le lettere

Confesso, davanti a Gigi Rizzi anch'io ho fatto girare la testa a BB

Chi ha scritto al direttore, Claudio Cerasa

Al direttore -  Mi scuso. Ma leggo sul Corriere che una maestra come la signora Milena Gabanelli non rinuncia a far sapere al mondo che una volta viaggiò in macchina con Brigitte Bardot. Mi ha eccitato a dire la mia. Sono stato quasi parente, e certo sodale di Gigi Rizzi, play-boy di Genova, almeno da quando doveva sposare Brigitte. Nicoletta era più stretta parente di Gigi, io studiavo con lei Medicina, per di più Anatomia, per di più a casa sua, quando Gigi capitò con Lei, e lo ripeto, con Lei, per presentarla alla sua mamma e alla sua zia. Dovevano sposarsi. Lei mi guardò. Mi riguardò. Non si sposarono più.
Andrea Marcenaro


  
Al direttore - Caro Cerasa, ci sono le fake news degli influencer amici (o al soldo) del Cremlino e ci sono le analisi dei principali centri di ricerca europei e statunitensi: Institute for the Study of War, Royal United Services Institute, Center for Strategic and International Studies, International Institute for Strategic Studies. Le prime narrano l’inarrestabile avanzata in Donbas dell’esercito russo. Le seconde raccontano una storia diversa, e cioè una guerra di attrito caratterizzata da avanzamenti territoriali lenti e molto costosi. Certo, il regime di Putin gode di un vantaggio che è proprio di un’autocrazia: può permettersi circa un milione di vittime, tra morti e feriti gravi, senza subire – almeno per ora – significative contestazioni interne. Un sacrificio umano enorme, che tuttavia non è bastato per conquistare l’intera oblast’ di Donetsk. Regione che include la “Fortress Belt”, una cintura difensiva rivelatasi impenetrabile. Di qui il “piano di pace” elaborato nel vertice di metà agosto ad  Anchorage: imporre per via negoziale ciò che la Russia non è riuscita a ottenere sul campo di battaglia. Poi Merz, Starmer e Macron hanno deciso di non giocare alla roulette truccata del baro di Washington. Quindi il croupier del casinò di Mar-a-Lago ha indossato i panni del poliziotto buono, che vuole bene sia al “coraggioso” Zelensky sia al “generoso” despota di Mosca. Aria fritta, perché  le due cose non stanno insieme. La questione dei territori occupati con la forza e di quelli che si vogliono annettere per via diplomatica non è solo il cinque per cento insoluto di un ipotetico accordo a portata di mano. Non ci sono garanzie di sicurezza che tengano se passa l’idea che la sovranità di un paese è negoziabile sotto il ricatto delle armi.  La questione decisiva, allora, non è fino a che punto l’Ucraina possa reggere una guerra di attrito. E’ fino a che punto l’Europa sia disposta a difendere i principi su cui si fonda la propria sicurezza. Simul stabunt, simul cadent: se questi princìpi cadono, non cadono solo per Kyiv, ma per tutti (Italia inclusa). 
Michele Magno

  

Zelensky ieri ha detto che ritiene che il dispiegamento di truppe straniere sul suolo ucraino rafforzerebbe le garanzie di sicurezza già offerte dai partner occidentali. Ha ripetuto che una tale mossa garantirebbe che Putin non aggredisca di nuovo l’Ucraina. E ha aggiunto che le garanzie di sicurezza per l’Ucraina dovrebbero essere approvate dal Congresso degli Stati Uniti e dai parlamenti dei paesi europei. La convinzione di Zelensky è che al fondo i parlamenti, nel mondo libero, dovendo scegliere tra la difesa di Kyiv e la capitolazione di un argine contro un paese sponsor del terrorismo come la Russia, non abbiano dubbi sulla parte con cui stare. Chissà che anche su questo non abbia ragione. 


 

Al direttore - L’approvazione del ddl Foti ridisegna radicalmente l’architettura del giudizio di responsabilità erariale in Italia. L’intervento si inserisce in un dibattito storico, quello sulla Legge 20/1994, che da trent’anni cerca un equilibrio tra la necessità di un’azione amministrativa efficiente e il dovere di chiamare i funzionari a rispondere dei propri errori. Un dibattito tra chi preme per una Pa più snella e chi esige controlli serrati su chi gestisce la res publica. Non esiste una soluzione semplice al dilemma. La famosa “paura della firma” è un fenomeno che paralizza le decisioni, spingendo i burocrati verso un’inerzia prudenziale che può danneggiare il paese. Il rischio opposto, però, è altrettanto reale. Una de-responsabilizzazione che fa pagare gli errori dei singoli alla collettività. Questa riforma non è isolata ma si inserisce in un solco che è stato tracciato sin dall’introduzione dello “scudo erariale” del 2020 e dall’inserimento del principio del risultato nel nuovo Codice dei contratti pubblici, che converge verso un unico obiettivo: creare un clima di fiducia. Serve accelerare la macchina dello stato, come auspicato anche dalla Corte Ccstituzionale in ottica Pnrr. Tuttavia, il prezzo di questa spinta rischia di alterare la responsabilità amministrativa. Il passaggio da una sanzione potenzialmente illimitata a un tetto di due stipendi erode le funzioni di deterrenza e risarcimento. Il danno eccedente graverà inevitabilmente sui cittadini. Persino lo storico “potere riduttivo” della Corte dei conti, che permetteva ai giudici di calibrare la condanna al caso concreto, viene oggi compresso dentro confini angusti. Il timore è che si smarrisca il rigore nel maneggiare il bene comune. In questo nuovo scenario, ad esempio, l’obbligo di assicurazione per colpa grave apre praterie per il mercato assicurativo ma pone un interrogativo etico ed economico: chi pagherà i premi? L’ingresso delle imprese assicurative nei processi comporterà un ulteriore mutamento della forma del giudizio contabile, con nuove parti processuali interessate all’ulteriore riduzione del già significativamente diminuito risarcimento rimasto in capo al responsabile.
Raimondo d’Aquino di Caramanico - Police&Partners