Jorge Edwards. Lo scrittore, oggi 85enne, nel 1999 ha ricevuto il premio Cervantes. E’ stato a Roma per presentare il suo ultimo libro, “La ultima hermana”

Il mio nemico Fidel

Maurizio Stefanini

Parla Jorge Edwards. Scrittore e diplomatico, è stato tra i primi a smontare il mito e la revolución di Castro. Una vita da ribelle

Fidel Castro è stato un mito, nel mondo intero. Forse quelli che gli hanno creduto di meno sono stati i sovietici, che conoscevano bene i meccanismi di fabbricazione dei miti nell’universo stalinista”: a parlare è Jorge Edwards, a sua volta uno dei primissimi a smascherare l’idolo cubano delle sinistre. Scrittore, critico letterario, giornalista e diplomatico, doppia cittadinanza cilena e spagnola, l’85enne Edwards ha ricevuto una ventina di premi letterari, tra cui nel 1999 quel Cervantes che è come un Nobel per la letteratura in lingua spagnola. E’ considerato uno dei massimi esperti di Pablo Neruda, di cui fu amico e con cui lavorò all’ambasciata cilena a Parigi. Sempre nella capitale francese, Edwards fu in amicizia con i tre iniziatori del boom letterario latino-americano: il peruviano Mario Vargas Llosa, il colombiano Gabriel García Márquez e l’argentino Julio Cortázar. La sua fama, però, è dovuta soprattutto al fatto che è riuscito a far arrabbiare prima Fidel Castro, poi Augusto Pinochet e infine Michelle Bachelet. “Sono stato fidelizzato, pinochetizzato e bacheletizzato: ammetto che non è stato facile”, confessa ridendo al Foglio. Diplomatico e letterato considerato vicino alla sinistra anche per quella amicizia con Neruda, nel dicembre del 1970 Edwards era stato inviato a Cuba dal governo di Salvador Allende con il grado di ministro consigliere e incaricato d’affari e la missione di riaprire la rappresentanze cilena all’Avana. “Arrivai un venerdì, e Fidel mi fece un discorso di tre ore”, ricorda. “Meno, non parla. Mi disse: perché hanno mandato te, che sei uno scrittore? Noi qui a Cuba l’epoca dei diplomatici scrittori l’abbiamo passata da un pezzo. Il giorno dopo scesi al bar dell’hotel, e ascoltai alcuni intellettuali che criticavano Fidel”.

Tra loro c’era il poeta Heberto Padilla, che il 20 marzo del 1971 sarà arrestato. Colossale scandalo che per la prima volta smaschera l’autoritarismo di Fidel, il caso Padilla provoca anche la famosa scissione tra i grandi del boom latino-americano. All’inizio, infatti, sia Vargas Llosa che García Márquez e Cortázar firmano un appello in difesa del poeta perseguitato. Quando però Fidel fa la faccia feroce anche con loro e li riempie di insulti, l’argentino e il colombiano si tirano indietro spaventati, rompendo con il peruviano. Amico di troppa gente che per Fidel non è raccomandabile, Edwards viene espulso: la vicenda è raccontata in un libro famoso, “Persona non grata”. “Ero andato a Cuba malgrado gli insistenti consigli che mi aveva dato in contrario, con le dovute riserve, il mio amico Pablo Neruda”, spiega. “Ricordo che una sera Fidel mi convocò nella redazione di Granma e mi disse che se noi cileni nell’iniziare la nostra avventura socialista ci fossimo trovati in difficoltà, potevamo chiedergli aiuto: ’Noi cubani saremo pure cattivi per produrre – aggiunse – ma per combattere siamo buoni’. Cile e America latina non avevano bisogno di aiuto militare, ma di sviluppo, educazione, agricoltura efficiente. Ci sbagliammo quasi tutti, ma quando io compresi i miei errori personali e scrissi sul tema fui implacabilmente castigato e censurato”. Non solo da Fidel, peraltro. Dopo la disavventura cubana, Edwards torna infatti con Neruda all’ambasciata di Parigi, ma di lì a poco c’è il golpe a Santiago. Il diplomatico che Castro ha già cacciato da Cuba, il generale Pinochet lo caccia addirittura dalla carriera, costringendolo per un po’ in esilio. Solo nel 1978 potrà tornare, mettendosi pure là alla testa degli scrittori dissidenti. “Il regime di Pinochet non solo smantellò il sistema di appoggi statali alla cultura che in Cile erano sempre esistiti”, spiega: “Ma pur pretendendo che la cultura dovesse finanziarsi da sola, le impose carichi fiscali che prima non esistevano, come un’Iva del 20 per cento. E ciò fu accompagnato dall’introduzione della censura: un vero trauma, perché era un istituto totalmente estraneo alla storia del Cile.

Nel periodo coloniale infatti, con l’Inquisizione che aveva sede a Lima ed era quindi troppo lontana per poter effettuare dei controlli seri, entravano libri di tutti i tipi. Con l’indipendenza arrivò anche il principio della libertà di stampa, che passò indenne attraverso crisi politiche di ogni genere. In qualche rara occasione si censurarono i giornali, ma mai in tutta la storia del Cile indipendente ci si era permesso di proibire dei libri. Il primo fu Pinochet, la sera stessa del colpo di stato. Creò un sistema di censura brutale che colpì tutto, libri e giornali, teatro e cinema, musica e pittura. Molta gente dovette andare in esilio, e anche questo fu un fatto completamente nuovo nella storia del Cile indipendente. Fu un periodo molto duro che si protrasse fino al 1977-’78. Dopo le cose lentamente cambiarono. Gruppi di intellettuali cominciarono a riunirsi di nuovo in piccoli gruppi intorno ad alcune riviste”. Edwards ricorda bene quel periodo perché coincise col suo ritorno in Cile. “Io venivo dalla Spagna postfranchista, dove si respirava un clima di grande fermento, e mi ritrovai in un mondo dove la gente si incontrava in piccoli luoghi molto oscuri. Sembrava di essere nelle catacombe. C’era una forte sensazione di paura e ognuno guardava le facce degli altri chiedendosi: ‘Quale sarà il poliziotto?’. Però ci si muoveva. I politici erano ancora sotto controllo, ma gli scrittori erano più liberi, perché venivano considerati meno pericolosi. Alcuni giornali cominciarono allora a offrire loro delle colonne su cui scrivere. Si trattava di cose già molto autocensurate, in cui si facevano critiche tra le righe, ma la gente le capiva. La censura sui libri rimaneva però un problema grave. Perché un’opera potesse circolare era necessario chiedere un’autorizzazione preventiva al ministro dell’Interno e questo, per non crearsi l’immagine del persecutore, invece di porre un divieto esplicito si limitava a non rispondere. E se un libro circolava senza autorizzazione si andava incontro a multe salatissime. Non si finiva in carcere, no: semplicemente, si veniva completamente rovinati, e la paura della rovina economica paralizzava tutti. Per combattere questo stato di cose costituimmo allora il comitato degli scrittori contro la censura, di cui fui eletto presidente. Facemmo una lista delle opere bloccate per mancanza di risposta e iniziammo a tenere conferenze stampa, denunciando la situazione. La lotta andò avanti finché il regime non fece un passo falso”.

Curiosamente, proprio il pamphlet anticastrista “Persona non grata” farà da ariete contro la censura pinochettista. “Un funzionario della dogana vietò l’ingresso del libro, che era stato pubblicato in Spagna. Questo era illegale, perché decisioni di tale portata potevano venire prese solo a livelle di ministro. Colsi la palla al balzo e feci ricorso presso la Corte suprema, che se ne lavò le mani, emettendo un giudizio di natura puramente amministrativa nel quale mi si consigliava di chiedere la famosa autorizzazione. Lo scandalo era stato però tale che una settimana dopo la sentenza l’autorizzazione preventiva fu abolita e i libri poterono ricominciare a entrare”. Restò però la censura economica. “Con l’Iva al 20 per cento e nessuna sovvenzione statale i libri erano troppo cari. I cileni restarono i più grandi lettori dell’America latina, ma iniziarono a passarsi i libri tra di loro, e a creare tante piccole biblioteche private. Anche i contenuti cambiarono. Dalle grandi opere di carattere epico e sociale, come il ‘Canto General’ di Pablo Neruda si passò a testi più brevi, più analitici, con più elementi umoristici e fantastici”. Comunque, secondo Edwards era sempre meglio stare sotto Pinochet che sotto Fidel. “A Cuba lo stato non si fidava degli intellettuali perché pensava che si trattasse di gente sempre pericolosa. L’intellettuale cercava allora di sopravvivere in una rivista o in un’università, ma la sensazione di essere considerato una minaccia non lo abbandonava mai. In Cile invece, dal momento che il sistema lo permetteva, l’intellettuale indipendente si è potuto trasformare in un piccolo imprenditore. Io ho aperto una libreria, altri hanno incominciato a stampare i propri libri e a venderseli per conto proprio. La paura che si provava era uguale da tutte e due le parti, ma il mercato mantenne in Cile degli spazi di libertà che a Cuba non esistevano”.

Già sostenitore di Allende, già nemico di Pinochet, nel 2010 Jorge Edwards si schiera però col candidato presidenziale della destra Sebastián Piñera. “In realtà non ho partecipato alla sua campagna, ma ho scritto un articolo per dire che la Concertazione dei partiti del centro-sinistra doveva rinnovarsi, e che un’alternanza in democrazia è sempre salutare”. La stampa riportò che con Michelle Bachelet ancora presidente, dopo questa presa di posizione Edwards fu escluso dall’atto inaugurale del V Congresso internazionale della lingua spagnola di Valparaíso. “Lo sa che lei si rammenta di quella storia meglio di me?”, si schermisce. Ma Piñera lo chiamò. “Mi disse: ti invito a una cena con un amico tuo. Era Vargas Llosa, che passava allora per il Cile. Mi disse: voglio darti un incarico nel mio governo. Pensai: sono vecchio, ormai, non mi interessa. Però gli chiesi: che incarico? Lui rispose: Parigi!”. Edwards, che nonostante il cognome e le origini anglosassoni si definisce “cileno francesizzato”, non poté rifiutare e divenne così una seconda volta ambasciatore cileno a Parigi. Oggi confessa che “non fu una grande idea. Quaranta persone alle mie dipendenze, e sempre qualcuno con qualche problema. E poi un gran flusso di cileni che venivano a Parigi, e che volevano le cose più impossibili. Fu una grande fatica, quasi una tortura”. E’ pensando a quel regalo trasformatosi in incubo che si dice “non sicuro” di rivotare Piñera alle prossime elezioni? “Ha governato bene, ha rispettato le libertà civili, l’economia è cresciuta, la legislazione sociale è addirittura migliorata. Ma ha mancato sul fronte della cultura”. Edwards continua a non digerire quell’Iva al 20 per cento sui libri, che Pinochet impose e che tutti i governi democratici successivi hanno mantenuto. “Soffoca il mercato, ma nessuno la tocca. Perfino Michelle Bachelet. Gliene parlai a una cena, lei mi promise di istituire una commissione, ma non ne ho saputo più niente”. Iva sui libri a parte, secondo Edwards “la Bachelet ha avuto una politica economica presuntuosa, che ha fatto danni”.

Al prossimo voto è tentato dunque di astenersi, anche se dice di avere fiducia in Ricardo Lagos: il socialista pragmatico che già fu presidente prima della Bachelet. Comunque, se per il diplomatico il ritorno a Parigi fu “una tortura”, per lo scrittore è stato invece l’occasione per conoscere la storia di María Edwards: la protagonista di “La ultima hermana”, romanzo che Edwards è venuto a presentare poche settimane fa all’Istituto Cervantes di Roma su invito dell’ispanista Gabriele Morelli. “Mi chiedevano in molti se ero suo parente. In realtà lei era dell’altro ramo della famiglia: quello ricco, i possessori del quotidiano El Mercurio. Ultima di 14 figli, amante dela vita mondana, era andata a Parigi per conoscere letterati, bere cocktail e giocare a bridge, dopo che suo marito si era suicidato per amore di un’altra. Era una donna frivola che non capiva niente di politica, ma con l’occupazione tedesca per puro amore della vita era diventata un’eroina, salvando quaranta bambini ebrei, e venendo pure torturata dalla Gestapo. Le diedero la Legion d’onore e il suo nome è nel Muro dei Giusti di Israele, ma per assistere quei bambini si rovinò economicamente. Tornò dunque in Cile, con un compagno che era esule repubblicano spagnolo, figlio di madre ebrea e anche bisessuale, e che ora è sepolto con lei. La famiglia ne fu talmente scandalizzata che i parenti, quando seppero che stavo scrivendo questo libro, mi scrissero: ‘Jorge, lascia riposare María tranquilla!’. Però mi sono venuti a trovare anche due dei bimbi da lei salvati, ora settantenni”.

E’ un libro che sta avendo molto successo, come in generale gli altri di Edwards. Che però in Italia non vengono tradotti. Con eccezione di “Persona non grata”, la cui edizione Bompiani del 1975 restò praticamente clandestina: si dice per opera dell’apparato culturale del Pci, attento a che quel pamphlet anticastrista non lasciasse traccia. E con l’eccezione di “L’origine del mondo”, a cura però di una casa editrice di Nardò non troppo nota. “Mi dissero che avevano venduto una sessantina di copie”, dice Edwards. A Pci morto, resta ancora su Edwards la damnatio memoriae da esso decretata? “Sembrerebbe di sì, ma io ho speranza che quest’ultimo libro possa infine infrangere la maledizione. E forse anche quello che ho appena finito di scrivere e deve ancora essere pubblicato: un romanzo breve su un amore giovanile di Neruda in Birmania”. Un ricordo finale di Fidel? “Prima di chiudere la porta dello studio in cui si era riunito con me prima della mia partenza dall’Avana, una domenica sera del marzo o aprile del 1971, mi fece una domanda curiosa e si rispose da solo: ‘Lo sa che cosa mi ha sorpreso di più di questo incontro?… La sua tranquillità’. Forse si aspettava che svenissi dal terrore davanti alla sua collera. Ma già io sapevo perfettamente che questa collera non era di origine divina: era quella di un dio venuto meno, di un messia fallito, per disgrazia sua e di molta, troppa gente”.

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