Ristoranti e pizzerie italiani cominciano a spuntare accanto ai casermoni di Facebook e Google. La grande novità adesso è Panino Giusto, a due passi dalla sede di Apple

I paninari della Mela

Michele Masneri

Trent’anni dopo lo sbarco di McDonald’s in Italia, sono gli italiani a dare da mangiare alla California di Apple

San Francisco. Trent’anni dopo l’apertura del primo McDonald’s a Roma, gli italiani vanno alla nemesi paninara d’America. Adesso il panino italico sbarca infatti negli Usa, ma non nella classica New York bensì in Silicon Valley. E se gli italiani non saranno dei grandi startuppari, l’enogastronomia è pur sempre il nostro petrolio, come dice lo statista Dibba, e la Silicon Valley la stanno conquistando non con le app ma a fette di prosciutto. Primari ristoranti e pizzerie cominciano a spuntare accanto ai casermoni di Facebook e Google, in un ecostistema che pare più che altro una distesa tra Brescia e il lago di Garda, con capannoni uffici fabbriche, solo che qui si fa il futuro, e non il tondino (altra differenza, non ci sono le rotonde immaginifiche). Da “Donato” a Redwood City vanno i venture capitalist, a mangiare risotto e bere Barbaresco d’Angelo Gaja; al “Terun”, pizzeria di fascia alta inventata con branding spiritoso dai fratelli quarantenni di Scalea Franco e Maico Campilongo, che scorrazzano per la valle con la loro Fiat Cinquecento elettrica, c’è vera pizza col forno a legna, e soprattutto la possibilità di vederla mangiare a Mark Zuckerberg di Facebook e Tim Cook di Apple.

Ma adesso la grande novità è proprio a Cupertino, capitale morale della Valle, accanto ai campus Apple (guai a chiamarli uffici, anche se quelli attuali sono abbastanza anonomi e non troppo distanti dalla Megaditta fantozziana, in attesa del sibaritico nuovo campus anulare disegnato da Norman Foster). Qui sorgerà, anzi è già sorto da un mese Panino Giusto, epitome di milanesità in purezza, e ora avamposto siliconvallico della storica catena nata a Milano nel 1979, sacra ai Paninari e alla Milano da bere, e che adesso ha scelto proprio Cupertino, per placare gli appetiti dei 13.000 travet della Apple che andranno a occupare il nuovo gigantico anello di Foster (e mangiano proprio come noi umani). Così si parte, per Cupertino, con uscite dell’autostrada “mitiche”, Palo Alto, Berkeley, Mountain View, e poi eccoci per ora di pranzo nel centro del paesotto, tutto nuovissimo – questi villaggi della Silicon Valley sono tutti uguali, plasticosi, sembrano tutti un po’ l’outlet di Valmontone, con la banca, l’ufficio dello sceriffo, il negozio di piatti e cristalleria un po’ “su”; il Panino Giusto campeggia qui in mezzo ed è già pieno di trenta-quarantenni che azzannano panini e compulsano soprattutto dei giganteschi prosciutti esposti in una teca. I nuovi paninari 2.0 non hanno niente in comune coi loro predecessori, non hanno le Timba né il Moncler, e chissà se sapranno ciò che succedeva ere geologiche fa in San Babila, dove già operava il Panino Giusto popolato di sfitinzie e squinzie (sempre trent’anni fa, nel 1986, i Pet Shop Boys dopo una visita a Milano incisero l’indimenticato e ipnotico “Paninaro”, mentre lo stesso anno a Roma si consumava la rivolta di piazza di Spagna per l’apertura del primo Mac, con lo stilista Valentino che denunciava l’azienda, non tollerando gli effluvi di fritto, e Claudio Villa e Bracardi che portavano in effigie Clint Eastwood, “You should be our mayor”, dovresti essere tu il nostro sindaco. Eastwood era infatti sindaco di Carmel, California, e aveva scacciato i fast food dalla città.

 

 

Adesso si torna in California, con invasioni opposte (ma senza fritti), e, corsi e ricorsi, i paninari 2.0 della Valley sono però piuttosto molto attenti alle materie prime, ossessionati dal caffè e dal panettone italiano (mania culinaria dell’anno, anche il presidente eletto vi dedica dei tweet), tutto “sustainable” e “organic”, e ora guardano questi prosciutti che costano oltre mille dollari cadauno, status symbol supremi oggi come allora un piumino Naj-Oleari o Henry Lloyd. Il prosciutto è infatti rivoluzionario e esotico almeno coma la Apple delle origini, il prosciutto è “think different”. “Per quanto riguarda la frutta e la verdura non ci sono problemi, ma sugli insaccati è un incubo” ci dice Elena Riva, proprietaria insieme al marito della catena Panino Giusto dal 2010 (brianzola, ha lavorato prima a Electa, poi nel marketing, infine si è buttata insieme al marito romano in questa avventura rilevando la catena sei anni fa). “Gli americani sono molto incuriositi dal prosciutto, devi vedere che facce fanno quando qualcuno lo disossa, in cucina”, ci dice. Il problema è che il prosciutto – che nessuno sa pronunciare, dicono “presiutto” o “brosiudo” – viene “importato in America e poi sottoposto ad americanizzazione, con aromi e conservanti vari", e il risultato è che anche pagandolo carissimo, in supermercati micidiali tipo Whole Foods, si compra sempre una specie di sindone da scarpa salatissima e mummificata, un pastrami risuolato e secco. “E poi devi vedere come lo tagliano!” ci dice Grace King, simpatica signora di Hong Kong che è a capo di Panino Giusto in America (sul perché Hong Kong, si dirà tra poco). “Spesso così!”, e fa il gesto con le dita la signora cinese che ormai si intende di insaccati e manicaretti italici più di un Carlo Cracco.

La signora King, che nasce programmatrice, una carriera tra Compaq e Hp, a un certo punto incrocia il magnate dei ristoranti di Hong Kong Aaron Suen, che è il partner di Panino Giusto per l’estero, e lui la mette qui a sovrintendere. Suen ha scoperto l’esistenza della panineria italiana qualche anno fa in vacanza in Sardegna al Cala di Volpe. “Volevo andare a pranzo ma non trovavo niente che costasse meno di duecento euro, così ci siamo imbattuti nel Panino Giusto di Porto Cervo”, ci dice al telefono da Hong Kong, e “ci siamo tornati tre volte di fila”, poi “tornati in America, tra le varie riunioni non riuscivamo a trovare niente di simile, ci sono solo sandwich dai gusti molto comuni, molto cheap; ci siamo chiesti, perché non fare un posto come quello?”. Allora Suen ha indagato sulla catena milanese, ha provato a contattarli ma loro non se lo sono filato molto, alla fine lui gli ha mandato dei biglietti aerei e li ha praticamente sequestrati, portandoli a Hong Kong, dove poi insieme hanno aperto due punti vendita (in arrivo altri tre), e a Tokyo (tre, che diventeranno presto sette). Un altro punto vendita a Londra e poi l’America, partendo proprio da qui. “Silicon Valley è il centro del mondo”, dice Suen, “volevamo essere qui, tra i protagonisti, vicino ad Apple. E poi qui c’è un grande vuoto di buoni ristoranti, la gente va a San Francisco per mangiare, la scena culinaria qui è noiosa e anche gli chef non vogliono venire, non c’è glamour, non ci sono celebrità, tutti vogliono stare a Los Angeles”. Quindi l’esperimento qui, e poi magari altri punti vendita in East Coast, a New York”, dice Suen, che è anche partner di Grom, il gelato renziano, a Hong Kong.

Siamo dunque qui a Cupertino (mentre entrano dipendenti Apple, li riconosci per il badge bianco con mela blu) a discutere di prosciutto di Langhirano con una signora cinese, è il bello della globalizzazione, mentre arrivano dei piatti di assaggi, mortadella, prosciutto, salame di Felino. L’insaccato rimane il tema vero: i prosciutti, 170 cosciotti l’anno, arrivano via Parma-Parigi-San Francisco con voli Air France, perché l’Italia è l’unico paese G8 a non avere un volo diretto con la Silicon Valley, dunque stagionano un altro po’ negli scali, e soprattutto vengono sottoposti a controlli bestiali da parte della Fda, l’autorità alimentare. E fin qui bene. “Ma devi vedere la bresaola”, mi dice Elena Riva. “La bresaola della Valtellina li fa andare fuori di testa, gli americani, non ne vogliono sapere, perché non ha additivi, conservanti, e non è cotta, quindi per loro è un oggetto misterioso, e ne proibiscono l’importazione, mentre in Canada è legale” (si ipotizzano viaggi fuori porta per feticisti della bresaola, tipo gita a Chiasso del salume). Il salume comunque piace da morire, e tanti chiamano per farsene mettere da parte due o tre etti, dice Grace King; ma se il prosciutto rimane il core business alla base dei panini più venduti, qui, come il “Tartufo”, con crudo stagionato a Langhirano 24 mesi, Brie, pomodoro, rucola, olio tartufato d’Alba, altri puntano su affettati ancora più hipster: “C’è un nostro cliente già affezionato che chiama per farsi mettere da parte la mortadella, tagliata spessa, che poi passa a ritirare”, dice Grace, tipo commendator Angeloni del “Pasticciaccio brutto di via Merulana”, però con incarico ad Apple e non al ministero.

Qui a Cupertino si vende non solo il panino, infatti, ma anche il prosciutto, e il parmigiano reggiano 24 mesi, l’olio di oliva umbro, tutto marchiato Panino Giusto e questo sarà insomma una specie di anti Eataly (si dice che il gruppo di Farinetti doveva venire in Silicon Valley ma poi ha rinunciato perché il prezzo al metro quadro è troppo alto, mentre qui il magnate Suen aveva già dei terreni), “loro sono bravissimi”, dice Elena, ma “sono un grande contenitore di cose italiane, noi ci teniamo alla nostra indipendenza”. A coordinare l’invasione mondiale paninara, il Panino Giusto ha una sua brigata estera, una specie di diplomazia parallela tipo Eni, che qui si palesa in due ventenni: il “Maestro del Panino”, che è un po’ l’ambasciatore, è un responsabile esperto che viene mandato in una sede estera a coordinarla per un po’, avviandola, formando il personale; nello specifico ne fa le veci Lorenzo Panda, detto il Panda, ha ventiquattro anni, è di Caserta, ma viene dal quartier generale paninaro milanese. E’ qui insieme al suo vice, Antonino, pure lui ventiquattrenne. “Ho iniziato in San Babila”, dice, poi si è candidato nella legione straniera del panino, “sono stato a Hong Kong e poi qui, quando ho saputo che c’era questa possibilità della California; la Farnesina del Panino gli ha offerto corsi di inglese specifici e lui da perito elettrotecnico è finito qui, sulla West Coast. Lorenzo è orgoglioso, “non facciamo la pizza, qui, non facciamo la pasta, portiamo solo l’eccellenza del panino italiano”, dice; soprattutto portano un altro classicone italiano, il tiramisù, e qui nasce tutta una questione perché il Panda, non solo ha votato No al referendum (“ma che ci posso fare, ho un papà comunista”, appunto dovevi votare Sì!), è pure sostenitore del tiramisù col pavesino, “lo facciamo solo noi”, dice, mentre noi si è filologici pro savoiardo, anche se una cugina bresciana lo fa col pavesino ed è buono, ma un’altra cosa, un po’ più semifreddo.

Poi il tiramisù arriva, ed effettivamente è un tiramisù perfetto, seppur con pavesino, dunque più compatto. “I Pavesini li compriamo su Amazon, qui, perché non esistono in America”, dice Grace, anche lei anti savoiardo. “Ne abbiamo comprati talmente tanti che Amazon dice che non sono più disponibili (consiglio a startuppari italiani, mettete su un import-export di Pavesini, invece di pensare agli algoritmi). Intanto, dalla stessa Amazon vengono qui dei dipendenti in pausa pranzo, e l’azienda si è attrezzata per venire a prelevare i panini col sistema Prime che consegna poi in un’ora a chi lo vuole a domicilio (ma non ancora coi droni, anche se vedere i prosciutti di parma volanti sarà uno spettacolo, un giorno non lontano). “Utilizziamo lo stesso fornitore di Apple di insalata e frutta e verdura, che fa lo stesso giro la mattina”, dice Elena Riva, e la concorrenza dev’essere forte perché la mensa di Apple è leggendariamente buona, con cucina internazionale, mentre qui intorno, posti buoni per mangiare pare pochi: c’è una bisteccheria Alexander, molto tradizionale, un Peets coffee, niente di che insomma. Pare un bacino di clientela interessante. La scelta non è stata casuale.“Io avevo studiato a Berkeley, poi ci sono tornata in vacanza varie volte in California”, dice Elena.

Antonio Civita, il marito, invece è romano, della Massimina; aveva una ditta di impiantistica a Roma, ora nella Capitale hanno due ristoranti, tra cui l’ultimo da poco aperto in Prati, a piazza Cavour. “Un giorno ha aperto un Panino Giusto davanti a casa nostra a via Malpighi, a Porta Venezia. Abbiamo pensato che fosse un segnale. Abbiamo aperto dei locali in franchising e poi nel 2010 abbiamo rilevato il marchio”, dice Elena; marchio all’epoca un po’ decotto, dunque hanno cambiato il logo, tolto gli stemmi nobiliari, e quell’aria da pub inglese che andava molto negli anni Ottanta, in accordo con le calze Burlington e panini british come il Montagu (il nostro preferito, col roast beef, che per fortuna è ancora in menu). Poi hanno puntato sull’italianità: i menu sono gli stessi nei negozi di tutto il mondo, gli arredi, dai mobili ai piatti e bicchieri, pure. Investito sulla formazione, con una Accademia del Panino, e panini “disegnati” da chef fondamentali, e un’età media dei 350 dipendenti di 23 anni. E naturalmente pagato lo scotto alla temperie gourmande e alla chef-celebrity: c’è il panino-archistar, il Madras “disegnato” da Claudio Sadler, doppia stella Michelin, che prevede: fesa di tacchinella al forno, maionese al curry di Madras, songino e pomodoro, mandorle tostate e pop corn di riso venere. E poi “facciamo anche delle zuppe, di zucca, un minestrone” dice Grace, pronunciando “ministroni”, con il kale, il da noi bistrattato cavolo nero, qui superfood onnipresente in grado di sconfiggere qualunque invecchiamento o malattia, mania alimentare del momento in California, e soprattutto tra i magnati della Silicon Valley, dove alligna come la rucola degli anni 15. E chissà cosa avrebbero pensato della temperie salutista i paninari duri e puri, quelli che cantavano “Wild Boys”, e adesso si buttano sugli antiossidanti.

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