La guerra verticale

Roberto Raja
Diego Leoni
Einaudi, 576 pp., 36 euro

    Già prima della ricorrenza centenaria, anche l’escursionista estivo, l’alpinista per caso cui non siano sfuggiti qua e là sulle cime delle Dolomiti, sulla Marmolada o l’Adamello certi residui della Grande guerra – segni e testimonianze di un’ardita presenza arroccata su un picco, di un improbabile avamposto, di un rifugio scavato nella roccia – fermandosi un momento sotto il cielo più azzurro, si sarà chiesto stupito “ma come avran fatto?”. Come avranno fatto quei soldati, italiani o austriaci, non solo a combattere e morire, ma a vivere e sopravvivere fin lassù, ad arrivarci con i loro zaini, le armi, l’equipaggiamento. E a essere in tanti, una massa che in pochi mesi popolò quei territori. E a sopportare il freddo d’inverno, che vuol dire notti col termometro a dieci, quindici, venti gradi sotto zero, e la neve fuori alta tre o quattro metri. Quei soldati – semplice dirlo ora – avevano dovuto conquistare, prima della vittoria, la montagna. Montagna “bieca, arcigna, inflessibile”, scriveva nel 1916 un ufficiale italiano.
    Come fecero, che cosa comportò la “guerra verticale” per gli uomini, gli animali e le cose, per gli eserciti che misero in campo nuove tecniche e nuovi saperi e per lo stesso spazio-paesaggio alpino, lo spiega con l’esattezza dei dati e dei documenti e con l’agilità del racconto appassionato il volume di Diego Leoni, compendio di trent’anni di studi e ricerche sulle carte d’archivio, la pubblicistica degli anni del conflitto e la grande mole della memorialistica. In quota, dunque, sempre più in alto, ma una volta fatti arrivare gli uomini, si doveva portare fin lassù l’acqua (perché era “un arsimento continuo” e soffrire la sete fu più frequente e feroce di quanto si possa immaginare) e con l’acqua gli alimenti per gli uomini e gli animali, il vestiario, gli attrezzi, le armi (“non vi fu parete di montagna, nessun monte, nessun ghiacciaio, nessuna valle alpina dove non siano stati issati cannoni”, scrisse poi un ufficiale austriaco). Bisognava costruire baraccamenti e tettoie, predisporre assi per le trincee, pali per il filo spinato, sostegni per le linee telefoniche ed elettriche. Per portare in quota tutto questo servivano uomini, animali e mezzi che avrebbero avuto bisogno di strade e sentieri, e per fare questo servivano, in un sistema che si autoproduceva all’infinito,  altri uomini, animali e mezzi che li costruissero.  Per il trasporto, all’inizio delle ostilità risultò insostituibile la forza animale: asini, muli, cavalli e perfino i cani in quantità. Soffrirono, senza combattere, anche gli animali: da parte italiana si contarono 76 mila perdite su un totale di 350 mila quadrupedi impiegati. Poi arrivarono le macchine: gli autocarri e le teleferiche, che si rivelarono fondamentali nella gestione logistica della guerra in quota, ma anche nuovi motori in grado di spingere l’acqua sempre più in alto, e una rete impressionante di acquedotti. “Quel che hanno costruito i soldati sui seicento chilometri del nostro fronte asprissimo, supera ogni concezione”, scriveva il tenente Michele Campana. Costruzione e distruzione, infine, perché “gli eserciti si impadronirono dello spazio alpino, lo scomposero e lo ricomposero”.  Così lo vide nell’agosto del 1919 Alcide De Gasperi, rientrato da poco in Trentino: “Tutte queste  montagne mostrano dappertutto ancora i solchi profondi che la guerra ha scavato fin dentro la loro ossatura, le lacerazioni della loro veste di verzura, gli schianti delle loro foreste”. E aveva appena alzato lo sguardo da quello che era stato un avamposto italiano, lì dove giacevano “ancora a brandelli alcuni cadaveri”.

     

    LA GUERRA VERTICALE
    Diego Leoni
    Einaudi, 576 pp., 36 euro