclusione come costante nella vita della regina. La reclusione come filo rosso che segna l’intera esistenza dell’arciduchessa d’Austria, figlia di Maria Teresa d’Asburgo imperatrice, da quando nel 1770 mise per la prima volta piede in Francia a quando salì sul patibolo in place de la Révolution, pestando il piede del boia Sanson. Promessa sposa dell’erede al trono, Maria Antonietta approdò in Francia a 14 anni, su un isolotto del Reno, si svestì degli abiti di arciduchessa per quelli di delfina sotto una tenda tappezzata con scene tratte dal ciclo di Giasone – le nozze con la figlia di Creonte, la vendetta di Medea, sposa ripudiata, che dà fuoco ai palazzi e sgozza i bambini – “esempio del matrimonio più spaventoso mai consumato”, scrisse Goethe.

 

E non poteva trovare un auspicio peggiore per le nuove nozze regali. Reclusa nella corte di Versailles e nelle sue perfidie, intrighi, menzogne, trappole, costrizioni. Reclusa in un matrimonio di stato, frutto del rovesciamento delle alleanze voluto da Choiseul, che perse l’incarico di ministro degli Esteri poco dopo quell’unione quantomai infelice tra due adolescenti incompatibili. Lui, il futuro Luigi XVI, è un marito apatico, freddo, anaffettivo, autistico, che parla poco o niente, ingrassa a vista d’occhio, e dorme in un’altra camera. Lei è una fatina di Schönbrunn, gentile, affabile, piena di fascino, desiderosa di piacere e con lui si annoia. “Le pauvre homme”, come lo chiama in una lettera alla madre, la infastidisce e le deve fare anche un po’ pena, preso com’è dalle sue cacce e dalle sue serrature. Reclusa infine durante la rivoluzione: con il sequestro e il trasferimento forzato a Parigi dopo la marcia popolare a Versailles nell’ottobre 1789, la fallita fuga a Varennes, la guerra, e poi l’insurrezione, l’invasione delle Tuileries e infine la detenzione al Temple. Eppure, questa è la tesi di Waresquiel, sarà proprio nell’enfermement che Maria Antonietta trova se stessa.

 

La ragazzina frivola, la svampitella tutta merletti e sciarade che si era fatta costruire il Petit Trianon e si preoccupava solo di piacere, finirà per assumere sino in fondo il suo ruolo, riuscendo a incarnare la dignità regale sino all’estremo, in uno sforzo sovrumano di prudenza e autocontrollo, di riserbo e dominio di sé. “I francesi non hanno mai capito Maria Antonietta”, dichiara Waresquiel, che ne spiega la singolarità insistendo anche contro Stefan Zweig sulla sua tempra straordinaria, sull’originalità, sul coraggio e sulla folle coerenza interiore. Accanto a lei, si staglia la figura di un altro grande incompreso, Axel de Fersen, altro eroe da romanzo, venuto dalle brume del nord e perciò “impenetrabile allo spirito latino”. Militare svedese, di religione luterana, bello come un angelo, il conte Fersen era un uomo discreto, riservato, padrone di sé, “un animo ardente sotto una scorza di ghiaccio”, scrisse di lui la baronessa de Korff. L’unico amante di Maria Antonietta sfuggito alla propaganda giacobina, alle persecuzioni dei pamphlet, non verrà mai interrogato da Herman e da Fouquier-Tinville. Eppure al Trianon disponeva di tre stanzette, sopra lo studiolo di Maria Antonietta. Pur essendo al centro dell’attenzione, ebbe l’accortezza di restare sempre in secondo piano,“cosa in effetti non molto francese”, chiosa Waresquiel, che da aristocratico cosmopolita ne riscrive l’intero romanzo d’amore con la sua “Carte du tendre”: gli anni spensierati a Versailles, la cristallizzazione nel 1783, il progetto e il tentativo di fuga della famiglia reale, la carrozza da lui fornita all’uopo, una pesante berlina verde che egli dovette abbandonare a Bondy.

 

Fersen, anima della rete straniera, sarà l’uomo che spinge il re di Svezia a prendere le difese di Luigi XVI, che progetta lo sbarco russo-svedese in Normandia, che va a Vienna per cercare di convincere l’imperatore a difendere i diritti della zia Maria Antonietta e della sua famiglia prigioniera al Temple. Fersen l’eroe romantico, inconsolabile, finirà i suoi giorni nella sua Stoccolma, preso a sassate da una folla inferocita che all’indomani della morte del re di Svezia teme voglia impossessarsi del trono. Lascerà una ventina di lettere scritte dopo la rivoluzione (quelle anteriori furono bruciate). Pubblicate nel 1870, gli originali vennero acquistati dagli Archivi nazionali nel 1982, ma solo di recente i vari strati di inchiostro sono stati sottoposti a una serie di test chimici che hanno permesso di decifrarne le cancellature e riportare alla luce sentimenti forti e non comuni. “Esisto, mio ben amato, ed è per adorarvi”, gli scrive Maria Antonietta dopo il fallimento della fuga a Varennes. ”Addio, non mi giudicate, morirei se venissi disapprovata dall’essere che adoro e che non smetterò mai di adorare”. E ancora: “Finirò non senza dirvi che vi amo alla follia e che non posso stare un momento senza adorarvi”.

 

Poche tracce di passione fisica tra i due, troppo riserbo, glossa Waresquiel. Ma la fiamma dell’amore resta accesa, malgrado la freddezza per la scoperta di un altro legame, e arde sempre, soprattutto al Temple, quando Maria Antonietta nella primavera del 1793 affida al fedelissimo Jarjayes un ultimo messaggio per il suo “grande amico”: un anello che portava alla sinistra col sigillo dello stemma del conte svedese, un pesce volante con un motto in italiano: “Tutto a te mi guida”. L’anello è scomparso, forse trafugato dai commissari della Comune che in settembre arrivano alla Conciergerie. Fersen però non aveva bisogno di prove per continuare nel suo sogno d’amore… e alla sorella confessa: “Da questo instante, non vivo più, non è vita esistere come faccio io, e soffrire tutti dolori che provo. Se potessi ancora agire per liberarla, mi sembra che soffrirei meno, ma non poter fare nient’altro che sollecitare è spaventoso”. Ed era un’anima gelata.