Le nuove regole dell'economia

Federico Morganti
Joseph E. Stiglitz
Il Saggiatore, 189 pp., 22 euro

    La Grande recessione del 2008 ha mandato a nozze i critici della globalizzazione e del sistema genericamente etichettato come “capitalismo”. Tra quelle voci, Stiglitz è ancora in prima fila, la sua battaglia quella di sempre. Negli Stati Uniti l’aumento della diseguaglianza è per Stiglitz frutto di scelte politiche precise, che hanno avvantaggiato le big corporation e i profitti dei più ricchi, penalizzando i lavoratori e le fasce di reddito più basse. Le politiche che avrebbero provocato questi e altri disastri compongono un perfetto elenco delle bestie nere dei liberal: deregolamentazione dei mercati, tagli alle aliquote dei più ricchi, erosione dei diritti dei lavoratori, a cominciare dal diritto alla contrattazione collettiva.
    Non mancano le idee di buon senso. Le rendite di posizione, i salvataggi delle banche too big to fail e diritti di proprietà intellettuale troppo stringenti hanno senz’altro delle ricadute rilevanti, proprio dal punto di vista della diseguaglianza. Ciò che Joseph Stiglitz notoriamente contesta è l’idea che per promuovere l’uguaglianza basti semplicemente lasciare i mercati liberi di funzionare: questa ricetta è stata già sperimentata, lui dice, e non ha funzionato. Che la classe media si sia impoverita è tesi già di per sé controversa; in aggiunta, è vero anzi che a porre un freno all’uguaglianza e al potere d’acquisto delle famiglie sia spesso la regolamentazione. Nell’ultimo ventennio le maggiori lievitazioni dei prezzi si sono avute nei beni e servizi per i quali il controllo governativo è maggiore, a cominciare dalle rette universitarie e le spese sanitarie, mentre televisori, software e telefonia – in virtù di mercati non regolamentati – sono diventati più accessibili. Per non parlare del settore dentistico, farmaceutico e immobiliare, dove le barriere regolatorie tendono a proteggere dalla concorrenza chi già opera sul mercato.
    Che dire dei mercati finanziari? Il libro accoglie la consueta ricostruzione che vede all’origine della Grande recessione la deregolamentazione di quei mercati. Per chi non aspetta altro che un’occasione in più per regolamentare, si tratta di una narrativa necessaria; ma la sua solidità è quantomeno dubbia. Dal 1980 allo scoppio della crisi i provvedimenti di carattere deregolatorio sono stati tre: il Depository Institutions Deregulation and Monetary Control Act (1980), il Garn-St. Germain Depository Institutions Act (1982) e l’abrogazione del Glass-Steagall Act (1999). Per il resto la regolamentazione del mercato finanziario è andata aumentando. La stessa dinamica del too big to fail, da Stiglitz giustamente deprecata, è sintomo di una presenza statale che più invadente non potrebbe essere, ed è la stessa ad aver incoraggiato il comportamento irresponsabile degli erogatori di servizi finanziari.
    C’è spazio anche per l’innalzamento del salario minimo. Una misura che Porto Rico e Seattle hanno sperimentato di recente, con effetti drammatici su quell’occupazione che a Stiglitz sta (giustamente) a cuore. Fu lui stesso a spiegarlo bene, in un passaggio del suo “Economics” (1993): “Se il governo innalza il salario minimo al di sopra del salario di equilibrio, la domanda di lavoro sarà ridotta e l’offerta aumentata.
    Ci sarà un eccesso di offerta di lavoro”, ovvero più disoccupazione. Questa semplice applicazione di concetti economici fondamentali oggi, per Stiglitz, non funziona più. Che siano dunque la domanda e l’offerta le regole dell’economia che Stiglitz intende riscrivere?

     

    LE NUOVE REGOLE DELL'ECONOMIA
    Joseph E. Stiglitz
    Il Saggiatore, 189 pp., 22 euro