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Landini batte Cofferati dieci a zero. Il giornalismo e la verità

Le lettere del 3 luglio al direttore Claudio Cerasa

Al direttore - “Il testo firmato non lo è di certo, si fa fatica perfino a definirlo”. E’ questo, in un’intervista al Fatto quotidiano, il giudizio sommario di Sergio Cofferati con riguardo all’avviso comune sullo sblocco dei licenziamenti sottoscritto dal governo e dalle parti sociali nei giorni scorsi. Peccato. Da un sindacalista della sua esperienza (che ha gestito con realismo piani di ristrutturazione di grandi imprese) ci saremmo aspettati che, fin dall’anno scorso, avesse incoraggiato Landini & compagni a non insistere sulle proroghe. E avesse salutato l’avviso comune come un atto di ravvedimento operoso.
Giuliano Cazzola

L’attuale segretario della Cgil, a differenza del suo illustre predecessore, conosce la differenza tra essere di lotta ed essere di governo e stavolta, anche grazie all’aiuto del governo, ha scelto di essere più di governo che di lotta, arrivando a una buona mediazione sullo sblocco dei licenziamenti. Inutile girarci attorno: Landini batte Cofferati dieci a zero.


 

Al direttore - Il mestiere del giornalista secondo Gaetano Salvemini: “Noi non possiamo essere imparziali. Possiamo essere soltanto intellettualmente onesti, cioè renderci conto delle nostre passioni, tenerci in guardia contro di esse e mettere in guardia i nostri lettori contro i pericoli della nostra parzialità. L’imparzialità è un sogno, la probità un dovere” (Prefazione a “Mussolini diplomatico”, 1932).
Michele Magno

Il giornalista che dice la verità non è quello che considera se stesso come il portavoce dei giusti, ma è quello che offre il suo punto di vista spiegando semplicemente da che parte sta. 


 

Al direttore - Leggo sempre il vostro quotidiano soprattutto perché ospita commentatori fissi delle più varie tendenze. Fra i quali Adriano Sofri è, dal mio punto di vista, uno dei più apprezzabili per chiarezza di scrittura, vastità di interessi e per una storia personale sulla quale tutti dovrebbero meditare. Sicché anche ieri ho cercato al solito posto la Piccola Posta di Adriano, certo di leggere qualcosa di interessante. Il pezzo che ho letto era effettivamente molto interessante. Sfotteva “il bue” a giusta ragione, chiamava in causa Pannella, e concludeva ripetendo concetti scritti ventuno anni prima, purtroppo ancora attuali, a mio modo di vedere del tutto condivisibili. Eppure, terminata la lettura, ho come l’impressione che qualcosa di essenziale sia rimasta nella penna dell’autore. Naturalmente posso sbagliare. In ogni caso mando un abbraccio fortissimo a Sofri, senza se e senza ma.
Mariano Guzzini

Lunedì sul Foglio vedrà che formidabile sorpresa le offrirà, su questi temi, il nostro Adriano Sofri.


 

Al direttore - La Bce avrebbe deciso di tenere una serie di riunioni il 6 e 7 luglio per accelerare i passi sostanziali nella revisione della politica monetaria, obiettivo a suo tempo assunto e da realizzare nell’anno. L’accelerazione è più che giusta perché, fino a quando pende una decisione in proposito, si può creare un contesto di indeterminatezza e di attese che nuoce alla conduzione del governo della moneta. Il principale problema che si pone è se  e di quanto innalzare il target dell’inflazione oggi fissato “intorno ma sotto il 2 per cento” per corrispondere al mandato conferito all’Istituto dal trattato Ue per il mantenimento della stabilità dei prezzi. L’aspetto più rilevante riguarda poi il progettato raccordo tra politica fiscale e politica monetaria. Non basta dire che si escluderebbe la dominanza fiscale e che sarebbe, invece, un raccordo a dominanza monetaria, data l’indipendenza della Bce, nonché i vincoli del trattato. Ma indipendenti sono anche i governi. Dunque, il rapporto deve essere paritario, rispettando le reciproche autonomie e indipendenze. Ma non è un’operazione semplice. E’, però, fondamentale che dalle proposizioni generali si passi al “come”.
Angelo De Mattia



Al direttore - “C’è speranza?”. Secondo Julián Carrón, recensito da Ubaldo Casotto il 30 giugno, è la domanda “più razionale che ci si possa porre di fronte a una pandemia che ha scardinato tutte le certezze che noi, figli della cultura cosiddetta occidentale, abbiamo irragionevolmente coltivato”. Si ha memoria di un’ottantina di gravi pandemie in 2.500 anni, dalla peste di Atene del 429 a.C., alla febbre dengue del 2019. La sola certezza su cui possiamo “ragionevolmente calcolare” è che le pandemie sorgono, uccidono, scompaiono; la sola tecnica, nell’attesa dei vaccini, è ancora quella di isolare i malati. Per i più gravi, la tecnologia dei respiratori: ne avremmo avuto uno per non morire soli e soffocati? Una domanda straziante: ma ho difficoltà a scorgervi “la fine di un’illusione, l’esito paradossale della parabola della modernità”.
Franco Debenedetti