Gente di bordo

Matteo Muzio

di Luca Lo Basso, Carocci, 192 pp., 20 euro

Gli stati in epoca moderna erano organizzati spesso in maniera confusa e farraginosa, senza un modello chiaro. Questo era anche il caso della Repubblica di Genova, che non riuscì mai a trovare una forma di governo pienamente funzionale. Quello che però era certo era la dipendenza della piccola repubblica dai commerci marittimi. E per garantire la sicurezza vitale delle linee marittime investì molto sulla formazione di chi doveva portare a destinazione un carico di merci, del denaro oppure, semplicemente, dei passeggeri. E le controversie tra capitani e marinai, tra padroni e dipendenti, venivano dibattute da un tribunale apposito, quello dei Conservatori del Mare. Lo Basso parte proprio da questo aspetto. Ribaltando la concezione di alcuni storici marxisti che vedevano nei tribunali degli strumenti del potere per opprimere le classi lavoratrici. E che invece, analizzando nuove carte di queste antiche magistrature, si rivelavano spesso degli utili strumenti che potevano raddrizzare torti e arbitri che si verificavano in mare. Questo avveniva non solo a Genova, ma anche ad esempio a Nizza, all’epoca possedimento sabaudo o nella francese Marsiglia. Nonostante la scoperta dell’America dunque, le rotte mediterranee rimangono cruciali, specie per quello che riguarda le rotte dirette in Nordafrica e in Sicilia, dove la Repubblica si approvvigiona di cereali e di beni di lusso come il corallo. Alla preparazione dei capitani spesso vengono affidati carichi preziosi e si presta denaro a interesse, usando il prestito marittimo, una forma di finanziamento in cui il rischio ricade sul creditore. Non sempre però i capitani davano il buon esempio. Il capitano Tommaso Campanella venne accusato nel 1729 di fare la cresta sulle razioni dei marinai, tagliandole senza motivo. Giovanni Battista Raggio, invece, padrone di feluca di trasporto passeggeri (in questo caso padrone vuol dire comandante di una nave piccola, nel gergo marinaresco), il 15 agosto 1796 fu responsabile di un grave naufragio alle porte di Genova, per disattenzione sua e della sua flotta, in cui morirono quindici persone. Nel processo, che andò per le lunghe anche per la volontà del governatore di Chiavari, che aveva perso due servitori nel naufragio, si scoprì la negligenza del comandante Raggio, che era stato distratto nel momento decisivo e che una volta capovolta l’imbarcazione, scelse di abbandonare la nave, come uno “Schettino del Settecento”, per usare una definizione dell’autore. Provò anche a corrompere testimoni e a cercare appoggi politici e fu solo grazie alla caduta della Repubblica di Genova il 17 giugno 1797 che Raggio scampò a una condanna quasi certa. La maggior parte dei capitani però si comportò in modo saggio e avveduto e anche se alcune pratiche illegali come il contrabbando e la pirateria furono difficili da estirpare, quasi sempre i congiunti potevano contare su entrate sicure durante tutta la vita e, quando il comandante veniva a mancare, su un ricco lascito testamentario. Proprietà immobiliari, rendite finanziarie in forma di vitalizi per la vedova o per le figlie nubili, oggetti preziosi e opere d’arte, fabbriche di cordami. Paradossalmente, erano molti di più gli oggetti lasciati a terra, i quali richiedevano un inventario da svolgersi in diversi giorni, come nel caso del capitano Moreno, morto nel 1701. Persone quindi che garantivano un tenore di vita agli abitanti di una repubblica che non riusciva né a prosperare altrimenti, né a riformarsi, e quando dopo il Congresso di Vienna la Liguria venne assegnata al Regno di Sardegna, questa esperienza fu cruciale per costruire da zero o quasi la nuova marina mercantile del futuro stato italiano.

 

GENTE DI BORDO
Luca Lo Basso
Carocci, 192 pp., 20 euro

Di più su questi argomenti: