Dimenticare nostro padre

Giorgia Mecca

La recensione del libro di Francesco Bolognesi (66thand2nd, 160 pp., 15 euro)

Non avremmo saputo descriverci, parlare di noi. L’unica cosa che sapevamo, il nostro vero linguaggio – quello che rappresentava la parte di mondo, infinitesima, ma per noi enorme, che conoscevamo –, era il calcio”. E’ l’estate del 2006, quella di Calciopoli prima e della vittoria del Mondiale poi, un gruppo di ragazzi di San Zenone, paesino in provincia di Ferrara, trascorre i pomeriggi a giocare a pallone mentre aspetta di cominciare le scuole superiori. Il campo è la misura della vita di questi ragazzi, educazione sentimentale e umana. Dimenticare nostro padre, romanzo d’esordio di Francesco Bolognesi, finalista al premio Italo Calvino, racconta un lungo luglio di paese, con il sole che non tramonta mai e il pallone sempre sotto il braccio, a correre in mezzo a giornate infinite, a scoprire cosa significa sentirsi amici, maschi, figli dei propri genitori. “Loro quando li vedevamo in ambienti in cui non erano i nostri padri, parlavano di calcio, di politica, mai di religione. Parlavano degli altri, mai di sé stessi. Conoscerli sembrava impossibile, imitarli necessario”. I ragazzi conoscono le canzoni dei loro nonni, le filastrocche che hanno ascoltato in casa, Lenin e Mao Tse Tung, la politica per sentito dire, un modo di stare al mondo imparato a memoria come le preghiere. Si fidano di chi li ha messi al mondo, li lasciano parlare al posto loro. “Com’era successo che avevamo dato un calcio al primo pallone? Era stato nostro padre a mettercelo tra i piedi o eravamo stati noi a volerlo fare vedendolo guardare le partite?”. I giorni proseguono lenti e sempre uguali a San Zenone, un posto in cui nessuno è chiamato con il proprio nome ma tutti vengono ribattezzati con uno scutmai, il soprannome, l’appellativo che dice chi siamo davvero. E così Eruzione, Mietitura, Ilvangelo, Gas e Oro tutti uniti da una passione ereditata a cui si sono sottomessi volontariamente e dalla consuetudine: catechismo la domenica mattina, campionato seduti sul divano nel pomeriggio. I giornali, quell’anno, parlano di interrogatori, di Juve retrocessa, Luciano Moggi e partite vendute, un calcio talmente lercio da far venire il voltastomaco; in televisione mentre tutta l’Italia fissa lo schermo con le mani in bocca o tra i capelli, Francesco Totti infila il pallone in alto a sinistra, segna, si infila un dito in bocca e corre a festeggiare mentre l’Italia intera urla e ride e da lì a pochi giorni vincerà il Mondiale. “Ma cos’era il calcio per noi? Cos’era il calcio per i nostri padri, i nostri nonni, per i tifosi? Avevamo pensato che fosse la passione per il calcio a definirci, a farci considerare addirittura migliori. Ma l’avevamo scelto noi?”. Forse è vero che lo sport è il modo più semplice e più naturale per rimanere legati ai propri padri, per continuare a sentirsi figli, una delle troppe cose che fanno parte di noi senza che noi lo decidiamo. “La verità è che eravamo tutti come l’Isacco della Bibbia, seguivamo il padre, in tutto quello che faceva, nell’amore per il calcio, nel pensare di essere di sinistra, nel dire terrone”. Uccidi tuo padre, consiglia Freud, ma come racconta questo romanzo ogni domenica passata in tribuna è il modo che hanno i figli di dirgli “rimani seduto al mio fianco”.

 

Francesco Bolognesi
Dimenticare nostro padre
66thand2nd, 160 pp., 15 euro

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