Comunque la si pensi, i cinque dubia non attengono a questioni periferiche o naïve della vita cristiana. Sono temi concreti, perfino centrali (foto LaPresse)

La fronda vaticana

Matteo Matzuzzi

Quali disagi e quali contestazioni si nascondono dietro il documento di rottura inviato a Papa Francesco dai quattro cardinali. Non proprio una opposizione ma poco ci manca

Quattro cardinali allo scoperto, chissà quanti la pensano allo stesso modo ma preferiscono stare nell’ombra, coperti. Chi temendo punizioni più o meno esemplari, chi per cosiddetto senso di responsabilità (e passi lo scivolamento su terminologie del politichese reso attuale dalle consultazioni quirinalizie), chi ancora – più semplicemente – per carità di patria. I fatti: Walter Brandmüller, Raymond Leo Burke, Carlo Caffarra e Joachim Meisner lo scorso settembre hanno inviato una devotissima e filiale Lettera al Papa con allegati cinque dubia, vale a dire cinque domande inerenti l’esortazione post-sinodale Amoris laetitia, prodotto ultimo del doppio Sinodo sulla famiglia celebrato in Vaticano tra il 2014 e il 2015. Domande sì complesse ma esposte secondo lo stile delle proposizioni di norma avanzate alla congregazione per la Dottrina della fede, e cioè articolate in modo che la risposta sia semplice: Sì o No. Altra via di scampo non è prevista, se non quella di evitare di rispondere. Ed è proprio ciò che ha scelto di fare Francesco. Eppure i quattro cardinali avevano usato un registro moderato e perfino diplomatico: “Vogliamo aiutare il Papa a prevenire nella chiesa divisioni e contrapposizioni, chiedendogli di dissipare ogni ambiguità”, scrissero. Ma da Santa Marta solo silenzio.

Da qui la decisione di rendere pubblico il documento. “Abbiamo interpretato questa sua sovrana decisione come un invito a continuare la riflessione e la discussione, pacata e rispettosa. E pertanto informiamo della nostra iniziativa l’intero popolo di Dio, offrendo tutta la documentazione”. Apriti cielo. Da quel dì, è stato un volar di stracci come da decenni non si vedeva dalle parti del Vaticano. Il tutto fomentato dal massiccio uso (e abuso) dei social network, che hanno amplificato uno scontro vivo e vero, che il refrain solito e banale che riduce il tutto a semplice dialettica perché “tanto-la-continuità- c’è” non ha potuto frenare. “Vogliamo sperare che nessuno ci giudichi, ingiustamente, avversari del Santo Padre e gente priva di misericordia. Ciò che abbiamo fatto e stiamo facendo nasce dalla profonda affezione collegiale che ci unisce al Papa, e dall’appassionata preoccupazione per il bene dei fedeli”. Sarà anche così, sta di fatto che la Lettera ha aperto una sorta di vaso di Pandora, alimentando un confronto talmente aspro da risultare incontenibile. Al punto che il cardinale Peter Turkson, prefetto del nuovo dicastero per il Servizio dello sviluppo umano integrale, ha proposto di portare dubbi proposte e perplessità su Amoris laetitia in pubblico, tra la gente e i preti, tra i teologi e gli esperti.

Aprire le porte, insomma. Come aveva già chiesto, chissà se profeticamente, il cardinale Reinhard Marx, arcivescovo di Monaco di Baviera e capo dei vescovi tedeschi che ancor prima che il Sinodo partisse, pochi giorni dopo il disvelamento al Sacro collegio della magna relatio kasperiana, prodromo della rivoluzione annunciata, auspicava che il dibattito uscisse dalle severe aule vaticane e dalle ristrette e spesso elitarie cerchie teologiche. Comunque la si pensi, i cinque dubia non attengono a questioni periferiche o naïve della vita cristiana. Sono temi concreti, perfino centrali: è per caso divenuto possibile “concedere l’assoluzione nel sacramento della penitenza e quindi ammettere alla santa eucaristia una persona che, essendo legata da vincolo matrimonio valido, convive more uxorio con un’altra?”. Oppure, “l’espressione ‘in certi casi’ dell’esorazione Amoris laetitia può essere applicata a divorziati in nuova unione, che continuano a vivere more uxorio?”. Punto secondo: “Continua a essere valido l’insegnamento dell’enciclica di san Giovanni Paolo II Veritatis splendor fondato sulla Sacra scrittura e sulla tradizione della chiesa, circa l’esistenza di norme morali assolute, valide senza eccezioni, che proibiscono atti intrinsecamente cattivi?”. Terzo: “E’ ancora possibile affermare che una persona che vive abitualmente in contraddizione con un comandamento della legge di Dio, come ad esempio quello che proibisce l’adulterio, si trova in situazione oggettiva di peccato grave abituale?”. Quarto: “Dopo le affermazioni di Amoris laetitia sulle circostanze attenuanti la responsabilità morale, si deve ritenere ancora valido l’insegnamento dell’enciclica di san Giovanni Paolo II Veritatis splendor secondo cui le circostanze o le intenzioni non potranno mai trasformare un atto intrinsecamente disonesto per il suo oggetto in un atto soggettivamente onesto o difendibile come scelta”?. Quinto e ultimo, ancora sulla Veritatis splendor, che è il vero nocciolo della questione: “E’ ancora valido l’insegnamento secondo cui è esclusa un’interpretazione creativa del ruolo della coscienza?”. Dopotutto, si precisa, Veritatis splendor “afferma che la coscienza non è mai autorizzata a legittimare eccezioni alle norme morali assolute che proibiscono azioni intrinsecamente cattive per il loro oggetto”. Da qui s’è scatenato il diluvio, con stracci volanti in pubblico tra monsignori e cardinali, decani della Rota romana pronti a invocare la revoca della berretta per i quattro dubitanti (non dubbiosi) e commenti uditi in San Pietro di porporati che definivano “congiurati” i quattro (confratelli, dopotutto) rei d’aver posto le domande al Papa. Giudicati “pensionati” in cerca d’autore senza nulla da perdere, in realtà hanno un profilo che racconta ben altro.

Il più esposto, da sempre, è Raymond Leo Burke, ora patrono del Sovrano ordine di Malta ma prima prefetto del Supremo tribunale della Segnatura apostolica e gran consigliere di Benedetto XVI per quanto atteneva alle nomine episcopali negli Stati Uniti. Joachim Meisner è stato per ventisei anni arcivescovo di Colonia, dopo aver ricoperto carica analoga a Berlino per otto anni. Anche lui faceva parte della stretta cerchia ratzingeriana, come conferma anche il fatto che il Pontefice bavarese si rifiutò sempre di accettarne le dimissioni per raggiunti limiti d’età (Meisner fu sostituito da Francesco nel 2014, quando era già ottantunenne). Carlo Caffarra, arcivescovo emerito di Bologna, professore e primo preside del Pontificio istituto Giovanni Paolo II per studi su matrimonio e famiglia. Walter Brandmüller, insigne storico della chiesa, presidente emerito della Pontificio Comitato di Scienze storiche. “Sono solo quattro, noi siamo più di duecento”, s’è affrettato a ridurre il problema a polemica sterile il cardinale brasiliano Cláudio Hummes, già prefetto della congregazione per il Clero e stretto collaboratore del Papa (è lui che ha suggerito a Jorge Mario Bergoglio, nel chiuso della Sistina, di prendere “Francesco” come nome pontificale). Tutti sono con il Papa, ha aggiunto Hummes, derubricando il caso a battaglia fuori tempo massimo di un manipolo di conservatori rigidi e chiusi al nuovo vento di misericordia.

Se però il livello della contesa è arrivato alla contabilità estrema – quattro contro duecento – è facile comprendere come il clima sia assai rovente e che dietro i dubia si celi qualcosa di ben più grosso e movimentato; una partita che guarda già al dopo Bergoglio tra chi vuole mettere il piede sull’acceleratore della svolta, propiziando aperture ancora maggiori rispetto a quelle proposte e avviate da Francesco, e chi invece è deciso a fare del Pontefice argentino una parentesi, un momento di passaggio come più volte è accaduto nella bimillenaria storia della chiesa, da archiviare nel breve o medio periodo. Per comprenderlo è sufficiente osservare quanto si muove nelle conferenze episcopali nazionali, soprattutto quelle che più hanno pesato nel biennio sinodale. In questo senso, un intervento che non è passato inosservato è stato quello di mons. Jan Watroba, presidente del Consiglio per la famiglia della combattiva Conferenza episcopale polacca. Poche settimane fa, il presule si è schierato dalla parte dei quattro cardinali, definendo tutt’altro che “riprovevole” la loro iniziativa e interpretandola come “espressione di una preoccupazione per la corretta comprensione della dottrina di Pietro”. Con la chiosa finale che deve essere stata notata assai bene in Vaticano: “Io, personalmente forse per abitudine ma anche con profonda convinzione, preferisco un’interpretazione tale (come era solito fare Giovanni Paolo II) dove non c’era bisogno di commenti o interpretazioni del magistero di Pietro”.

Il Papa tace perché ha già parlato, ha fatto sapere padre Antonio Spadaro, direttore della Civiltà Cattolica e conoscitore come pochi altri delle dinamiche di Santa Marta, data la sua vicinanza al Papa. Per lui parla sì Amoris laetitia, ma soprattutto il dibattito sinodale, con le relative risultanze e votazioni e deliberazioni. Altro da aggiungere non c’è. E sia chiaro, ha aggiunto Spadaro in un commento per la Cnn, il dibattito è benvenuto e sacrosanto. A patto, però, che sia “leale e motivato dal bene della chiesa”. Altro discorso è se le rimostranze giungono da chi usa “la critica per altri fini” o pone “domande per creare difficoltà o divisioni”. Chi è andato oltre, nei commenti, è stato il decano della Rota Romana, mons. Pio Vito Pinto, che dalla Spagna, oltre a ipotizzare che il Papa possa privare del cardinalato Brandmüller, Burke, Caffarra e Meisner (una sorta di riedizione dell’affaire Pio XI-Louis Billot degli anni Venti del secolo scorso, quando il cardinale francese sostenitore dell’Action française condannata dal Pontefice fu ricevuto in udienza da Papa Ratti e ne uscì pochi minuti dopo senza berretta, anello e croce pettorale), ha accusato i quattro di aver commesso “uno scandalo molto grave”. Pinto, giurista incappato pure in qualche defaillance – si ricorda ancora l’“eccetera” con cui si chiudeva, nel motu proprio Mitis et misericors Iesus l’elenco delle circostanze che possono consentire la trattazione della causa di nullità matrimoniale – osservava che “questi quattro cardinali, come altre persone della chiesa che pongono in dubbio la riforma del Papa Francesco e la sua esortazione apostolica Amoris laetitia, stanno discutendo due sinodi dei vescovi sul matrimonio e la famiglia. Non un sinodo, ma due! Uno ordinario e l’altro straordinario. Non si può dubitare dell’azione dello Spirito Santo!”.

E comunque, ha aggiunto, “il Papa non ha risposto direttamente a questi quattro cardinali, ma indirettamente ha detto loro che essi vedono solo bianco o nero, quando nella chiesa, invece, ci sono varie sfumature di colori”. A pensarla all’opposto è stato, su questo giornale, il professor Stanislaw Grygiel, docente di Antropologia filosofica al Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per studi su matrimonio e famiglia di Roma, allievo e amico di Karol Wojtyla e poi suoi stretto consigliere: “Tanti uomini sperano che sia dato anche a loro di ricevere la risposta di Pietro. Ci sono tanti che desiderano uscire dall’incertezza della situazione in cui vivono, aiutati però dalla fiamma della verità e non dalla fioca luce della compassione offerta dai pastori. Non li potrà aiutare la parola di alcun altro, soprattutto la parola di un qualche laico (nemmeno se fosse un “esperto” del pensiero del Papa), a liberarsi dai turbamenti morali. Il laico che si provasse a farlo commetterebbe peccato d’arroganza e di vana presuntuosità”, aggiungeva Grygiel: “Dobbiamo aspettare la parola di Pietro. Solo lui ha ricevuto da Cristo il comando di confermare i fratelli nella fede. Un giorno udremo da lui la parola attesa. La presenza di Pietro nella Chiesa non cesserà mai di essere attuazione delle parole rivolte da Cristo a Pietro prima che Lo tradisse: “E tu, una volta ravveduto, conferma i tuoi fratelli” (Lc 22,32).

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  • Matteo Matzuzzi
  • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.