La guerra civile americana. Una nuova storia

Ermes Antonucci
Bruce Levine
Einaudi, 423 pp., 32 euro

Nel 1860, circa quattro milioni di esseri umani che risiedevano nel sud degli Stati Uniti vivevano in condizioni di schiavitù: posseduti per diritto da altri uomini. Costituivano un terzo dell’intera popolazione degli stati meridionali: una cifra stratosferica, fonte di prosperità economica e politica per una ristretta cerchia di famiglie (bianche) sudiste. Nessuno, però, poteva prevedere che nel giro di cinque anni la guerra civile avrebbe restituito libertà e dignità a questa ingente massa di persone, trasformando la società americana nelle sue fondamenta più profonde. A raccontare questa rivoluzione ci pensa, in maniera straordinariamente analitica, dettagliata e documentata, lo storico Bruce Levine in questo volume, pubblicato due anni fa nella sua versione originale e ora tradotto in italiano da Einaudi. La svolta prese avvio proprio nel 1860, con l’elezione alla Casa Bianca dell’antischiavista Abramo Lincoln. Intimoriti dall’ascesa di Lincoln e del Partito repubblicano, che denunciavano lo schiavismo e minacciavano di abolirlo, tredici stati del sud proclamarono la secessione, dando vita a una Confederazione e provocando la reazione militare del presidente. La guerra civile che ne derivò (1861-1865) seguì secondo Levine una traiettoria analoga a quella delle grandi rivoluzioni che hanno segnato la storia della civiltà contemporanea. In origine, infatti, scrive lo storico americano, Abramo Lincoln “andò in guerra non per trasformare la società del sud, ma per costringere gli stati schiavisti che l’avevano abbandonata a ritornare nell’Unione”, e tentò di raggiungere questo obiettivo soltanto con misure militari limitate e ben calibrate, impegnandosi nel contempo a non interferire con la questione schiavista. Questa politica di guerra conservatrice si rivelò insufficiente, e così Lincoln – che, peraltro, pur ritenendo lo schiavismo una “ingiustizia”, credeva nell’intrinseca diseguaglianza tra bianchi e neri – decise di accettare “l’inesorabile logica degli eventi”, adottando una strategia militare più aggressiva e una politica di guerra rivoluzionaria e portatrice di emancipazione. La caduta della “Casa dei Dixie”, come veniva chiamato l’insieme degli stati secessionisti del sud, pose improvvisamente fine alla schiavitù, prima attraverso il Proclama di emancipazione (1863), che sancì la libertà degli schiavi negli Stati dell’Unione, e poi con la ratifica del Tredicesimo emendamento della Costituzione degli Stati Uniti d’America, con cui nel 1865 la schiavitù venne abolita in tutti gli Stati Uniti. Lo smantellamento dello schiavismo ebbe un impatto epocale nei costumi economici, politici e socio-culturali della società americana: per i padroni, scrive infatti Levine, “lo schiavismo non era soltanto una necessità economica”, o soltanto una fonte di ricchezza e di comodità materiali, ma costituiva invece “il fondamento di una particolare visione della vita, con i suoi assunti, le norme, le consuetudini e i rapporti a cui si riferivano i padroni in quanto classe sociale”. Insomma, lo schiavismo “definiva i loro privilegi e modellava la loro cultura, la religione e persino le diverse personalità”, ed è per questo che dalla sua fine occorre partire per comprendere a pieno gli sviluppi che nell’ultimo secolo e mezzo hanno interessato la società statunitense. Certo, la strada per una piena emancipazione dei cittadini afroamericani si è rivelata, come sappiamo, lunga, tortuosa, e in alcuni tratti ancora sanguinosa, ma fu quella guerra a stabilire uno spartiacque fondamentale nella vita democratica del paese. “Il mondo – scrisse l’ex schiavo Frederick Douglass – non ha mai visto una guerra più nobile e grandiosa”.

 

LA GUERRA CIVILE AMERICANA. UNA NUOVA STORIA
Bruce Levine
Einaudi, 423 pp., 32 euro

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