lettere

Quando la propaganda di un imam diventa istigazione all'odio

Chi ha scritto al direttore, Claudio Cerasa

Al direttore - Si può pensare quello che si vuole del provvedimento della Corte d’appello di Torino che ha annullato il decreto del ministro dell’Interno nei confronti dell’imam Mohamed Shahin. Si può anche condividerlo considerando le sue dichiarazioni pubbliche, poi corrette, un semplice capitombolo e che di certo l’Egitto non era una destinazione salubre. Senza però dimenticare che la ritrattazione avvenuta dopo l’incauta uscita può essere anche un’applicazione della “taqiyya” e cioè l’insegnamento e la pratica a dissimulare le proprie vere convinzioni quando si vive nella terra degli infedeli. Ma quello che più conta sono le conseguenze visibili del caso. Le manifestazioni e le reazioni politiche successive al decreto di espulsione sembrano una prova generale anche in Italia dell’islamo-gauchismo, tanto diffuso nella vicina Francia, una linea politico-culturale che contribuirà di certo ad assicurare la sconfitta delle forze di sinistra alle prossime elezioni. Intanto l’oppositrice iraniana Narges Mohammadi, premio Nobel per la Pace, picchiata e arrestata in Iran solo per aver partecipato a una manifestazione in ricordo di un avvocato perseguitato dal regime, è ancora in carcere. E i marciapiedi dinanzi al consolato iraniano, di Torino ma non solo, sono desolatamente vuoti. Un augurio a lei: per noi Iranian Lives Matter.

Guido Salvini

  

In Italia mi pare ci sia un problema sul fronte giudiziario quando si parla di islamismo. La magistratura (anche quella giudicante) tende a considerare la propaganda jihadista come qualcosa che ha a che fare con la semplice libertà d’espressione (dire che ci vorrebbero altri 7 ottobre lo è?). E la Corte d’appello, che ha respinto la richiesta di espulsione dell’imam di Torino, non dice che la propaganda non può mai essere istigazione, ma dice che in questo caso concreto non ha superato la soglia penale. Ma in una stagione storica in cui gli attentati possono essere architettati da lupi solitari attivati da remoto sulla base di alcune parole d’ordine si può considerare davvero la propaganda estremista di un imam come una semplice voce fuori dal coro e non istigazione concreta all’odio o alla violenza? E ancora: uno stato che rinuncia a interrogarsi sul nesso tra parole, radicalizzazione e violenza sta difendendo la libertà o sta rinunciando alla prevenzione? Risposte difficili ma necessarie e forse non scontate.


  

Al direttore - Ho letto in questi giorni sul suo giornale alcuni commentatori (fino a qualche anno fa attivi sul dossier) prospettare come unica soluzione per Ilva i forni elettrici. Ovvero la così detta “decarbonizzazione” su cui Emiliano ha convinto Urso, e che ha portato alla distruzione in corso del siderurgico. Come i migliori tecnici siderurgici hanno spiegato. Concordi invece, come abbiamo sostenuto in tutti questi anni da queste pagine, che si sarebbe potuta salvare solo con un rilancio degli altiforni. Sarebbe opportuno, quando si dispensano tali soluzioni, corroborarle con studi di fattibilità. Considerando che a pagarne il “bidone” elettrico saranno i contribuenti.

Annarita Digiorgio


 

Al direttore - Ho un piccolo racconto che vorrei condividere con i lettori del Foglio. Dal 7 ottobre 2023 sono tornata in Israele dieci volte. Ogni viaggio è stato diverso per contesto, compagnia e momento storico, ma identico nel brivido che provo a ogni atterraggio. La prima volta, a febbraio 2024, il paese era ancora immerso nel lutto del più grande pogrom dalla Shoah: ostaggi nelle mani di Hamas, combattimenti in corso, Kfar Aza visitato con elmetto e giubbotto antiproiettile, un dolore fisico davanti alle case distrutte. Poi sono arrivati i viaggi con la famiglia, durante Pesach, quando un tempo si cercavano solo mare e vacanza e ora si camminava ogni giorno verso la piazza degli ostaggi, fra turismo azzerato e silenzi pesanti. Viaggi di solidarietà, spesso da sola, per portare aiuti a soldati appena rientrati dalla Striscia, impreparati a una guerra così lunga. Viaggi di testimonianza, come quello al valico di Kerem Shalom, mentre il mondo accusava Israele di bloccare gli aiuti che invece vedevo passare davanti ai miei occhi. Il più intenso è stato quello con mia figlia, nel febbraio 2025, durante la tregua e la liberazione di alcuni ostaggi. Tre giorni sotto la pioggia in piazza, l’abbraccio collettivo, la gioia e la rabbia intrecciate, una crescita improvvisa che nessun concerto potrà mai sostituire. Poi ancora Pesach, ancora la piazza, ancora la canzone “Ha Baita” che risuona come una preghiera ostinata. Fino all’ultimo viaggio, nel dicembre 2025. Porto con me immagini definitive: due bossoli nella stessa teca, uno dal Ghetto di Varsavia, l’altro da Nir Oz; ottant’anni di distanza, stessa cenere. Ma anche la ricostruzione: Ruchama che accoglie i sopravvissuti, Holit che rinasce tra ruspe e case nuove, bambini che tornano, alberi piantati a Ofakim. Il filo comune di questi dieci viaggi è uno solo: l’assenza totale di odio negli occhi delle persone incontrate. Solo una tensione ostinata verso il ricominciare e il guarire. Ancora una volta. Forse per l’ultima. Questa è la mia preghiera. Am Israel Chai. Il popolo di Israele vive.

Dalia Gubbay