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Il comunicato della procura di Milano che avremmo voluto leggere

Le lettere al direttore Claudio Cerasa del 1 aprile 2021

Al direttore - Il ministro Giovannini si espone, al contrario di altri ministri, con una certa frequenza ai dibattiti pubblici. Frequenza però inversamente proporzionale ai contenuti esposti. Nel gruppo di aficionados che lo seguono ormai da settimane si scommette su alcune cose. Quante volte nominerà la parola “sostenibilità”, quante la parola “resilienza” e quanti comitati ministeriali e interministeriali annuncerà. Vincono quelli che giocano al rialzo. Il professore sembra perennemente impegnato nella stesura di una corposa opera che potremmo intitolare “fenomenologia della resilienza sostenibile” o “della sostenibilità resiliente”. Forse Draghi potrebbe spiegargli che l’università è una cosa e il governo un’altra. E soprattutto che il governo non lavora per l’eternità, ma per i prossimi 18 mesi al massimo.
Luca Marroni

 

Lavorare per la sostenibilità va benissimo, anche se sarebbe interessante conoscere chi è che invece lavorerebbe appassionatamente per l’insostenibilità, ma va benissimo a condizione che venga fissato un paletto preciso, più culturale che politico: evitare che l’evocazione della sostenibilità-tà-tà non sia un concetto vuoto come a suo tempo lo fu l’onestà-tà-tà.

 


 

Al direttore - Prima scatenano la guerra sulla sentenza di assoluzione del caso Eni-Nigeria dicendone di tutti i colori a carico degli interlocutori, poi cercano di fare marcia indietro con una riunione che partorisce un comunicato “di pace”. E’ la storia degli ultimi giorni dei rapporti tra la procura e il tribunale di Milano. “La giurisdizione milanese ha sempre rispettato e valorizzato i princìpi costituzionali del giusto processo e dell’obbligatorietà dell’azione penale, della funzione del pm come organo di giustizia che dunque non vince e non perde i processi ma in conformità alle norme li istruisce”, si legge nella nota a firma del presidente del tribunale Roberto Bichi e del procuratore Francesco Greco. Insomma, questi signori in toga vorrebbero farci credere che non era accaduto nulla. Una riedizione di quanto gridava il mitico Everardo Dalla Noce durante la trasmissione “Quelli che il calcio”. “… ma alla fine non è successo niente”. Eppure, la mitica procura che fu di Mani pulite aveva spedito i colleghi di Brescia competenti a indagare sulle parole di un testimone largamente inattendibile secondo il quale due avvocati patrocinatori di Eni, Nerio Diodà e Paola Severino, ex ministro della Giustizia, avrebbero avuto “accesso” al presidente del tribunale Marco Tremolada. Brescia archiviava senza  iscrizioni nel registro degli indagati e senza interrogare nessuno. D’altronde, si trattava di cosa senza fondamento. Ma proprio per questa ragione la mossa della procura era stata eclatante. E infatti il presidente Bichi aveva preso una posizione netta mettendo nero su bianco la parola “insinuazioni”. Adesso arrivano i tarallucci e il vino, la voglia di metterci una pietra sopra al fine di evitare ulteriori imbarazzi. Ma resta che la procura si era mossa come il classico elefante in una cristalleria. Nonostante il procuratore aggiunto Fabio De Pasquale in sede di requisitoria con grande onestà avesse affermato “qui sia chiaro non c’è la pistola fumante”. La richiesta di condanna poggiava su una sorta di prova logica nell’ambito del cosiddetto rito ambrosiano nato con Mani pulite. I giudici hanno deciso di assolvere e non si tratta certo del primo processo in tema di corruzione internazionale in cui la tesi dei pm di Milano è stata sconfitta. Anche se il comunicato congiunto, quello della “pace”, dice di non voler sentire di processi vinti e persi. La toppa è peggio del buco.
Frank Cimini

 

Sarebbe stato più interessante leggere un comunicato da parte della procura contenente un messaggio diverso: ci dispiace, non costruiremo più processi senza aver raccolto prove dirette e basandoci solo sulle prove indiziarie.

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