Ansa

lettere al direttore

Resistere, resistere, resistere. Sicuro che basti, caro centrosinistra?

Chi ha scritto al direttore Claudio Cerasa

Al direttore- Caro Cerasa, forse il vento non è cambiato, ma qualche nuvola si affaccia su Palazzo Chigi. Provo a riassumere: Meloni è preoccupata per il calo di consensi, Tajani è soddisfatto per il motivo opposto, Zaia è troppo forte (ma solo in Veneto). Schlein esulta, la ruota di scorta populista (Conte) cigola ma i suoi voti fanno brodo, la ruota di scorta riformista (Renzi) gira ma solo in Campania, Fratoianni ha più o meno sempre il suo. La gigantesca astensione, infine, a naso si divide equamente tra destra, centro e sinistra. Se questo è il quadro, scordiamoci una riforma elettorale bipartisan (come si vociferava). Con il Rosatellum, il campo largo può giocare le sue carte. Senza l’abolizione dei collegi uninominali, l’attuale maggioranza rischia grosso alle prossime elezioni politiche. A chi scrive dispiace soprattutto che la campagna referendaria sulla separazione delle carriere, in cui è in ballo una questione di civiltà giuridica, diventerà il “terreno di Agramante” di una guerra senza esclusione di colpi tra cristiani e saraceni. Ma da un paese che vede un personaggio improbabile come Roberto Fico alla guida di una delle sue regioni più importanti, ci si può aspettare questo e anche qualcosa di peggio, e cioè la conferma che non conta governare con chi e per che cosa, bensì che conta governare a prescindere, come diceva il grande Totò.

Michele Magno

Il fatto che il centrosinistra esulti per aver mantenuto ciò che aveva colpisce. Il 4-2 era un segno di discontinuità, il 3-3 no. E quella delle regionali è la terza spallata andata a vuoto, dopo europee e Jobs Act. Con questa formula, il centrosinistra resiste e mantiene quello che aveva. Ma rispetto alle prossime elezioni rinunciare a essere espansivi significa semplicemente rinunciare a vincere le elezioni.

 

 

Al direttore - Sin dalla prima volta in cui mi sono trovato in condizione di raccontare che mio padre si era tolto la vita – ero nell’Aula della Camera e papà si era ucciso forse soltanto un’ora prima, io lo avevo saputo da non più due minuti – la domanda che mi viene rivolta è: “Era malato?”. No, mio padre non era malato, mio padre stava benissimo. Era perfettamente in sé, fisicamente e mentalmente, aveva soltanto stabilito – dato che si era determinato per tutta la vita – di essere lui a decidere quale fosse il momento di andarsene, il momento di uscire. Aveva 77 anni, Gabriele, e negli ultimi tempi mi era stato molto chiaro che il trentenne gagliardo – diventato settantenne pimpante, che avevo ammirato per tutta la vita – stava diventando un signore di ottant’anni. Più fragile e più debole. Una fragilità e una debolezza che, lo si sa tutti in questi casi, gli interessati e gli altri, non sarebbero migliorate con il tempo. Al contrario. Mio padre non stava male, non aveva alcun male inguaribile o condizione invalidante. Mio padre stava semplicemente invecchiando verso un’età alla quale fino a qualche decennio fa non si arrivava quasi mai e non era disposto a diventare qualcuno di diverso dall’uomo forte, autonomo e indipendente che era sempre stato. Tutto qua. Si può pensarne ciò che si vuole, ma quel che è certo è che la vita di cui ha disposto era la sua e nessuno – né io, né nessun altro – aveva il diritto di chiedergli di addentrarsi, contro la sua volontà, in una fase della vita nella quale i pilastri della sua biografia sarebbero venuti meno per le ragioni inesorabili della sua biologia. Prima di usare la pistola che legalmente deteneva da anni, da quando vivevamo in una zona isolata alla periferia estrema della nostra città e tornare a casa di sera nei difficili anni 70 era abbastanza un pericolo, papà ci ha scritto una lettera. Cito a memoria perché non la leggo volentieri, ma in quella lettera mi ha scritto tra l’altro una cosa come: “Perdonami se ti rubo qualche giorno per il funerale, ma sempre meglio che dovermi assistere per anni in qualche ospizio o ospedale in un futuro non lontano”, il che spiega meglio di qualsiasi altra cosa avesse in testa in quel momento. La ministra Roccella ha scritto la scorsa settimana, in un pezzo per il Foglio, che a queste persone dovremmo chiedere – io a mio padre e forse secondo lei anche alle Kessler, che non ho mai avuto l’onore di conoscere – “con fastidiosa e invadente insistenza: no, non andartene adesso. Dammi la mano, resta ancora con noi”. Lo trovo, per chi come me ha avuto una persona cara che ha deciso di morire per propria mano, un segno non di invadenza né di insistenza. La trovo semplicemente una volgare mancanza di rispetto: per chi è morto e per chi è restato. Quel pietismo peloso che in realtà nasconde una visione che certi religiosi integralisti intendono non soltanto seguire in prima persona, ma anche imporre a tutto il mondo intorno, che al mondo intorno a loro piaccia o meno. Le parole della ministra ignorano e infangano la fatica ormai antica ma ancora quotidiana di chi – come me, mia sorella, i suoi figli, i nostri cari – ha fatto e fa una fatica enorme a tenere insieme il dolore lacerante per la perdita irreparabile, la nostalgia struggente, il rimpianto per quell’ultimo abbraccio che non fu forte abbastanza perché non sapevamo fosse l’ultimo, e il rispetto profondissimo per la persona amata, per la sua ultima e suprema decisione di essere umano consapevole e arbitro insindacabile del suo proprio destino. Ancor più grave che le parole indecorose che mi è toccato leggere giungano da una ministra e da quella ministra che dovrebbe in teoria occuparsi delle pari opportunità nella nostra Repubblica. I senatori della sua parte politica osteggiano ormai da ben più di un anno l’approvazione della legge sulla quale lavoriamo e che anche la Corte costituzionale, oltre al popolo sovrano, richiede a gran voce da troppo tempo. Il risultato è che le persone che intendono non lasciare al destino o al caso ma determinare esse stesse l’ultimo momento, come ogni altro precedente della loro vita, continueranno liberamente a farlo. Alcuni nel rispetto della loro dignità di esseri umani, come hanno potuto farlo Alice ed Ellen Kessler in Germania. Altri, senza che quella dignità sia loro riconosciuta. Celebri come Mario Monicelli, schiantatosi sul selciato bagnato di pioggia di un ospedale a Roma. O sconosciuti al grande pubblico come Gabriele Scalfarotto, mio padre, che si è sparato al cuore l’8 di ottobre del 2013, in un campo vicino al mare a Manfredonia. In provincia di Foggia, Italia.

Ivan Scalfarotto

Risponderle, caro Scalfarotto, non è semplice, la sua lettera è toccante, ma credo che le parole della ministra si riferiscano a un ambito molto diverso da quello da lei descritto con coraggio e umanità. Il punto non sono le scelte personali. Il punto è, come succede in Germania, chiedere di trasformare una scelta personale in un diritto assoluto che lo stato deve garantire senza poter battere ciglio. Se si sceglie un piano inclinato, la pallina si sa da dove parte ma non si sa dove va a finire. Un abbraccio forte.

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