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lettere al direttore

La miopia di lavorare alla pace con Hamas boicottando Israele

Chi ha scritto al direttore Claudio Cerasa

Al direttore - Grazie per la possibilità di rispondere al vostro editoriale sul ban di Israele dalle competizioni sportive internazionali. Lo faccio da uomo di sport, certo che lo sport sia, nel senso più alto, un atto politico. Fin dai tempi dell’antica Olimpia, oltre a essere strumento di pace e fratellanza, lo sport ha anche una natura sanzionatoria: non è un’opinione, lo dicono con chiarezza la Carta olimpica e gli statuti di Fifa e Uefa. Il punto, come voi osservate, è la doppia morale. Perché questi princìpi vengono applicati in modo così discrezionale? La lista di paesi sanzionati dal 1948 è lunga e per restare agli esempi che citate l’Iran fu temporaneamente sospeso dal Cio (1980), fatto che, insieme all’invasione sovietica dell’Afghanistan, portò l’Iran a decidere di non partecipare ai Giochi di Mosca, dalla Fifa (2006) per ingerenze “governative” e ripetutamente messo “sotto osservazione”; la Cina si autoescluse (1958-1979) per il riconoscimento politico di Taiwan da parte di Cio e Fifa: la Russia, come noto, è stata giustamente esclusa per l’aggressione all’Ucraina, violando perfino lo spazio temporale della “tregua olimpica”. Potrei citare dozzine di altri casi: la ex Yugoslavia (ricordate l’europeo vinto a sorpresa dalla Danimarca nel 1992?) o il Sudafrica, fuori 24 anni dai Giochi per l’apartheid. In quel tempo Mandela era in carcere e lo sport fu uno degli strumenti di pressione internazionale; quando Madiba uscì di prigione, in quel momento sì, divenne simbolo di riconciliazione con il Mondiale di rugby 1995, reso celebre dal film “Invictus”. E Israele? Perché, pur violando apertamente gli articoli della Carta olimpica e degli statuti di Fifa e Uefa, nessuno si pone la domanda? Cito un solo dato, frutto di chiara volontà politica: il 90 per cento delle strutture sportive palestinesi è stato deliberatamente distrutto. Lo sport può essere propaganda e, simmetricamente, la sua distruzione è un modo per cancellare un popolo, le sue passioni e identità. Io mi pongo la domanda e non solo: spero si alzino nuove voci, soprattutto di sportive e sportivi. Perché, così come è doveroso ribadire la condanna dell’azione terroristica di Hamas e la richiesta di liberazione degli ostaggi, è inumano non chiedersi, ciascuno nella sua competenza, che cosa poter fare, individualmente e collettivamente, di fronte alla più gigantesca catastrofe umanitaria di questo primo quarto di secolo.
Mauro Berruto

Grazie della lettera, caro Berruto. Quel che pensiamo lo abbiamo scritto ieri e, con tutto il rispetto, ci sembra una scelta miope, sbagliata e pericolosa (usiamo questi aggettivi morbidi perché le vogliamo bene). Glielo abbiamo già scritto. Non si sono visti appelli del Pd per escludere dalle Olimpiadi la Cina. Né per escludere l’Iran dalle competizioni internazionali. E ogni tentativo di boicottare Israele non fa il gioco di chi sogna la pace, la tregua, il cessare il fuoco (noi tra questi). Fa solo il gioco di chi vuole trasformare Israele in uno stato da demonizzare (a differenza dei paesi citati, Russia in primis, Israele resta una democrazia, e molti degli atleti che verrebbero discriminati rappresentano una bandiera, non la linea di un governo). Provi poi a porsi una domanda: Hamas sarebbe felice se l’occidente scegliesse di lavorare alla pace boicottando Israele? La risposta forse può suggerire una riflessione in più, al di là della tragedia assoluta di Gaza. Un abbraccio.

   


    

Al direttore - Caro Cerasa, previsto bel tempo su Anchorage. Ma anche in una giornata di sole può diluviare sulla libertà di un popolo. Salvo sorprese, è quanto probabilmente accadrà dopo l’incontro fra Trump e Putin. Immaginiamo pure che si arrivi a una tregua. Zelensky resterebbe con le sue rovine urbane e industriali, le sue infrastrutture civili distrutte, il suo territorio devastato, le sue migliaia di morti civili, le sue famiglie smembrate, i suoi giganteschi problemi di ricostruzione. In questo quadro, quali sono le condizioni di una pace giusta? Il misterioso scambio di territori di cui parlano i negoziatori americani? La demilitarizzazione dell’Ucraina di cui parla il Cremlino? Il niet al suo ingresso nella Nato? E che sarà delle oblast’ annesse con referendum farsa? E chi pagherà i danni di guerra? Vedremo. Vedremo se il tycoon newyorkese alla fine sposerà l’adagio di Erasmo da Rotterdam, secondo cui “la pace più ingiusta è migliore della guerra più giusta” (“Querela pacis”, 1517). Ma sul serio si può credere che, cedendo al ricatto di un tiranno, costui diventerebbe più indulgente? Accadrebbe esattamente il contrario, e i paesi che hanno conosciuto il tallone dell’Urss lo sanno bene. E’ vero, l’Ue ha confermato il suo indefettibile sostegno a Kyiv. Ma l’Ue al tavolo del negoziato non c’è. Paga così lo scarto enorme tra le sue promesse e le sue inadempienze. Tante chiacchiere (ombrello nucleare franco-inglese, invio di truppe europee ai confini del Donbas) e pochi fatti (aiuti finanziari e militari erogati col contagocce, armi vincolate a un uso esclusivamente “difensivo”). L’Europa saprà finalmente riscattarsi dalle sue ipocrisie e dalle sue viltà? Anche qui, vedremo. Nell’ottobre del 1939, Emmanuel Mounier pubblicò sulla rivista Esprit un saggio intitolato “Les Chrétiens devant le problème de la paix”. Con una palese allusione al “tradimento di Monaco”, il filosofo francese scriveva: “Questo pacifismo, nel settembre del 1938 non aveva a cuore la giustizia dei sudeti, né quella dei cechi, né quella dei trattati, né quella delle loro vittime, né l’ingiustizia della guerra, ma aveva una sola ossessione: che non si interrompessero i suoi sogni di pensionato. […] La pace è compromessa non solo dai guerrafondai ma anche dagli imbelli […]. E’ forse questo il comportamento che si addice ai fedeli di una religione la cui pietra angolare è costituita da un Dio fattosi uomo sulla terra?”. Sono parole nobili, espressione di un “realismo cristiano” sideralmente distante dal miserabile realismo politico esibito in questi anni da chi non ha compreso, o ha fatto finta di non capire, la posta in gioco nel conflitto russo-ucraino. Parafrasando Primo Levi, oggi accettare una pace ingiusta in nome di quel realismo significherebbe giustificare le responsabilità di chi doveva e non ha saputo, o non ha voluto, opporsi con coraggio al corso degli eventi. 
Michele Magno

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