Come difendere davvero i lavoratori: più attuale che mai la lezione di D'Antona

Le lettere del 21 maggio al direttore Claudio Cerasa

Al direttore - E’ successio qualcosa?
Giuseppe De Filippi
 


Al direttore - Il 20 maggio 1999, alle 8.30 a Roma, a pochi passi da casa sua, viene atrocemente ucciso Massimo D’Antona, giurista e docente universitario di Diritto del lavoro nella facoltà di Scienze politiche dell’Università La Sapienza di Roma, consulente dell’allora ministro del Lavoro, Antonio Bassolino. Poche ore dopo, arrivò la rivendicazione delle nuove Brigate Rosse: “La nostra organizzazione ha individuato il ruolo politico-operativo svolto da Massimo D’Antona, ne ha identificato la centralità e, in riferimento al legame tra nodi centrali dello scontro e rapporti di forza e politici generali tra le classi, ha rilanciato l’offensiva combattente”. Il professor D’Antona fu ucciso per aver segnalato quanto accade nei paesi più avanzati in tema di diritto del lavoro, per essersi dedicato a costruire un ponte tra il consenso di oggi e quello di domani, per essere semplicemente stato uno studioso al servizio dello stato. Fu terribile: qualche giorno prima (il 12 maggio 1999), avevo sostenuto l’esame di Diritto del lavoro e lui era lì  sorridente in aula come sempre. Noi studenti eravamo affascinati dalle sue qualità umane e professionali. Era un uomo mite che del dialogo e dell’evoluzione del diritto del lavoro aveva fatto la sua filosofia di vita: per lui il diritto del lavoro doveva evolvere e adattarsi al mutare dei tempi, per poter conservare la propria essenziale funzione. Ricordarlo è un dovere e un segno di attenzione umana e civile. Queste morti violente ci devono far riflettere: non devono esistere ragioni di dissenso politico o sociale che possano giustificare forme di ricorso alla forza destinate a sfociare in atti così efferati.
Andrea Zirilli
 

Nel 2009, in un bellissimo articolo pubblicato sulla rivista Filt-Cgil, Pietro Ichino ha scelto di ricordare Massimo D’Antona ripubblicando un intervento scritto dallo stesso D’Antona dodici giorni prima di essere ucciso. In quell’intervento, D’Antona scrisse che nel processo di evoluzione in atto “il diritto al lavoro perde qualcosa rispetto ai densi riferimenti storici che lo connotano”; e questo qualcosa “è il forte orientamento all’avere, alla stabilità, all’uniformità. Avere il lavoro, ossia il posto, con le garanzie della inamovibilità… rimanda a un modello di impresa e di organizzazione del lavoro rigida, uniforme, durevole; un modello che tende al declino… Il diritto al lavoro sembra spostare il suo baricentro sull’essere, ossia sulla persona. Quando si parla di impiegabilità della persona del lavoratore… altro non si fa che prendere sul serio il diritto al lavoro come garanzia costituzionale della persona sociale, aggiornandola, però, come garanzia dell’essere e non dell’avere”. La lezione di D’Antona è più attuale che mai: per difendere i lavoratori non è necessario difendere ogni singolo posto di lavoro, ma occorre capire con intelligenza quali attività proteggere e quali accompagnare nel cambiamento.

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