
Ansa
Lettere
Perché è pericoloso creare simmetrie fra la tragedia di Gaza e la Shoah
Chi ha scritto al direttore Claudio Cerasa
Al direttore - Rispondendo a Mieli che, ospite di Formigli e della sua trasmissione su La 7, si rifiutava di definire “genocidio” quel che succede a Gaza, Montanari ha così detto: “Tu ti puoi anche rifiutare di dire che l’acqua calda è calda, ma che a Gaza sia genocidio è una verità scientifica”. E’ la scienza dunque ad attestare che a Gaza è genocidio, secondo Montanari. Chiaro che Montanari di scienza capisce il giusto, ma la domanda che le sue parole impongono è: ma com’è possibile che uno di questo livello intellettuale sia rettore di una delle più antiche e celebrate università italiane?
Roberto Volpi
Suggeriamo a Montanari, nel caso fosse troppo complicato chiedere a Liliana Segre cosa ne pensa del tema, una lettura istruttiva. Iannis Roder, responsabile della formazione al Mémorial de la Shoah e direttore dell’Observatoire de l’éducation alla Fondazione Jean-Jaurès, poche settimane fa sul Point ha ricordato l’Abc. “Genocidio” è una categoria giuridica rigorosa: richiede la prova di un intento di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo, e una messa in opera simultanea e sistematica di tale volontà. A Gaza vi è una tragedia assoluta ma questi elementi, dice Jaurès, non risultano: non c’è un progetto di annientamento del popolo palestinese né un dispositivo di sterminio generalizzato dei civili. E’ una guerra, terribile, feroce, oscena. E chi usa alcune parole precise per creare simmetrie lineari fra la tragedia di Gaza e l’Olocausto dovrebbe ricordare che la trasformazione di Gaza in un nuovo Olocausto ha un effetto chiaro e pericoloso: superare rapidamente la stagione del senso di colpa nei confronti degli ebrei. Con tutto quel che ne consegue.
Al direttore - Capisco che l’ottimo prof. Antonio Gurrado si diverta a provocare sul filo del paradosso, ma stavolta – se lo vogliamo prendere sul serio, come merita – sbaglia, e di grosso. Quando sogna la “separazione delle carriere”, auspicando che le famiglie educhino e la scuola si “limiti” a istruire, dimentica forse (o sottovaluta) il fatto che qualunque maestro è – volente o nolente – un educatore, e che attraverso l’istruzione si insegna inevitabilmente la vita, e uno stile di vita. “Separare le carriere” significa sminuire terribilmente la nobile professione del docente – a quel punto, davvero, sostituibile al 100 per cento con una macchina o un’intelligenza più o meno artificiale! No, caro prof. Gurrado, la soluzione non è la separazione, ma la triangolazione, e soprattutto una virtuosa (nel rispetto dei reciproci limiti) alleanza tra famiglia e scuola. Glielo garantisco, avendo il privilegio di presiedere da 15 anni le Scuole Faes - Famiglia e Scuola, che da ragazzo frequentai e che su questa alleanza si fondano da oltre 50 anni. Un caro saluto e grazie per l’attenzione a questi temi.
Giovanni De Marchi
Al direttore - Maurizio Landini: “Se attaccano la flotilla, sciopero generale tempestivo”. Confederazione dei sindacati di base: “Se fermano la flotilla, sciopero generale senza preavviso”. Benedetta Scuderi, europarlamentare Avs a bordo della flotilla: “Se ci impediscono di sbloccare il blocco, blocchiamo tutto”. Maria Elena Delia, portavoce della delegazione italiana della flotilla non a bordo della flotilla: “Se non ci fanno passare, manifestiamo in tutte le piazze italiane”. Ennio Flaiano: “Vogliono la rivoluzione, ma preferiscono fare le barricate con i mobili degli altri”.
Michele Magno
Per una volta, forse, la sinistra italiana, compresa quella sindacale, dovrebbe ascoltare Pedro Sánchez: “Non entrate nella zona di esclusione, perché farlo metterebbe seriamente a repentaglio la vostra stessa sicurezza. La missione della flotilla è lodevole e legittima, ma la vita dei suoi membri deve venire prima di tutto”. Sciopero generale? Forse più sciopero della ragione. Speriamo bene.
Al direttore - Anche l’Università Ca’ Foscari di Venezia si è allineata: interrotti i rapporti con “enti, istituzioni e università” israeliane, e ovviamente con i docenti che non riescano a dimostrare di non appoggiare la politica del governo Netanyahu. Lo sdegno di fronte a quanto i media stanno mostrando a ciclo continuo è comprensibile. Ma alcuni interrogativi sono ineludibili, eppure rimangono sempre senza risposta: la stessa sensibilità e lo stesso sdegno i docenti di Ca’ Foscari li hanno espressi anche davanti al massacro, alle decapitazioni, agli sventramenti di 1.200 civili ebrei il 7 ottobre? E quanto è durato quello sdegno? E la stessa interruzione di rapporti culturali i docenti di Ca’ Foscari l’hanno deliberata anche dopo l’attacco russo all’Ucraina? Credo di ricordare che a Ca’ Foscari ci sia un Centro studi sull’Arte russa (Csar) istituito con il sostegno dei due ministeri della Cultura e degli Esteri della Federazione Russa. Vi è chi abbia verificato che nel Comitato scientifico e fra i collaboratori russi non vi siano sostenitori della politica di Putin? Si è mai pensato di interrompere i rapporti con i musei russi e con i loro direttori? Si sono verificati i loro pedigree? Che l’anti Netanyahu sia spesso antisionismo e che l’antisionismo sia non di rado antisemitismo non è un mistero, purtroppo. Non si tratta di un’equivalenza necessaria a priori. E non lo si dice a difesa della politica del governo israeliano. Ma la politica di un governo non può giustificare l’interruzione dei rapporti culturali ed educativi, perché la cultura non è appannaggio di un governo, ma delle libere istituzioni di un paese e di un popolo. Purtroppo quel popolo è fatto in buona parte di ebrei, e ciò che vale per gli ebrei non vale, solo per fare un esempio, per i russi. A Ca’ Foscari, come del resto altrove, posizioni di non sviscerata passione per gli ebrei saranno esistite anche prima di Gaza, è normale, e può spiegare, ad esempio, il silenzio seguito al 7 ottobre: niente bandiere né manifestazioni di protesta, né ‘notti per Gaza’, nessuna condanna. Solo il silenzio imbarazzante dell’antisemitismo che diventa messaggio educativo per le nuove generazioni e condizionamento di giovani menti. A braci spente, l’antisemitismo non ha più vergogna. E, anziché costringere allo studio della storia, l’università scava trincee. Un’occasione persa di fare cultura.
Prof. Dario Calimani